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sul VOCABOLARIO DELLA VALLE DEL TASSOBIO

 

 

 

Il vocabolario dialettale della valle del Tassobio di Savino Rabotti, per la sua completezza e precisione è per noi un ottimo strumento per far capire il funzionamento di un sistema linguistico, arrivando ad approcciare in modo un po’ più  “moderno” i criteri utilizzati per classificare lingue e dialetti.

Chiunque lo legga e lo confronti con le altre raccolte di termini pubblicati nel “bavól” di questo sito potrà notare inevitabilmente delle differenze. Ci sono parole diverse e addirittura grafemi che rappresentano suoni che non compaiono nel reggiano parlato in città.

Siamo di fronte a lingue diverse? Se il reggiano ha la pretesa di essere considerato una lingua, non potremmo dire lo stesso dell’idioma parlato nella Valle del Tassobio, dal momento che al pari del reggiano dimostra di avere un vocabolario ampio, regole grammaticali precise e un sistema fonologico regolare simile a quello delle lingue più parlate e più studiate al mondo?

E non potremmo dire lo stesso di tutte le varianti parlate nelle altre località che non hanno avuto la fortuna di avere un ‘Savino Rabotti’ in grado di documentare e mettere in evidenza le loro caratteristiche?

Per alcuni queste considerazioni potrebbero essere una ragione valida per classificare tutte queste varianti come “dialetti”. Ma dialetti di quale lingua? Non certo dell’italiano che ha una grammatica diversa e una storia più recente, mentre le parlate locali affondano le loro origini a tempi in cui si parlava ancora latino. C’è chi parla di lingua emiliana, chi di lingua emiliano-romagnola, suscitando il dissenso degli emiliani che sentono le parlate romagnole più lontane e meno comprensibili rispetto al lombardo. E ampliando il discorso, le stesse considerazioni potrebbero essere fatte se confrontassimo portoghese, spagnolo, italiano e francese che presentano molti tratti comuni e discrete possibilità di intercomprensibilità. Il fatto è che la lingua non ha confini politici seppur l’appartenenza politica a uno Stato abbia un ruolo molto importante nel definire il percorso di una lingua naturale. Il mondo però rimane organizzato in un continuum linguistico che, attraverso cambiamenti più o meno graduali, passa da una lingua all’altra.

Lascerei perciò al mondo accademico tutte le diatribe relative alla classificazione dei gruppi linguistici che, cambiando criteri, possono essere molteplici e inviterei a concentrarsi sul fatto incontestabile che la varietà cittadina e quella della Valle del Tassobio fanno indubbiamente parte di uno stesso sistema linguistico, ovvero sono varietà di una stessa lingua dai confini non esattamente definiti.

L’organizzazione in varietà differenti per territorio è una caratteristica naturale propria di ogni lingua: succede così in tutto il mondo. E quando la politica o la storia impongono lingue ufficiali, mettendo in atto, in alcuni casi, processi di vera e propria sostituzione linguistica, il tempo riporta le nuove lingue che si sono affermate a questa configurazione naturale, con differenze che tipicizzano ogni parlata locale.

Anche l’italiano, che in quanto lingua ufficiale si è diffusa con un’imposizione politica, dal momento in cui è stata adottata per la comunicazione quotidiana ha assimilato queste caratteristiche. L’italiano “perfetto” con le regole grammaticali e di pronuncia descritte dall’Accademia della Crusca è di fatto una lingua artificiale quasi inesistente, parlata solo dai doppiatori televisivi e cinematografici e forse nelle loro famiglie, qualora scegliessero di tramettere le loro competenze linguistiche ai figli.

L’italiano parlato in giro varia da zona a zona con le stesse modalità con cui varia il “romanzo gallico” parlato tra Reggio e la val d’Enza o l’inglese tra Gran Bretagna, America e Australia, o l’angloamericano tra uno stato e l’altro.

L’italiano parlato da me è diverso dall’italiano parlato in centro Italia, esattamente come il dialetto di un reggiano è diverso da quello di un abitante della valle del Tassobio. L’idioma che parliamo nella comunicazione quotidiana è sempre una varietà di una lingua, quindi se vogliamo, un dialetto. E’ chiamato impropriamente italiano regionale, ma le tipicità locali che differenziano una varietà dall’altra hanno un raggio di copertura che non arriva a comprendere un’intera regione.

