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ANDREA ZANZOTTO: PER IL CENTENARIO DELLA NASCITA

Ma tu, vecchio parlare, persisti nella parola che viene.

A chi gli ha chiesto:
Cosa si capisce della vita dopo 90 anni ?
Candidamente ha risposto:

Niente, per dire parole che valgano la pena bisognerebbe almeno averne novecento di anni.

Siamo arrivati a un momento della storia in cui
ci si accorge che l’immaginario dell’uomo
ha bisogno di tutte le lingue del mondo.

Édouard Glissant
(Scrittore, poeta e saggista francese. 1928-2011)

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Ricorre oggi 10 Ottobre 2021 il centenario della nascita di Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo 1921- Conegliano 2011), che noi ricordiamo qui con stima e ammirazione nel breve saggio del nostro Rolando Gualerzi, che ne tratteggia l’importante figura.

Dal vasto panorama della sua produzione poetica dialettale abbiamo scelto di proporvi solamente il poemetto Filò, paradigma universale a nostro avviso di tutte le Lingue Madri locali.

Normalmente, secondo quella che è divenuta ormai la nostra consuetudine, vi avremmo proposto anche una nostra versione in Dialét Arşân dei versi di Zanzotto, ma di fronte a questa figura così influente nella e sulla poesia dialettale, ci piacerebbe poter coinvolgere anche “emotivamente” i frequentatori di questo nostro sito, chiedendo a chiunque se la senta, di farci avere una loro traduzione/trasposizione nel nostro dialetto di questo poemetto (o parte di esso), al fine di allestire in collegamento a questa pagina, una vetrinetta di possibili sedimentazioni e germogli in continuità col messaggio portato avanti con tanta coerenza da questo grande personaggio.

 


Perché ricordare il centenario della nascita di un poeta che ha composto poesia in italiano e in un dialetto, il veneto, che né si parla, né si scrive nella nostra Léngua Mêdra Arşâna ?
   Perché Andrea Zanzotto ha molto ”parlato” del dialetto nei suoi scritti oltre che nella poesia, e  si è servito più volte dell’espressione che nei Vangeli e nell’Apocalisse designa il disegno del messia: logos erchomenos, “parola che viene”; «veniente» – ha aggiunto Zanzotto – «di là dove non è scrittura né grammatica», parola che rimane per questo «quasi infante nel suo dirsi»..

Il dialetto non è per Zanzotto, come non lo è per tutti noi, una lingua accanto alle altre, ma l’esperienza della stessa sorgività della parola; qualcosa come la struttura stessa del linguaggio nel suo nascere, nel punto in cui il parlante «tocca con la lingua» (nelle sue due accezioni di organo fisico e sistema di parole) il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene: «monta come il latte». Il filosofo e critico della letteratura Giorgio Agamben, dice che “Il dialetto ha nella concezione di Zanzotto uno spessore teologico”.

 

Breve estratto video sulle necessità della poesia, per Andrea Zanzotto, di essere “aliena” rispetto al mondo odierno.
Video completo su Rai Cultura

La prima  presa di contatto con il mondo che per tutti noi fino alla metà degli anni ’60 del ‘900 ha significato: nominare le cose, fare mondo e costruire  le nostre mappe cognitive e emotive, è avvenuto principalmente nei primi sei anni di vita con le parole dei nostri dialetti locali, prima della omologante e meno emozionante lingua nazionale.

Nel 1976 Federico Fellini si rivolge al poeta e amico Zanzotto: «Vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata».  Zanzotto per Il Casanova di Federico Fellini  compila lo sgargiante Recitativo veneziano, ma soprattutto FILO’ [1], poema arcaico e postmoderno che svela l’arcano della lingua, la sua magia, oltre umana («seppure gli uomini ti dimenticheranno… ci saranno uccelli… che ti parleranno dentro il sole, nell’ombra»).
[1] Corrisponde nel nostro dialét Arsan a FILÓS (le chiacchierate di quando ci si riuniva nelle stalle).

