Libera traduzione in dialetto reggiano di Denis Ferretti del racconto
CASA D’ALTRI di Silvio D’Arzo
Lettura del testo in dialetto eseguita dallo stesso Denis Ferretti.
Ezio Comparoni, in arte SILVIO D’ARZO
Abbiamo il piacere di presentare qui la versione in dialetto reggiano del famoso racconto CASA D’ALTRI, del nostro concittadino Ezio Comparoni, in arte SILVIO D’ARZO, venuto a mancare prematuramente alla soglia dei 32 anni nel 1952.
Noi siamo evidentemente “di parte”, ma riteniamo che quest’opera, definita dallo stesso Eugenio Montale “…un racconto perfetto !“, esprima nel nostro dialetto reggiano la sua “vera” anima, soprattutto in questo lavoro linguisticamente rigoroso, portato a termine dal nostro Denis Ferretti, di cui segue più avanti una dettagliata prefazione alla sua versione.
Riteniamo che sia un’operazione rilevante, che abbiamo voluto divulgare nella più completa forma possibile, con recitazione della parte dialettale, sia con che senza testo a fronte, e con il testo italiano disponibile in PDF col nostro testo in dialetto a fronte:
Qui di seguito una breve mappa della pagina ad orientamento tra le sue varie parti.
MAPPA DELLA PAGINA
PREFAZIONE DEL TRADUTTORE | Le motivazioni del traduttore alla base della della scelta di questo Autore così caro a noi reggiani e così intimo al nostro dialetto |
ASCOLTO CON TESTO A FRONTE | L’intera opera in dialetto è qui ascoltabile suddivisa nei 15 capitoli separati, recitata dallo stesso traduttore sulle schermate del testo in dialetto che ne agevolano ed arricchiscono la comprensione anche a chi ha meno dimestichezza col dialetto. |
ASCOLTO DELLA SOLA TRACCIA AUDIO | L’intera opera in dialetto è anche ascoltabile in sola traccia audio, sempre suddivisa nei 15 capitoli separati, recitati dallo stesso traduttore, come un qualsiasi audiolibro. |
POSTFAZIONE DEL TRADUTTORE | Gli appunti del traduttore circa le scelte adottate sia come grafica di corrispondenza SEGNO-SUONO che come Logica della Sintassi.< |
CASA D’ALTRI IN DOWNLOAD | La disponibilità di un singolo documento in PDF con il testo originale di CASA D’ALTRI a fronte del testo in dialetto del nostro Denis Ferretti, per consentirne un’agile lettura comparata. |
PREFAZiONE
L’ANTEFATTO
I dialettologi e gli esperti di programmazione linguistica raccomandano a chi voglia tutelare le lingue locali e i patrimoni linguistici di spaziare tra tutte le possibili forme di espressione: dalla poesia alla prosa, dal teatro al cinema, dai burattini alla musica in tutti i suoi generi. Dalle favole e filastrocche per bambini alla satira, dai proverbi popolari ai temi più impegnati. Si deve parlare di politica, di sport, di attualità, di tutti gli argomenti.