La parola “rosso” è pronunciata a Modena a Reggio e Parma in tre modi diversi. Rispettivamente, ‘rossɔ  ‘rɔssɔ  ʁo;sso. I modenesi la pronunciano con la o tonica chiusa (e la successiva atona aperta), i reggiani con entrambe le o aperte e i parmigiani con la o chiusa ma con suono più lungo e con la loro tipica “r” uvulare.

L’italiano ha però sviluppato un sistema di rappresentazione grafica adatto a raggruppare queste differenze in modo da rendere chiaro a tutti che si tratta solo di un modo diverso di pronunciare la stessa cosa.

Questa è la cosa che manca nel sistema comunemente utilizzato per la trascrizione grafica dei cosiddetti “dialetti”: non avendo ufficialità, spesso manca un sistema sviluppato appositamente per inglobare le differenze di pronuncia e si appoggiano alle regole di una lingua “ponte” riconosciuta universalmente, e ciò porta a usare grafemi diversi per rappresentare suoni che fonologicamente hanno la stessa funzione.

Per fare un esempio pratico, dal punto di vista prettamente fonetico, tra il “canalós” che trovo nel “bavól” e il “canalús” che trovo nel vocabolario della Valle del Tassobio, c’è la stessa differenza che esiste tra il “rósso” di Modena e il “ròsso” di Reggio. E’ un modo diverso per pronunciare la stessa vocale. Ma siccome per rendere il vocabolario più accessibile, si è scelto di usare convenzioni che appartengono a una lingua diversa (l’italiano), senza dover spiegare regole nuove difficilmente assimilabili da adulti, ci si ritrova a scrivere la stessa parola con grafie diverse. In altre aree del territorio non troppo lontane, ci saranno zone in cui si scrive “canalùs” con la u breve italiana, o “canalõs” con la vocale turbata. Il suono “ú” della Val Tassobio è di fatto sempre corrispondente al suono ó reggiano, in tutte le parole. E per quanto riguarda le vocali possiamo sicuramente trovare delle corrispondenze per ognuna di esse, costruendo il tipico vocalismo locale che rappresenta la ricetta personalizzata di ogni variante.

Possiamo dedurre che il dialetto della Val Tassobio si costruisce sostituendo le vocali di un qualsiasi dialetto della provincia con quelle corrispondenti e tipiche? Certo che no. Sarebbe troppo semplice. Questa è solo una delle tante caratteristiche che definiscono una varietà. Oltre a differenze di pronuncia ci sono anche differenze nei termini utilizzati. E poi ci sono espressioni locali, proverbi e modi di dire tipici di zone molto circoscritte. Ancora una volta però inviterei a non giungere a conclusioni affrettate che portano a classificarle come “lingue diverse”. Anche l’italiano è pieno di termini che noi comprendiamo ma non usiamo mai. Ciò che per un emiliano “non è niente”, per un toscano “non è nulla”, ciò che a noi “dà fastidio” a loro “dà noia”. A Milano c’è il “calorifero” e noi abbiamo il “termosifone”.  Le lingue ufficiali ci hanno abituato a tanti sinonimi che sono di fatto ricavati dagli usi locali diversi. Le varianti locali sono perciò un serbatoio di espressività diversa, ed è anche questa la ragione per cui andrebbero tutelate.

Persino la grammatica può avere utilizzi diversi nell’ambito di una stessa lingua. Si pensi al passato remoto che in gran parte del nord Italia non si usa mai. L’articolo davanti ai nomi propri femminili che fa ancora parte del nostro quotidiano. Abbiamo fatto l’abitudine ad ascoltare in TV e nei film dialoghi in una lingua che abbiamo catalogato come la nostra lingua, ma che non potremmo mai riprodurre identici senza che quelle stesse parole ci apparissero estranee.

Il vocabolario della Valle del Tassobio ci ripropone una realtà parallela a cui, per la salvaguardia del nostro patrimonio culturale, dovremmo abituarci.

La scelta di un metodo grafico che evidenzia in modo molto preciso la pronuncia tipica locale è un ottimo metodo per mettere in evidenza le particolarità delle lingue locali. Se da un lato ha lo svantaggio di far apparire diverse tutte le varietà intercomprensibili e rendere necessario un vocabolario per ogni comune o addirittura per ogni frazione, ha invece il vantaggio di rappresentare perfettamente l’identità locale, e per i parlanti dei dialetti questo è un requisito di grande importanza. Chi scrive in vernacolo sente forte l’esigenza di trasmettere non solo il significato di ciò che scrive, ma anche la pronuncia esatta che lo caratterizza.

