«Se è sufficiente tendere una banconota
perché una bicicletta ‘m’appartenga’,
mi ci vorrà tutta la vita per realizzarne il possesso».
Jean-Paul Sartre
Reggio, come molte città emiliane, ha avuto numerosi produttori di biciclette. Un sito internet specializzato elenca ben 31 marchi a partire dagli anni ‘20 del secolo scorso. Probabilmente, in una qualche cantina ci sarà ancora una vecchia bicicletta con la decalcomania riportante uno di questi nomi. Quattro di questi sono diventati famosi e le loro biciclette sono molto ricercate dagli appassionati di ciclismo.
Di questi quattro produttori abbiamo voluto approfondire la nostra conoscenza attraverso interviste dirette o a persone che hanno conosciuto i fondatori delle rispettive aziende.
Seguendo l’ordine cronologico di fondazione, ricorderemo le biciclette prodotte dalla Cicli Corradini, dalla Cicli Pecorari, da Licinio Marastoni e dalla Rauler, di Raoul e Reclus Gozzi.
La Cicli Corradini è oggi una delle poche aziende attive che è sempre rimasta di proprietà della stessa famiglia. Venne fondata all’incirca nel 1899 quando Ferruccio Corradini (1884-1942) aprì la prima bottega di riparazione velocipedi a conduzione famigliare insieme ad un componente della famiglia Cucchi, in via Emilia Santo Stefano all’altezza dell’Obelisco, in prossimità dell’incrocio con Corso Garibaldi, fondando la “Corradini e Cucchi”.
(Curiosamente, quel tratto di strada fu la sede anche della Pecorari e, per un certo periodo di tempo, anche della Marastoni).
Dopo circa 8 anni le famiglie si divisero per intraprendere strade separate, e Ferruccio Corradini si trasferì con la bottega in via Guido da Castello, sede che verrà utilizzata anche negli anni futuri dagli eredi del fondatore dell’azienda.
Ferruccio oltre che alla riparazione di velocipedi, nella “nuova sede”, iniziò a costruire telai da bicicletta, da città, da uomo e da donna e qualche modello di telai da corsa.
Nel 1909, all’Esposizione Generale delle Industrie ed Invenzioni Moderne di Milano, venne assegnato alla ditta Cicli Corradini il Gran Premio Medaglia d’Oro.
Ergisto Corradini si trasferì in corso Cairoli, all’incirca di fronte dove oggi vi è la Caserma dei Carabinieri, Oreste invece aprì un negozio in Via Emilia San Pietro, in prossimità dell’ex Mercato Coperto.
Alla scomparsa del fondatore Ferruccio, la sede di via Guido da Castello venne mantenuta come deposito ed officina per piccole riparazioni di biciclette gestite da Paride, invece la produzione dei telai passò ad Oreste, che decise di ampliare la gamma dei modelli da strada dedicati agli appassionati del ciclismo che aumentavano in modo esponenziale.
Dagli anni Cinquanta alla fine dei settanta possedere una “Corradini” era un privilegio a cui aspiravano molti professionisti reggiani (avvocati, notai, dottori, politici…), ma mantenendo una produzione totalmente artigianale, le biciclette che nascevano erano a numero limitato. E la maggior parte erano verniciate del classico “Blu Corradini” cioè una tonalità di blu molto scura, tendente all’opaco, che faceva risaltare tutte le rifiniture cromate delle pipe di congiunzione e dei vari componenti assemblati sulle biciclette.
Dagli inizi del 1960 entrarono in attività anche i figli di Oreste, Silvano Corradini e Tullio Corradini, quest’ultimo considerato, già da dopo qualche anno di attività in bottega, uno dei più rinomati assemblatori di ruote da bicicletta della città e non solo.
Nel 1983 l’azienda si trasferì di nuovo nella sede di Via Guido da Castello, e da allora, per esigenze di mercato e strategie artigianali, si decise di ridurre se non concludere del tutto la produzione di telai Corradini e si implementò l’attività di commercio di prodotti legati al mondo della bicicletta.