FILÓ

Vecio parlar che tu à inte ’l tó saór
un s’cip del lat de la Eva,
vecio parlar che no so pi,
che me se á descuní
dì par dì ’inte la boca (e no tu me basta);
che tu sé cambià co la me fazha
co la me pèl ano par an;
parlar porét, da poreti, ma s’cèt
ma fis, ma tóch cofà ’na branca
de fien ’pena segà dal faldin (parché no bàstetu?)-
noni e pupà i é ’ndati, quei che te conosséa,
none e mame le é ’ndate, quele che te inventéa,
nóvo petèl par ogni fiól in fasse,
intra le strússie, i zhighi dei part, la fan e i afanézh.
Girar me fa fastidi, in médo a ’ste masiére
de ti, de mi. Dal dent cagnin del tenp
inte ’l piat sivanzhi no ghén resta, e manco
de tut i zhimiteri: òe da dirte zhimitero?
Élo vero che pi no pól esserghe ’romai
gnessun parlar de néne-none-mame? Che fa mal
ai fiói ’l petèl e i gran maestri lo sconsilia?
Élo vero che scriverte,
parlar vecio, l’é massa un sforzh, l’é un mal
anca par mi, cofà ciór par revèrs,
par straòlt, far ’ndar fora le corde de le man?

Ma intant, qua par atorno, a girar pa’i marcà,
o mèjo a ’ndar par canp e rive e zhópe
là onde che’l gal de cristal canta senpre tre òlte,
da juste boche se te sent. Mi ò pers la trazha,
lontan massa son ’ndat pur stando qua
invidà, inbulonà, deventà squasi un zhóch de pionbo,
e la poesia non l’é in gnessuna lengua
in gnessun logo – fursi- o l’é ’l busnar del fógo
che ’l fa screcolar tute le fonde
inte la gran laguna, inte la gran lacuna –
la é ’l pien e ’l vódo dela testa-tera
che tas, o zhigna e usma un pas pi in là
de quel che mai se podaràe dirse, far nostro.
Ma ti, vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi 
do tre osèi sói magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via –
doman su l’ultima rama là in cao
in cao se zhiése e pra,
osèi che te à inparà da tant
te parlarà inte’l sol, inte l’onbría.

 

(*) petèl è il balbettio familiare con cui ci si rivolgeva ai bimbi molto piccoli, storpiando le parole dei grandi. es. pepè per piedi, ecc.

Traduzione:

FILÓ

Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore
un gocciolo del latte di Eva,
vecchio dialetto che non so più,
che mi ti sei estenuato
giorno per giorno nella bocca (e non mi basti);
che sei cambiato con la mia faccia
con la mia pelle anno per anno;
parlare povero, da poveri, ma schietto
ma fitto, ma denso come una manciata
di fieno appena tagliato dalla falce (perché non basti?) –
nonni e babbi sono andati, loro che ti conoscevano,
nonne e mamme sono andate, loro che ti inventavano,
nuovo petèl * per ogni figlio in fasce
tra gli stenti, le grida di parto, la fame, le nausee.
Girare mi dà fastidio, in mezzo a queste macerie
di te, di me. Dal dente accanito del tempo
avanzi non restano nel piatto, e meno
di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero?
È vero che non può esserci più ormai
nessun parlare di tate-nonne-mamme? Che fa male
ai bambini il petèl * e gran maestri lo sconsigliano?
È vero che scriverti,
vecchio parlare, è troppo faticoso, è un male
anche per me, come prendere a rovescio,
per obliquo, far slogare i tendini delle mani?

Ma intanto qui attorno, girando per i mercati
o meglio andando per campi e clivi e balze
là dove il gallo di cristallo canta sempre tre volte,
da giuste bocche ti si sente. Io ho perduto la traccia,
sono andato troppo lontano pur rimanendo qui
avvitato, imbullonato, diventato quasi un ceppo di piombo,
e la poesia non è in nessuna lingua
in nessun luogo – forse – o è il rugghiare del fuoco
he fa scricchiolare tutte le fondamenta
dentro la grande laguna, dentro la grande lacuna –
è il pieno e il vuoto della testa-terra
che tace, o ammicca e fiuta un passo più oltre
di quel che mai potremmo dirci, far nostro.
Ma tu, vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno uccelli –
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via –
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.