Le convenzioni grafiche utilizzate per differenziare i suoni presenti nel dialetto della valle del Tassobio, quando questi non compaiono nella lingua italiana, divergono leggermente da quelle in uso nel dizionario reggiano Ferrari-Serra, ma sono più uniformi alla maggior parte dei dizionari dialettali delle altre province. Per esempio, all’accento circonflesso è assegnato un suono lungo e chiuso, contrariamente a quanto fa il dizionario reggiano che lo usa per suoni lunghi e aperti. Gli altri diacritici usati per i suoni turbati sono comunque spiegati nella legenda all’inizio del vocabolario. Io vorrei invece evidenziare le corrispondenze più comuni con il reggiano di città, in modo da capire la “logica” di questa variante.

 

IL VOCALISMO DELLA VALLE DEL TASSOBIO

 

Come le altre varianti locali, il dialetto della valle del Tassobio è caratterizzato da un sistema vocalico molto complesso dovuto alla netta divisione tra fonologia e fonetica: ogni vocale, cambia suono in funzione del fatto che sia in una posizione tonica o atona. Le toniche hanno suoni differenziati a seconda che si trovino in sillaba aperta (prima di consonanti semplici) o in sillaba chiusa (prima di particolari gruppi consonantici), prima della N (Rabotti ne accenna parlando della pronuncia di â, che pur espresso con la stessa grafia, ha un suono leggermente diverso quando è seguito da N. In questi casi la N che non è pronunciata, come in italiano, con la lingua contro  i denti, ma si fonde con la vocale stessa).

C’è un suono differenziato anche per le toniche finali di parola, mentre le atone hanno pure un suono differenziato a seconda che siano pretoniche, post-toniche interne alla sillaba o finali di parola.

A livello fonetico si formano perciò moltissime vocali distinte tra loro che i dizionari identificano usando segni diacritici.

E’ interessante vederlo nel dettaglio:

La vocale A latina, per esempio, nella variante del Tassobio resta molto simile all’antico italico, e all’italiano. La differenza tra sillaba aperta e chiusa si limita alla lunghezza della vocale che suona appunto â (suono lungo)  in sillaba aperta e “à” (suono breve) in sillaba chiusa. Nel reggiano di pianura, il suono tipico della sillaba aperta si restringe fino a diventare una “e” semiaperta (ê), mentre il suono in sillaba chiusa si allunga e diventa perciò identico a quello che la varietà appenninica assegna al suono in sillaba chiusa. Ciò che l’italiano differenzia con la quantità consonantica (es. la coppia minima caro/carro), il dialetto lo differenzia con la quantità vocalica (câr/càr). Se si uniscono consonanti diverse, la quantità vocalica è sempre chiara e percepibile.

L’italiano “caldo” è in “câld” in Val Tassobio, e “chêld” a Reggio.

L’italiano “pasta” è “pàsta” in Val Tassobio e “pâsta” a  Reggio dove il suono breve “à” è solo finale di parola.

Il suono cosiddetto “nasale” prima della N in sillaba aperta è invece identico in Val Tassobio e a Reggio, ma mentre nel primo caso si assimila graficamente al suono di sillaba aperta, nel secondo somiglia a quello di sillaba chiusa. Es. “cane” diventa “cân” ed è caratterizzato da una pronuncia più arretrata della N che si fonde con la vocale stessa: câ(n).

In posizione atona la A  latina mantiene il suono italiano se è pretonica o finale di parola, ma viene pronunciata come una “e” aperta quando è post-tonica.

Es. L’italiano “scandalo” è “scàndel”….ma il suo derivato “scandaloso” diventa “scandalûš”, quando, aggiungendo un suffisso, portiamo la vocale in questione in una posizione che precede la sillaba tonica.

La e in “súcher” (zucchero) è, fonologicamente, una A, come nello spagnolo “azúcar”, ma ancor di più, come nell’arabo “súkkar” a cui l’etimologia fa riferimento. Lo si capisce perché nelle alterazioni (es. zuccherino = sucarîn), ritorna  nella forma prevista dalle regole fonologiche.

Per quanto riguarda la E, la variante di Val Tassobio propone una semplificazione della variante reggiana, con una fusione dei fonemi “èi” ed “ē” presenti in pianura che convergono tutti in ē, anche quando seguiti da n e n+consonante sorda. Anche in questo caso c’è il suono “nasale” che fonde vocale e consonante in un tutt’uno, ma di fatto non è percepito e non è differenziato graficamente.