Un altro anno considerato cruciale per l’attività della Cicli Corradini è il 1987, quando, percependo l’avvento di nuovi settori legati al ciclismo che giungevano da oltre oceano, la Cicli Corradini diventò una delle prime aziende in provincia a proporre le biciclette da fuoristrada, le mountain bike.
Nel 2019 alla ditta Cicli Corradini è stato assegnato il prestigioso premio come Negozio più Storico d’Italia dalla Confindustria-Ancma (Associazione Nazionale Ciclo Motociclo Accessori).
La Cicli Corradini si trova attualmente negli ampi spazi della rivendita in via Kennedy a Reggio Emilia, gestita da Andrea Corradini e Monica. Tullio Corradini, esperienza storica dell’azienda si occupa delle biciclette vintage, mentre tre collaboratori svolgono i ruoli di meccanici, addetti alle vendite retail ed e-commerce e biomeccanica al servizio di ciclisti professionisti.
La Cicli Pecorari venne fondata da Fortunato Pecorari nel 1911. Renato Scorticati, il più importante ciclista professionista reggiano, indossò la maglia della Pecorari negli anni precedenti la Seconda Guerra, periodo del quale non abbiamo rintracciato altre informazioni per relative a questo costruttore di biciclette.
Nello Olivetti, famoso corridore reggiano degli anni ’50 e nostro informatore per la redazione di questa nota, lavorò per diversi anni alla Pecorari nell’immediato dopoguerra.
La sede del negozio e dell’annessa officina erano in via Emilia S. Stefano, 50, e nel momento di maggiore sviluppo l’azienda arrivò ad occupare 23 dipendenti. Fortunato era un imprenditore molto esigente verso i suoi operai a proposito della qualità dei prodotti che uscivano dalla sua bottega, ma anche molto generoso nell’apprezzarne il lavoro.
Fortunato Pecorari era soprannominato “Nin”, e i scutmaj nella bottega erano molto utilizzati: c’erano “Teresina” Luciano, telaista, così soprannominato dal nome della fidanzata; “Schéss”, Guido Spaggiari, montatore e “Cérla”, Nello Olivetti, al céno di bottega, già affermato ciclista dilettante.
Dalle Officine Reggiane proveniva un esperto saldatore, Ubaldo Prampolini, anche lui corridore dilettante, che accettò il trasferimento a condizione di poter continuare ad allenarsi. Possiamo vedere questo provetto saldatore in due rare fotografie del 1946, la prima, e del 1947 la seconda (Prampolini è il quarto da sinistra), nella quale si vede al suo fianco anche un altro corridore reggiano che sarebbe diventato famoso, Nello Sforacchi.
Le migliori biciclette da corsa erano realizzate con tubi della ditta Columbus di Milano, una azienda milanese fondata nel 1919 e tutt’ora leader del settore. Olivetti ci parla a lungo delle tecniche di saldatura dei vari tubi alle pipe, utilizzando ottone speciale, rifinite poi con sapienti e pazienti finiture a lima. I ricordi di Nello rievocano ambienti di lavoro dominati dalla grande abilità degli operai-artigiani e dal rispetto reciproco tra di loro: più di una volta Nello usa l’espressione “eravamo come una famiglia”, una espressione molto più rara a sentirsi al giorno d’oggi.
Nello Olivetti racconta anche che lui, “Cérla”, aveva avuto da Pecorari la proposta di rilevare l’azienda, avendo questi due figlie, Ione e e Ilda che non sarebbero state in grado di proseguire la gestione. La morte improvvisa del signor Fortunato spezzò quella possibilità e Olivetti proseguì per qualche tempo la produzione di biciclette con il proprio marchio.
La storia di Licinio Marastoni ha tutti gli ingredienti di una leggenda. Un uomo nato non solo per costruire biciclette da corsa ricercate in tutto il mondo, ma anche per portare creatività e innovazioni al telaio della bicicletta.
Licinio Marastoni nacque nel 1922 e la passione per la bicicletta gli derivò sicuramente dal padre Flaminio, corridore dilettante di discreto successo. Originariamente il bambino era destinato a diventare sacerdote poiché andava abbastanza bene a scuola e una donna del posto benestante aveva promesso di sostenerlo attraverso i suoi studi religiosi. Ma la passione di Licinio era un’altra.