Uno dei punti di arrivo delle varietà linguistiche meglio tutelate è la versione in lingua locale dei grandi classici: Pinocchio, il Piccolo Principe, la Divina Commedia, la Bibbia sono libri che sono stati tradotti in molte lingue ufficiali, ma anche in molte varietà dialettali prestigiose. Trattare la lingua locale al pari dell’inglese, del francese e di altre lingue ufficialmente riconosciute è un modo per conferirle importanza e dignità. Chiacchierando con alcuni “colleghi” che condividono con me la passione per la linguistica e per le lingue locali in particolare, un giorno ci siamo ritrovati a chiederci quale fosse l’opera che ognuno avrebbe gradito nella propria lingua locale. Ovviamente è partito il brainstorming e sono emerse centinaia di proposte e idee: I promessi sposi! Harry Potter! Il nome della Rosa! I Malavoglia! Bar Sport … De Amicis, Hemingway, Paulo Coelho…
Nella mia testa si accese subito una lampadina: e perché non Silvio d’Arzo? Sono bastati pochi secondi per rendermi conto e convincermi sempre più che “Casa d’Altri” fosse più di ogni altra cosa ciò che faceva al caso nostro. Facilmente realizzabile (è a metà tra il romanzo breve e il racconto lungo), linguaggio semplice e raffinato al tempo stesso, così come sa esserlo il nostro dialetto. E un’ambientazione in tempi e luoghi in cui sicuramente si parlava dialetto. A ben pensarci è “Casa d’altri” nella versione in italiano a essere una traduzione, per quanto ben fatta. Perché sicuramente, nel raccontare i personaggi e le loro vicende l’autore ha dovuto esprimere nella lingua nazionale ciò che in una realtà simulata il protagonista avrebbe naturalmente espresso in dialetto. Io avrei dovuto solo riportarlo all’originale, semplicemente chiudendo gli occhi e immaginando che a raccontare fosse uno dei tanti amici di mio zio, quasi suo coetaneo, o una delle vecchie che venivano a fare la “scapinèla” nel tinello di mia nonna quando ero bambino.
LA CONVINZIONE
Questo aspetto non è da trascurare in un momento storico come questo, in cui il nostro dialetto rischia di scomparire ed è sempre meno praticato. La maggior parte di noi è oggi abituata a sentire il dialetto, non solo in occasioni sempre più rare, ma limitatamente ad alcuni contesti. Proporre un registro diverso e parlare di argomenti inconsueti porta con sé il rischio di presentare una lingua percepita come estranea persino dai parlanti. L’italiano lo viviamo nel quotidiano in tutti gli ambiti. Siamo abituati a sentire dibattiti e conferenze di ogni genere, a leggere libri con contenuti elevati, a vedere film, serie televisive e pubblicità che ci propongono l’italiano standard come normalità.
E ormai non facciamo più caso a quanto l’italiano proposto sia sostanzialmente diverso da quello parlato da noi. Proviamo a pensare di riproporre gli stessi dialoghi con le stesse esatte parole di una serie televisiva ai vostri famigliari. “A che pensi? Ricordi il giorno in cui giungemmo qui in città e ci trasferimmo nella soffitta di nonna? Te ne ricordi?”
Ci guarderebbero sicuramente in modo strano. Ci chiederebbero se abbiamo mangiato un vocabolario, o se stiamo recitando una parte per una rappresentazione teatrale. Lo stesso se parlassimo “burocratese” o proponessimo il testo di un libro pari pari. Mentre leggiamo o ascoltiamo queste cose in tv non abbiamo le stesse sensazioni. Ci sembra tutto normale. In dialetto invece cambia tutto. Non siamo abituati a sentire argomenti diversi da quelli sentiti in ambito famigliare. E’ un’abitudine che potrà arrivare col tempo, se la lingua locale si risolleverà e ritroverà la dimensione che le spetta. Per il momento, l’ideale sarebbe partire gradualmente e iniziare a proporre cose che non ci appaiano troppo lontane da una realtà vissuta. E “Casa d’altri” mi è sembrato da subito perfetto.
Più ci pensavo più non trovavo motivo per non fare questo lavoro. Oltretutto noi reggiani Silvio d’Arzo lo portiamo nel cuore. È qualcosa di “nostro” al pari della nostra lingua. Ne siamo orgogliosi e a ragione. Il parallelo con la lingua locale è azzeccatissimo: prezioso, qualitativamente elevato, gradevole nella sua semplicità. Penso sia doveroso rendergli omaggio mettendolo ai primi posti tra le opere da tradurre, oltretutto nella sicurezza che quanto fatto sarebbe sicuramente apprezzato dall’autore stesso. Almeno nelle intenzioni. Ci sono opere di alcuni autori che i critici letterari italiani hanno elevato a testi sacri e in quanto tali la loro traduzione in dialetto è considerata da molti quasi una profanazione. Manzoni viveva con vergogna la propria inflessione dialettale. Anche Dante non aveva speso belle parole riguardo ai dialetti romanzi dell’Italia settentrionale che riteneva cacofonici e poco adatti all’espressione poetica. Pareri discutibili nei tempi moderni e da me non condivisi, ma che potrebbero comunque dissuadere potenziali traduttori per una sorta di rispetto.