In sillaba chiusa il suono tipico della Val Tassobio è una “è” aperta e breve. In pianura suona un po’ più aperta, ma in modo non percepito, quindi la grafia scelta è identica.

Lo stesso suono si presenta in posizione corrispondente al dittongo “ie” italiano e rimane tale anche in forma atona nell’alternanza vocalica; “bicchiere” è perciò bicêr e le sue alterazioni sono “bicerîn” e “biceròt” (bicirîn e bicirôt in città).

Come in città, inoltre c’è la fusione tra suono lungo corrispondente alla “e italiana aperta” e suono breve, corrispondente alla italiana aperta”, cosicché “letto” e fazzoletto” fanno rima (lèt e fasulèt), mentre la separazione dei suoni è tipica del modenese e della parte orientale della montagna, dove i suoni sono distinti e abbiamo (lêt e fasulát)

Le “e” atona, generalmente è sincopata (cade e non si pronuncia), come per esempio in “plâr” (pelare, in pianure “plêr). Si pronuncia “e” aperta per motivi di eufonia, quando la sincope non è possibile (es. schersâr, scherzare) o nei neologismi “federâl” (federale). Una tipicità montana è la “e” eufonica d’appoggio posposta alla consonante, e perciò finale di parola. Il portico diventa “pòrdghe”, il fenomeno è “fenòmne”. Però per la maggior parte delle parole sono presenti le due alternative ugualmente accettate: “maìster” o “maìstre” per maestro, “quâdre” o “quâder” per quadro. Segno che siamo in una zona di confine tra le varietà di pianura e quelle di montagna.

Per quanto riguarda la I, notiamo la sostituzione della “é” cittadina, tipica della sillaba chiusa, con una “í”, identica alla “i” italiana ma breve, tipica di tutta la zona ovest al confine della provincia di Parma. Lo stesso suono lo troviamo anche in finale di parola (es.dì, chí, acsí, per “giorno”, “qui”, “così”). In sillaba aperta invece si usa î come in tutto il resto della provincia (ma anche della regione), quindi la sillaba aperta e quella chiusa sono differenziate solo dalla lunghezza della vocale: dí = giorno; dî = dito.

La O mantiene la separazione tra suono chiuso e suono aperto presente anche in italiano, sia in sillaba aperta che in sillaba chiusa: abbiamo perciò quattro diverse espressioni a fronte delle sole tre presenti in pianura dove c’è fusione tra sillaba aperta e chiusa nel suono aperto: “nota” e “notte”, che possono apparire indifferenziate in città, hanno invece una pronuncia distinta nella variante del Tassobio: “nòt(a)” è la notte, mentre “nôta” è la nota musicale. Altri due suoni distinti li troviamo per la O chiusa. In sillaba aperta è espressa come “û”, in parole come “ûrs” (orso) o “lavûr” (lavoro) che in città vengono ormai espresse con una “ō” che ha sostituito il suono “òu” tipico del reggiano inframurario antico. Lo stesso suono è utilizzato per la nasale (prima della n intervocalica o seguita da consonante sorda. Es. Mûnt (monte), bastûn (bastone) che in città invece mantengono il dittongo antico òu.

In sillaba aperta l’esito invece è “ù” breve. Es. “pùs” (pozzo), “rùs” (rosso). In sillaba atona, la O italiana è generalmente resa con “u” (lavuradûr, bucâda), ma troviamo qualche “o” nei neologismi e negli adattamenti e prestiti dall’italiano (motosega, fotografìa).

Nella variante della Valtassobio troviamo anche un suono specifico corrispondente al dittongo “uo” italiano, mentre in città questa separazione rimane appannaggio di una variante antica ormai parlata da pochissimi.

Il suono in questione è, nella parlata montana, la o turbata presente nel francese e nel tedesco, che in questo vocabolario è indicato con ö, preso a prestito dal sistema grafico tedesco. Cör = cuore; fögh = fuoco. Nelle grafie antiche degli autori di appennino che hanno scritto in dialetto, talvolta questo suono è stato rappresentato con eu scritto in corsivo (prestito dal francese). E’ un suono lungo.