All’epoca era consuetudine che la famiglia di un ragazzo mandato a bottega da un artigiano pagasse una sorta di retta per i segreti del mestiere che andava ad apprendere. La famiglia di Licinio non dovette pagare alcunché perché il ragazzo era così bravo che quasi subito fu lui a ricevere un piccolo salario.
Nel 1939, all’età di 17 anni, Marastoni e l’amico Marco Mazzoni, si misero in proprio e cominciarono a costruire le prime biciclette che portavano il marchio Sprinter. Il marchio di fabbrica però aveva già la stilizzazione del Sole dell’avvenire, che Marastoni userà anche in seguito, per aggiungervi molti anni dopo lo scudo crociato simbolo della città di Reggio.
Ancora una volta la storia si colora di aneddoti significativi. Si racconta che l’apertura del laboratorio fu possibile grazie all’aiuto della mamma di Licinio, che impegnò per 6 mila lire la sua macchina da cucire. I due ragazzi erano così giovani che qualche cliente entrando in negozio e non vedendo un adulto, chiedeva dove fosse il padrone: – Il padrone è uscito. Chieda pure a me che poi riferisco –rispondeva Licinio.
La guerra pose fine a questa prima esperienza. Marastoni fu fatto prigioniero in Germania e alla fine della guerra rientrò in Italia a piedi.
Dopo la guerra Marastoni fondò una nuova ditta – la Cicli Grasselli-Marastoni – assieme a quel meccanico Ferdinando Grasselli che l’aveva accolto per l’apprendistato e che ora agiva anche da finanziatore. Curiosamente la sede della bottega era in via Emilia Santo Stefano, al n. 45: in un breve tratto della stessa via si concentrarono in quegli anni di rinascita le più prestigiose botteghe reggiane di produzione di biciclette – Corradini, Pecorari e Marastoni. Nello Olivetti, giovane dipendente della Pecorari, posta dirimpetto alla Marastoni, ci ha raccontato che era cosa normale scambiarsi tra botteghe diverse tecniche di lavorazione innovative, alla ricerca dell’eccellenza dei prodotti che uscivano da quei laboratori.
Marastoni adottò in quel periodo, come colore aziendale per le sue biciclette, il “verde ramarro” – per distinguersi dal rosso-Pecorari e dal blu-Corradini. Questa scelta fu ispirata dal ritrovamento di un ramarro morto che Marastoni portò al verniciatore come “campione” di colore.
Le biciclette create da Marastoni già in quegli anni si imposero all’attenzione di grandi campioni del ciclismo, come Coppi e Gimondi, per la bellezza estetica e per la loro funzionalità, ottenute a spese di un paziente lavoro di finitura sulle saldature, a colpi di lima, e di tante piccole innovazioni come le saldature degli anelli passacavo al telaio–in sostituzione delle fascette – o la vite stringisella passante a brugola, i cui primi due esemplari finirono sulle biciclette di campioni come Rudy Altig e Jacques Anquetil.
Quando Grasselli negli anni ’60 si ritirò dalla società, Marastoni proseguì la sua attività coinvolgendo anche il figlio Marco, anch’egli appassionato di ciclismo ed egli stesso corridore.
Nel 1969, la storia di Marastoni ebbe una svolta importante.
Licinio vide una piccola valvola ottenuta per microfusione in un impianto a gas liquido realizzato dell’amico Renzo Landi, ed ebbe l’idea di realizzare scatole per il movimento centrale e le congiunzioni e la testa delle forcelle con lo stesso sistema. L’unica ditta in grado di fare questi prodotti era la Microfusione italiana di Brescia, ma Licinio doveva garantire una sufficiente produzione affinché questi prodotti venissero posti in produzione. Su pressione dell’amico amico Cinelli, titolare di una delle più importanti fabbriche di biciclette italiane, Marastoni impegnò i suoi averi per realizzare questo progetto, che venne subito molto apprezzato dai ciclisti e da altri produttori, come Masi, De Rosa e Colnago. Da quel momento il nome Marastoni divenne noto a livello internazionale.