Questo rischio non si presenta con Silvio d’Arzo, che era un cultore della lingua locale, tant’è che la glottologia del dialetto reggiano fu proprio l’argomento che scelse per la sua tesi di laurea. Pur scrivendo in italiano si esprimeva correntemente in dialetto e lo padroneggiava, come del resto tutti a quei tempi. All’epoca, la lingua locale non aveva bisogno di tutela; al contrario, era la lingua nazionale che doveva essere insegnata e perfezionata. Anche le sue opere scritte in italiano (e che italiano!) hanno contribuito alla diffusione della lingua nazionale. Oggi ci ritroviamo a fare il contrario e sono convinto che l’autore sarebbe ben felice di contribuire anche questa volta a salvare la sua lingua di origine.
VARIETÀ LINGUISTICA E SCELTE GRAFICHE DI CORRISPONDENZA SEGNO-SUONO
La varietà linguistica che ho scelto per presentare l’opera è il reggiano periferico. Non il reggiano inframurario che troviamo sul vocabolario reggiano-italiano “ufficiale”, ma la varietà oggi più rappresentata, con una variabilità maggiore, frutto degli intrecci di varietà locali presenti oggi in ciascuna famiglia. È, in sostanza, il dialetto che parlo io, che, nato nell’era dei motori, ho avuto contatti quotidiani con persone che spaziavano in un territorio un po’ più ampio, non limitato alla vita di paese come avveniva fino alla prima metà del secolo scorso.
La normalità delle famiglie di oggi è quella di riunire componenti provenienti da frazioni diverse. Quasi tutti sono cresciuti con un padre che parlava una varietà e una madre con una varietà leggermente diversa, vicini di casa trasferiti da altri quartieri e frequentazioni sul lavoro di persone sempre più distanti. Il risultato è che oggi le varietà sono quasi tante quante le persone. Ognuno si è costruito abitudini di pronuncia, che tra l’altro possono variare nel tempo a seconda delle scelte o delle “mode” dovute alle frequentazioni. Basta uno della compagnia che dica “vērd” anziché “vèird” (per verde)e ci sarà chi lo copia e porta questa variante a casa.
Oggi sono tanti quelli che come me e tanti miei parenti dicono talora “portêr” e talora “purtêr” (per portare), a volte “fērom” e a volte “fèirom” (per fermo), a sentimento del momento.
Avrei potuto scrivere tutto secondo le indicazioni grafiche del “pôpol gióst”, ma non sarebbe stato così spontaneo, almeno per quanto riguarda la lettura. Ho preferito rendere il racconto il quanto più naturale possibile, come se a narrarlo fosse stato mio zio. La varietà scelta non rappresenta nemmeno il dialetto parlato sul luogo di ambientazione, che malgrado la toponomastica di fantasia, corrisponde come descrizione ai paesi di crinale più vicini al confine toscano. Ma le vicende sono raccontate dal protagonista, che è un prete trasferitosi lassù, a “casa d’altri”, appunto. Avrebbe potuto benissimo essere cresciuto in area precollinare e raccontare nella propria “léngua mêdra“. Tutto molto verosimilmente spontaneo e naturale, quindi, come già detto.
In merito alle scelte grafiche di coerenza segno-suono che ho adottato in questo lavoro, si basano sostanzialmente sul sistema del dizionario reggiano-italiano Ferrari-Serra, poi riprese nella “Grammatica del dialetto reggiano” di cui sono autore, e grazie alla disponibilità del registrato è sicuramente molto più semplice e chiaro ascoltare direttamente la pronuncia di ogni parola scritta e attribuire il suono corretto a ogni simbolo, anziché rapportarsi ad una legenda dei suoni.