 

GUARDA IL VIDEO

La poesia Filò in dialetto veneto nella bella recitazione di Rudy Favaro
Zanzotto è stato studiato, tradotto e invitato in tutto il mondo perché era « le plus moderne, plus savant, plus émouvant poète italien d’ aujourd’ hui » [1], secondo il giudizio che ne diede «Le Monde», mentre per Gianfranco Contini era definitivamente «il migliore dei poeti italiani nati nel ‘ 900». Sovente candidato al Nobel, autore dalla cultura oceanica, padroneggiava diverse lingue e preferiva professarsi “un botanico delle grammatiche”. Arduo circoscriverlo se si considera che un rapporto dialettico l’ha legato a Petrarca, e TassoDante e LeopardiHolderlin e T.S.Eliot (solo citandone alcuni) e poi la psicanalisi e la filosofia: Lacan e Heidegger.
[1] « il più moderno, più sapiente, più emozionante poeta italiano di oggi »

Breve estratto del video di ringraziamento di Andrea Zanzotto in occasione del conferimento del Premio Hölderlin, coincidente col suo 84° compleanno.
Video completo al link https://www.youtube.com/watch?v=8Ji90cwwnLM

 

Riguardo alla biologia della lingua, Zanzotto, in un articolo uscito sulla rivista «In forma di parole» (luglio-agosto-settembre 1998) dal titolo  Una esperienza in comune nel dialetto, scrive: «È così che ci si sente strappare piedi e membra e corpo. Il tappeto su cui sempre si cammina dapprima si deteriora, poi diventa irreperibile, maciullato da un vero e proprio cannibalismo…, quando per millenni è stato invece vero luogo della vita e della lingua quotidiana».

L’ha ricordato Maurizio Di Fazio nel  suo saggio “Andrea Zanzotto – L’alchimista della parola” che   Gianfranco Contini è stato compagno di viaggio virtuale con Zanzotto. Viaggio circospetto e fiammeggiante ai confini del linguaggio per il poeta, sino a forgiarne uno completamente nuovo. Un pastiche di espressioni gergali locali, allitterazioni, divertissement etimologici, “balbettii lucenti, filastrocche, non-sense …” Tutto scorre e sfugge nella sua opera.
Amico di Pier Paolo Pasolini al quale ha dedicato molti scritti; disse di lui Eugenio Montale: « Zanzotto è un poeta percussivo, ma non rumoroso: il suo metronomo è forse il batticuore ».

Nel 2019 è uscita per la prima volta in volume la raccolta di tutte le sue poesia in dialetto, con il titolo “In nessuna lingua in nessun luogo, Le poesie in dialetto 1938-2009”, pagine 280, dalle edizioni Quodlibet di Macerata.
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10/10/2021 Rolando Gualerzi
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Vogliamo ‘chiudere e aprire’ questo ricordo breve per Andea Zanzotto nel centenario della nascita, riportandoci alla  passione degli amici della libera associazione Léngua Mêdra, che continuano in assoluta libertà nel riconoscimento dell’alta dignità dei dialetti : tutto un filone di oralità, narrazione di memorie e racconti.
Per la poesia degli ultimi 100 anni sono esempi assoluti oltre ad 
Andrea Zanzotto:  Raffaello Baldini, Pier Paolo Pasolini, Tonino Guerra, Franco Loi,  Biagio Marin, Delio Tessa, Virgilio  Giotti, Albino Pierro, Ester Loiodice, Giacomo Noventa,  Franco Scataglini, Amelia Rabbaglietti, Nino Pedretti, Franca Grisoni, Fernando Bandini, Cesare Zavattini… e le contemporanee: Tonina Facciani, Lidiana Fabbri , Grazia Medri, Maria Laura della Rosa Antonellini, Annalisa Teodorani e i contemporanei : Alberto Bertoni, Emilio Rentocchini, Ivan Crico, Franco Falconi… e molte  altre e altri poeti del dialetto che leggeremo e ascolteremo  quanto prima e nei  prossimi anni..

Siamo ottimisti nel pensare che così facendo la chiave di lettura dei fenomeni letterari in dialetto non dovrà mai diventare quella di un percorso costretto al localismo isolazionista.

 

Breve estratto video di un intervento di Andrea Zanzotto sulla traduzione e la tutela delle lingue locali.
Video completo  

Grazie Andrea da parte di tutto lo staff di Léngua Mêdra

Rolando Gualerzi – Paolo Gibertini – Gian Franco Nasi – Luciano Cucchi
Isarco Romani – Denis Ferretti

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