Nel 1972 l’attività di Marastoni si fermò improvvisamente per una terribile disgrazia: in un incidente stradale morì il figlio Marco. Solo dopo quasi un anno, e grazie alla vicinanza di molti amici, Marastoni riprese la sua attività, ma da allora le sue biciclette portarono il nome di Marco Marastoni, in ricordo del figlio. Inoltre, Licinio istituì un Memorial annuale per ricordare Marco, competizione che si disputò dal 1973 al 1996.
Nella sua lunga carriera Marastoni costruì biciclette per grandi campioni del ciclismo, come Coppi, Baldini, Adorni e Bitossi. Francesco Moser vinse il Giro d’Italia del 1984 in sella ad una Marastoni.
Alcune di queste bici sono famose per le loro caratteristiche, analizzate e descritte nei minimi dettagli dalle pubblicazioni specializzate [Paolo Amadori, Paolo Tullini, I sarti italiani della bicicletta – Le bici e i telaisti del dopo Coppi, Ediciclo editore, 2017].
Nonostante Marastoni avesse apportato significative innovazioni alla bicicletta, non volle mai brevettarle, forse perché a quei tempi le idee nascevano anche da collaborazioni interpersonali tra artigiani che non ponevano in primo piano il successo economico quanto quello professionale. Godeva dell’ammirazione di Tullio Campagnolo e di altri grandi costruttori come Cino Cinelli, Faliero Masi o Ernesto Colnago: anche se meno famoso di questi, soprattutto per aver voluto limitare le dimensioni del suo laboratorio, può sicuramente essere annoverato al pari questi grandi artigiani che hanno fatto la storia della bicicletta.
“Gli altri telaisti di Reggio dicevano di me che ero un frate per tutto il tempo che rimanevo chino su un solo telaio, e che non mi sarei mai fatto i soldi… A me interessava fare bene il mio lavoro!”
Licinio Marastoni è morto nel 2015, all’età di 93 anni vissuti seguendo una passione nata nell’infanzia. Poco prima della sua morte, il Comune di Reggio Emilia gli aveva consegnato il primo Tricolore.
La storia della Rauler è stata descritta con molti particolari da Reclus Gozzi in una pubblicazione realizzata nel 2020 in occasione del 50° anniversario della fondazione dell’azienda.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Reclus nel suo laboratorio di Pieve Modolena, dove ancora si dedica alle riparazioni o al restauro di biciclette di alto livello che gli portano gli amici.
Raoul Gozzi, fratello maggiore di Reclus, prima del 1970 era un pantografista specializzato nell’incisione dei metalli in una piccola azienda artigianale, e questo fu il particolare che segnò il suo futuro.
A Raoul si unì dopo poco tempo Reclus (nella foto), che dovette riconvertire le sue grosse mani di carpentiere in delicati strumenti per governare il pantografo e realizzare veri capolavori oreficeria. Non a caso, a Natale 2021, una oreficeria di Via Emilia, ha pensato bene di abbinare in vetrina una bicicletta Rauler ai gioielli tradizionali.
Colnago capì la natura di questi due fratelli che univano le abilità manuali alla tenacia, capaci di imparare rapidamente nuovi compiti. Propose quindi loro di provare a realizzare i telai, offrendo la collaborazione iniziale di operai specializzati della Colnago. Fu allora che nell’officina Raoul Gozzi entrò anche il padre Otello, di professione fabbro, con il ruolo di saldatore. Nacque così la RAULER, dalla fusione del nome dei due fratelli. Reclus racconta che lo speciale banco di lavoro per assemblare i telai venne costruito in casa dopo aver “copiato” quello di Colnago e, allo stesso modo, si costruirono autonomamente una sabbiatrice per i telai, evitando l’acquisto di costose macchine industriali.
Le cose andarono bene, grazie a tanto lavoro e sacrifici, e la collaborazione con Colnago veniva rafforzata di tanto in tanto da un buon piatto di tortelli.