Tuttavia ho inserito alcune varianti particolari di accentazione e di logica della sintassi, che trovate dettagliate nella Nota di postfazione ►
Denis Ferretti, Luglio 2021
ASCOLTO CON TESTO A FRONTE
Poiché il dialetto è essenzialmente lingua orale, la lingua dell’immediatezza e del racconto, vi proponiamo l’opera letta direttamente dal traduttore, suddivisa nelle quattro parti e nei 15 capitoli del testo originale, potendo scegliere tra l’ascolto supportato dalla visione del testo scritto, che trovate immediatamente qui sotto.
AVVERTENZA: Se non compare la schermata di YouTube, cliccare GUARDA IL VIDEO.
PRIMA PARTE
L’INCONTRO
Capitolo 1 – (Guarda il video)
Capitolo 2 – (Guarda il video)
Capitolo 3 – (Guarda il video)
Capitolo 4 – (Guarda il video)
SECONDA PARTE
LA DOMANDA
Capitolo 5 – (Guarda il video)
Capitolo 6 – (Guarda il video)
Capitolo 7 – (Guarda il video)
Capitolo 8 – (Guarda il video)
Capitolo 9 – (Guarda il video)
Capitolo 10 – (Guarda il video)
TERZA PARTE
LA LETTERA
Capitolo 11 – (Guarda il video)
Capitolo 12 – (Guarda il video)
Capitolo 13 – (Guarda il video)
QUARTA PARTE
L’ARIA DELLA SERA
Capitolo 14 – (Guarda il video)
Capitolo 15 – (Guarda il video)
ASCOLTO DELLA SOLA TRACCIA AUDIO
PRIMA PARTE
L ‘ INCONTRO
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
SECONDA PARTE
LA DOMANDA
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
QUARTA PARTE
L’ ARIA DELLA SERA
Capitolo 14
Capitolo 15
POST-FAZIONE DEL TRADUTTORE
SCELTE GRAFICHE DI CORRISPONDENZA SEGNO-SUONO E LOGICA DELLA SINTASSI
D’abitudine le lingue locali sono rappresentate con sistemi grafici a base fonetica. Avendo alle spalle una radicata tradizione orale, molti autori sentono l’esigenza di rendere anche graficamente la pronuncia esatta e permettere al lettore di capire il più possibile quali siano i suoni effettivamente pronunciati, ritenendo la varietà locale una parte importante dell’espressione dell’opera. Tant’è che nell’evoluzione grafica della pur limitata tradizione letteraria locale, a partire dagli scrittori dell’ottocento, fino ad oggi, si nota un graduale aumento dell’uso dei segni diacritici in direzione di una crescente corrispondenza segno-suono, per dare un’idea sempre più precisa della fonetica.
Se questo sistema è sicuramente valido per la poesia, dove la sonorità ha un’importanza di rilievo, mi rendo conto che in prosa potrebbe diventare un po’ pesante. Per ampliare la portata del bacino di utenza, sicuramente sarebbe preferibile una grafica a base fonologica che permettesse a ciascuno di adattare la pronuncia alle proprie abitudini.
Pur tuttavia, come prima esperienza personale, ho scelto di restare ugualmente sul modello fonetico. Per prima cosa perché ancora non è stato messo a punto per la nostra lingua, un sistema fonologico studiato per includere le varietà inter-comprensibili. In secondo luogo perché la versione audio potrebbe essere utilizzata come strumento di apprendimento, quindi per sentire dal vivo come sono i fonemi che corrispondono a ogni grafema. La lettura con l’ausilio audio, insomma, potrebbe essere per molti un buon metodo per apprendere il sistema di scrittura presente sul dizionario e che ad oggi è di gran lunga il più utilizzato dagli autori più accreditati che scrivono prevalentemente poesia.