La “u” latina nella variante della valle del Tassobio si chiude e diventa come la “u” francese, sia in sillaba atona che tonica aperta o chiusa. La differenza tra sillaba aperta e sillaba chiusa riguarda la lunghezza della vocale: “brút” (brutto), súca (zucca) hanno un suono breve, mentre “spûd” (sputo) e “madûr” (maturo) hanno un suono lungo. L’autore ha scelto di differenziare la u francese (turbata) da quella italiana scrivendola in corsivo e ha rinunciato a utilizzare la dieresi tedesca come fatto con ö, probabilmente perché avrebbe comunque dovuto evidenziare col corsivo i suoni in sillaba atona.

Altri suoni vocalici:

Oltre ai suoni elencati che completano la fonologia regolare della variante di Val Tassobio, sul vocabolario è possibile trovare parole che testimoniano altri suoni: sono solitamente esito di prestiti o di influenze da varianti vicine.

Alcuni esempi: fégna (il covone) ha il suono breve tipico dalla “i” cittadina in sillaba chiusa; Šavóra (zavorra) è pronunciata con la “ó” chiusa breve tipica di Castelnovo Monti. Ōra (ombra) ha ancora una vocale tipica della pianura, più aperta rispetto allo standard locale, anche se graficamente espressa, come già detto, con segni diacritici invertiti rispetto alle abitudini degli scrittori di città.

 

IL SISTEMA CONSONANTICO DELLA VAL TASSOBIO

 

 

Il sistema consonantico è invece praticamente sovrapponibile alle varianti di pianura: i suoni cl e gl latini si sono tramutati in “c” e “g” italiane dolci in parole come “ciâr” (chiaro) e “giâra” (ghiaia); mentre c dolce, g,  s e z convergono tutti nel suono “s” differenziato tra sordo e sonoro. Il suon sonoro è indicato con š e quello sordo con s (a volte sottolineato per evidenziare una pronuncia diversa da quella che spontaneamente riprodurremmo leggendo in italiano). Alcuni esempi: Gennaio: Šnâr; cimitero: simitèri; Súcher (zucchero); Šerbîn (zerbino); Le eccezioni sono parecchie: i casi in cui c e g latini mantengono il suono presente anche in italiano, che in città sono frequenti nei neologismi e nei termini di registro “alto” (al generêl = il generale), in val Tassobio sono ancora più frequenti e si ritrovano in parole di uso comune, come “gènre” (genero, in pianura šèner), gèt (getto, in pianura šèt) o ciclör (ugello nel motore, in pianura šiglōr).

Le altre consonanti restano pressoché identiche all’italiano nelle parole di derivazione latina e l’unica particolarità da segnalare è il fenomeno della sonorizzazione delle consonanti semplici, cosicché t, c, e p, latine, nelle parole corrispondenti, rimangono sorde solo iniziali di parola o uniti ad altre consonanti, ma si trasformano nelle varianti sonore d, g, e v quando sono intervocaliche, seguite da r o finali si parola prima di una “assenza di desinenza”.

Es. maturo = madûr; amico = amîgh; sapone = savûn.

Questa trasformazione non avviene nei neologismi e nelle parole di registro “alto” (es. nei termini ecclesiastici: Papa = Pâpa).

E’ comunque un aspetto comune a tutte le varianti in un raggio molto ampio.

 

CONCLUSIONI

Con questa breve presentazione che descrive “in modo sommario” le diversità tra una varietà di un’area montana circoscritta e quella del capoluogo di provincia, abbiamo fornito un esempio pratico delle differenze tra pianura e montagna. Ci sono ovviamente tante altre particolarità che meriterebbero di essere esaminate nel dettaglio, ma questa è una base di presentazione che potrebbe essere utilizzata per presentare ogni singola varietà di un territorio molto più vasto. Dovrebbe risultare chiaro che ogni zona ha una propria “ricetta” per esprimere con una fonetica diversa una fonologia comune e si potrebbe perciò costruire un inventario fonemico di tutte le varietà locali.

Per molti, la consultazione di questo vocabolario potrebbe essere una “palestra” per capire l’uso corretto dei diacritici, la loro logica e suggerire un metodo coerente per rappresentare foneticamente la propria varietà.

Ma è anche uno spunto per capire i rapporti fra le varietà locali e abituarsi all’idea che, futuribilmente, si potrebbe pensare di rappresentarle tutte con una grafia comune che permetta di conservare le rispettive abitudini di pronuncia. Si tratterebbe comunque un sistema pensato per “affiancare” la scrittura tradizionale e dare un’alternativa per usi specifici e non per sostituire i sistemi attualmente in uso, né tanto meno per cancellare la tradizione letteraria dove presente.

Denis Ferretti

 

 

 

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