Nel 1977, con bicicletta Rauler, Mauro De Pellegrin, ciclista di Castelnuovo di Sotto, vinse la medaglia d’argento ai mondiali di San Cristobal (Venezuela) nella cronosquadre dilettanti e nel 1980 il campionato italiano a cronometro a Pescara. Altra impresa nel libro d’oro della Rauler fu la vittoria del modenese Claudio Vandelli, nelle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, specialità 100 Km a squadre e il fratello vinse il campionato italiano dilettanti su strada.
Negli anni ’80 la Rauler era ormai un marchio noto a livello internazionale e gli ordini provenivano da molte parti del mondo. Una caratteristica che Reclus sottolinea è la grande flessibilità della Rauler, la capacità di risolvere rapidamente problemi o nuove richieste. Questo consentì ai due fratelli di superare anche alcuni momenti di crisi del mercato, come quando accettarono la sfida di realizzare dieci tandem per le squadre di Russia e Cecoslovacchia, produzione che si estese poi a clienti privati, compreso Vittorio Adorni. Seppero inoltre innovare la loro produzione, ad esempio adottando tubi romboidali anziché rotondi, per rendere il telaio più rigido. Nel 1985 Raoul uscì dalla Rauler e venne sostituito da Mauro Govi e in quel momento l’azienda era composta da Reclus, Otello e altri cinque operai specializzati ognuno con un ben preciso ruolo.
Nel laboratorio di Reclus abbiamo potuto toccare con mano un tubo di fibra di carbonio grezzo, leggerissimo, il materiale che sconvolse la tecnica costruttiva delle biciclette. Non più saldature all’ottone ma tubi incollati con resine epossidiche, giunzioni fasciate con tele al carbonio impregnate di colla, poi “cotte” in autoclave. Altri materiali che presero piede per la costruzione dei telai erano l’alluminio e l’acciaio e cambiarono anche le tecniche di saldatura, che utilizzava ora tungsteno in atmosfera di gas inerte.
Nel 1999 Reclus andò in pensione e restò all’interno della Rauler come consulente. Cominciò anche la ricerca di validi sostituti degli operai specializzati che lasciavano l’azienda: Piero al posto di Otello alle saldature, “Pima” a Verona al posto di “Ferro” alle limature; andarono via Enrico e Matteo ed entrarono Mauro e Federico. Nel 2001 morì anche il padre Otello, che conobbe nella sua vita le sofferenze della deportazione in Germania durante la Seconda Guerra, raccontata da Reclus nel libro Mio padre Otello. Infine, Graziano rilevò quanto restava della Rauler continuando l’attività come telaista.
La vecchia Rauler non c’è più ma Reclus è sempre nel suo laboratorio a restaurare biciclette.
Nel fascicolo celebrativo del cinquantenario Reclus ha scritto il titolo di un capitoletto che a noi sembra un motto riassuntivo della storia della Rauler:
DAI C’ANDOM, A VIN SIRA E A G’ ARMAGN TUT DA FER.
Negli anni ’80 la Rauler era ormai un marchio noto a livello internazionale e gli ordini provenivano da molte parti del mondo. Una caratteristica che Reclus sottolinea è la grande flessibilità della Rauler, la capacità di risolvere rapidamente problemi o nuove richieste. Questo consentì ai due fratelli di superare anche alcuni momenti di crisi del mercato, come quando accettarono la sfida di realizzare dieci tandem per le squadre di Russia e Cecoslovacchia, produzione che si estese poi a clienti privati, compreso Vittorio Adorni.
POST SCRIPTUM
In occasione della Giornata mondiale della bicicletta 2023, l’Ufficio Studi Lapam Confartigianato ha reso noto i dati di uno studio sulla filiera della bicicletta a Reggio e Provincia. Al 31 dicembre 2022 sono 43 le imprese attive sul territorio e Reggio si posiziona al 32° posto su 107 province per vocazione della filiera bici. Secondo dati del 2020, a Reggio vi sono 257,2 Km di piste ciclabili, posizionandola al terzo posto in Italia.