In un futuro spero non troppo lontano, personalmente riterrei anche plausibile che a questo sistema grafico possa essere affiancata un’alternativa fonologica ben studiata. Prima però è necessario superare alcuni scogli culturali. E il primo sarebbe proprio questo: uscire dal dogma che ci porta a pensare che una lingua possa essere scritta utilizzando una sola grafia. Il secondo è quello di arrivare a capire che le lettere dell’alfabeto latino, in lingue diverse, possano essere pronunciate in modo diverso e non si debba necessariamente far riferimento solo alle regole dell’italiano.
Tornando alle scelte grafiche adottate, quindi, sostanzialmente faccio riferimento al sistema del dizionario reggiano-italiano Ferrari-Serra, poi riprese sulla “Grammatica del dialetto reggiano” di cui sono autore.
Volutamente non riporto la legenda dei suoni, comunque consultabile sia sul vocabolario che sulla grammatica, oltre che in numerosi testi di altri autori che hanno adottato questo sistema. Grazie alla disponibilità del registrato è sicuramente molto più semplice e chiaro ascoltare direttamente la pronuncia di ogni parola scritta e attribuire il suono corretto a ogni simbolo.
Mi limito solo a evidenziare alcuni casi particolari di scrittura e la logica della sintassi.
Una cosa che subito salterà agli occhi di molti e forse farà storcere il naso a qualcuno è l’utilizzo del simbolo Ä ä.
È un espediente grafico che ho già utilizzato nella “Grammatica del dialetto reggiano” che permette l’estensione dello scritto a diverse varietà dialettali del comune di Reggio Emilia e di alcuni comuni confinanti, oggi spesso mescolate a macchia di leopardo in una diaspora distribuita omogeneamente intorno al centro.
“Ä” si può pronunciare indifferentemente “a” oppure “e” (in diversi gradi di apertura). Io, al pari di molti altri nella mia condizione, ad oggi non ho una pronuncia costante. A volte dico “a vâgh” (vado), a volte dico “e vâgh”. Ma il motivo della scelta non è tanto quello di introdurre un carattere fonologico in un sistema sostanzialmente fonetico. Avrei potuto semplicemente scegliere una delle due opzioni e mantenerla coerentemente per tutto il libro, come peraltro ho fatto con il caso omologo introdotto dalla mia grammatica, rappresentato da ů (purtêr/portêr = půrtêr). In questo testo ho optato per “purtêr”… e se qualche volta nella registrazione mi capiterà di dire “portêr”, mi perdonerete.
La scelta di ä è invece dovuta principalmente alla volontà di disambiguare i pronomi clitici sia dalla preposizione “a” che dalla congiunzione “e”.
“Quând ä vègn a cà ä vòj magnêr e bèver” (quando [io] vengo [a] casa [io] voglio mangiare [e] bere). Di fronte a un testo lungo e impegnativo come può essere un testo in prosa, ritengo che poter catalogare mentalmente il significato di parole che pur avendo lo stesso suono hanno valore diverso, sia una facilitazione. Così come in italiano è utile leggere “da solo amore” o “dà solo amore”, anche se di fatto si pronunciano nello stesso modo.
“Ä” è inoltre la vocale eufonica utilizzata nei numerosi casi di prostesi. Quando nel discorso due parole vicine hanno una pronuncia difficile, in reggiano si usa la prostesi con la logica che trasforma l’italiano “scherzo” in “ischerzo” (per ischerzo, in istoria, in Ispagna, ecc.). Quindi quando vediamo un ä iniziale di parola, sappiamo che la radice della parola è quella dalla seconda lettera in poi. Es. schêla = scala. Sèt äschêli = sette scale.
Un’altra cosa che potrà apparire strana prevedo possa essere la presenza di consonanti isolate. Es. “ä v l îva dét” (ve lo avevo detto), “la m guêrda” (mi guarda). In italiano non siamo abituati a vederle. E sul vocabolario le troviamo nella loro forma con prostesi (av/ev, am/em, ecc.) perché isolate non si riuscirebbero a pronunciare. Nel parlato però non sempre la prostesi è necessaria (anzi, se ci sono altre vocali sarebbe cacofonica) e di fatto si attaccano alle parole vicine pronunciando come un’unica parola: “avliva dét“, “lam guêrda“. Questa scrittura che non distingue gli elementi è forse quella che risulta più spontanea a chi scrive e sa quel che vuole esprimere, ma può essere molto difficoltosa per chi legge e invece deve decifrare. Sarebbe come sei nita liano scrivessi mocosì (se in italiano scrivessimo così). Uno dovrebbe leggere un paio di volte prima di arrivare a capire. L’apostrofo non sarebbe comunque giustificato in questi casi. Perché l’apostrofo indica che qualcosa è stato tolto.
Quando dico “t al pō tōr só” (lo puoi raccogliere), dopo la “t” non tolgo proprio niente.
Rimanendo in tema, parliamo dell’apostrofo. La logica che ho utilizzato è quella appena descritta. Se vedete degli apostrofi sono al posto di qualcosa che è caduto per ragioni fonetiche. Es. j ò ‘vû (ho avuto). Sarebbe “avû”, ma la fonologia della mia varietà impedisce di pronunciare due vocali atone vicine, come sosteneva, sempre mia “zi’ Isolda”.
A volte si trovano anche apostrofi isolati. Quando a cadere è il pronome clitico “ä” o la preposizione “a”. Es. “mé ‘ v l îva dét” (io ve lo avevo detto). Sarebbe: “mé ä v l îva dét”. Ma la ä cade fondendosi con la vocale precedente. “Stà mó ‘ vèder” (stai “particella modale intraducibile” a vedere). Sarebbe comunque “stai *a* vedere”. C’è un “a” che nessuno pronuncia, ma che per corretta sintassi sarebbe necessaria.
Mi sento tranquillo a trattare in questo modo un testo di D’Arzo, studioso di fonologia che nella sua tesi di laurea, tra le altre cose, aveva notato che quando pensiamo “al râgn” (il ragno), in realtà pronunciamo “ar râgn”. Ci avevate mai fatto caso? Io comunque non sono arrivato a evidenziare anche questi dettagli, che dovrebbero essere una cosa automatica. Ma volendo trasporre una tradizione orale, ho usato tutti i mezzi a mia disposizione per indirizzare sulla pronuncia effettiva, mettendo in evidenza elisioni, troncamenti e prostesi.
Come regola generale ho privilegiato la separazione degli elementi. Anche se pronunciamo “canghera mia” (che non c’era) non lo scrivo tutto attaccato e nemmeno “can ghera mia” o “ch an ghera mia”, bensì ”ch a’ n gh ēra mia“, perché la frase è composta da sei elementi: che egli non ci era mica. In un primo tempo ci può apparire strano, ma in breve ci si fa l’abitudine e si scoprirà che è molto più semplice capire.
Solo in rari casi particolari (così rari e speciali che è come se non ci fossero [cit da Casa d’altri]), per espressioni ricorrenti e tipiche ho optato per la creazione di una parola unica sul modello dell’italiano “sennonché“, “tuttavia“, “nondimeno“, “ossia“, “laggiù“.
Per esempio: ladedlà (nell’altra stanza), dedsà (da questa parte), insà (verso questa parte), dsadès (giusto un attimo fa) e forse qualcos’altro ancora.
Denis Ferretti, Luglio 2021
CASA D’ALTRI IN DOWNLOAD
CASA D’ALTRI / CÀ D CHJ ÊTER
Il PDF del racconto completo in italiano con traduzione in dialetto a fronte
Casa-daltri-Testo-Italiano-Reggiano download
2 Responses
Riceviamo da Milena Albertin il seguente commento
Ho letto “Casa d’altri” in una notte, tutto d’un fiato. Non conoscevo Silvio D’Arzo , mi ero imbattuta la mattina in un articolo sull’imminente perdita dei diritti d’autore e il pomeriggio ho deciso di acquistarlo. Il giorno dopo un caro amico mi ha detto che era appena stato tradotto in dialetto reggiano. Che meraviglia ascoltarlo così, perché la sensazione che ho avuto dall’inizio alla fine della lettura notturna è che sia stato pensato in questo. Pare di sentire davvero la voce di Zelinda! Che emozione ascoltarvi. Grazie
Ci è particolarmente gradito pubblicare questa recensione di Cà d chj êter apparsa su Modena Flash del 21 Aprile 2023.
Dall’articolo: L’amore per la Bassa e le radici che non si dimenticano, di Fabio Marri.
….Al liceo dei tempi antichi ci imponevano le versioni dall’italiano al latino e all’esame di concorso addirittura dal latino al greco: a cosa serviva! Ma il dialetto non è altrettanto lontano o, peggio, morto, sebbene da più di un secolo se ne annunci l’ imminente scomparsa: così il reggiano Denis Ferretti (già autore di una grammatica del suo dialetto) ha tradotto nella propria “lèngua mèdra (senza pretendere che sia identica al dialetto degli altri), il più bel racconto di Ezio Comparoni (in arte Silvio D’Arzo), Casa d’altri, scritto e riscritto tra il 1947 e il ’49, rifiutato dai lungimiranti editori dell’epoca: una tristissima storia ambientata in un luogo indefinito dell’Appennino emiliano, alla fine della guerra, dove la gente sopravvive e soprattutto nuore. Quella vita che dovette sperimentare anche don Camillo, esiliato dalla politica nella parrocchia più sperduta della montagna: ma don Camillo, al pari del suo autore, aveva forza e gioia di vivere, come invece non ne ha il vecchio prete, lì da trent’anni a fare “sagre, oli santi, un matrimonio alla buona” quando capita, che racconta la storia del suo incontro, fatto di poche parole e molti silenzi, con la coetanea Zelinda: una lavandaia per conto d’altri (in questo luogo dove tutto è “d’altri”, e niente di ciò che è proprio vale la pena di tenerselo), che al prete chiede, dopo molte esitazioni, se è un peccato desiderare di finire la vita prima del tempo. Sarà esaudita, o forse… ma l’autore, maestro dell’inespresso, non lo dice.
Il racconto, o romanzo breve in 15 capitoli, e offerto così anche nella veste originale”, nella quale (chissà) fu immaginato dal suo autore nemmeno trentenne e destinato a morte acerbissima nel 1952. Cà d chị êter (edizione fuori commercio, Reggio Emilia, dicembre 2022, 63 pagine; ascoltabile nel sito http://www.lenguamedra.it per iniziativa del benemerito Rolando Gualerzi). Leggermente ridotto rispetto alla stesura italiana, il testo recupera, o forse inventa (dal momento che il dialetto di montagna è alquanto diverso rispetto a quello della bassa pianura), le parole e i modi che Comparoni potrebbe aver sentito dal vivo e a sua volta “tradotto” (come Verga, come Manzoni) in una lingua di più vasta comunicazione. Così il “lume della candela” diventa la lóma in gubiòun, “la prata dei pascoli” è la pradeina, “qualcosa di simile” passa a o sóia mè. La mirabile sintesi del cap. 14: “Un’assurda vecchia: un assurdo prete: tutta una assurda storia da un soldo” in dialetto suona, non meno efficacemente, Na vecia ciocheda, un prêt ciochê: rôba da ciold. E le ultime parole, interrogativo senza risposta, “Tutto questo è piuttosto monotono, no?”, sono rese plausibilmente con Na bèla borsa, áhn?
È un libro “di nicchia”, si dice oggi: ma un ottimo motivo per staccarci dalla vacua attualità letteraria e rileggere un capolavoro del nostro Novecento.
Fabio Marri