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STAFÈTI PARTIGIÂNI

 

Olema Righi, staffetta partigiana di Carpi.

 

«Per me Resistenza ha voluto dire vivere
giorno e notte sulla bicicletta».
Ida Camanzi – Ilonka

 

Limitare il contributo delle donne nella Resistenza al solo ruolo di staffette su due ruote è oltremodo limitativo, in quanto esse si impegnarono in  molti altri modi:  dalla partecipazione alla vita politica clandestina, all’assistenza ai feriti; dalla raccolta di indumenti, cibo e medicinali alle attività per la sussistenza delle forze partigiane fino all’impiego delle armi. Non solo, avevano la capacità di guardare avanti. Ida Camanzi, staffetta partigiana a Ravenna, si alterava quando si parlava della resistenza delle donne come “aiuto” a quella degli uomini, diceva che in quei giorni duri, pensavano al dopoguerra, al diritto di voto, al diritto al lavoro e di studio, agli asili per i bambini e le bambine, perché, diceva, “guardavamo lontano”.

Non c’è dubbio tuttavia che il loro ruolo principale era quello di collegamento tra le formazioni partigiane disperse sul territorio e tra queste e il centro direttivo. Così, l’immagine delle staffette partigiane in bicicletta è  quella maggiormente presente nell’immaginario collettivo.

“Negli eserciti regolari si tratta di mansioni affidate ad appositi ufficiali di collegamento. Il ruolo delicato e di movimento, complicato dallo stretto controllo del territorio operato dai nazifascisti, rende quasi impossibile agli uomini in età di leva lo postarsi senza venire fermati. È così che questi incarichi vengono affidati alle donne, a volte anche giovanissime, non mobilitabili nella guerra e meno controllate. La staffetta lavora da sola ed è lei che decide in che modo eseguire i1 compito affidatole. Le donne, a piedi o in bicicletta, divengono le migliori agenti di collegamento con le formazioni, finendo per trasportare di tutto: cibo, indumenti, armi e materiale di propaganda, oltre a essere depositarie della trasmissione di ordini e informazioni. È un lavoro faticoso e ad alto rischio”.
[Sentieri partigiani. Un viaggio della memoria nell’appennino reggiano, a cura di Daniele Canossini e altri, 4^ ed. 2020, Panozzo Editore].

Molte sono le testimonianza pubblicate sull’attività delle staffette partigiane che dimostrano il coraggio di queste donne. Tina Anselmi, staffetta partigiana veneta e prima donna ad aver ricoperto la carica di Ministro della Repubblica italiana, racconta nel suo libro La Gabriella in bicicletta, che percorreva anche 100 e più chilometri al giorno nella zona di Castelfranco Veneto.

Per restare a ciò che avvenne nella nostra provincia riportiamo i brani più significativi della testimonianze rilasciate da due ex-staffette partigiane, Giacomina Castagnetti e Lidia Valeriani, raccolte da Istoreco, nonché alcuni brani tratti dal volume La bicicletta nella Resistenza a Reggio Emilia.  Stralci di testimonianze delle donne, staffette e partigiane, raccolte da Avvenire Paterlini nel suo volume “Partigiane e patriote della provincia di Reggio Emilia”, 1977, Edizioni Libreria Rinascita.

 

Giacomina Castagnetti (Quattro Castella)
Le notizie giravano nelle nostre borse, in bicicletta. Però i volantini se ti fermavano, come hanno fermato me all’Ospizio che mi hanno preso la bicicletta, voleva dire eh andare in galera dritte dritte e non saltare mai più fuori.
Si trasportava armi. Io per esempio nella borsa con le patate dentro ci mettevo le bombe a mano, perché le patate erano rognose anche loro e quindi le bombe a mano in fondo e sopra le patate. Perché i partigiani per recuperare le armi, voi lo saprete, ma ve lo racconto anche io, che al primo momento davano l’assalto a tutti i presidi fascisti per recuperare le armi. E quindi queste armi dopo dovevano essere trasportate da una persona all’altra e così via. Poi c’era il bisogno delle notizie, i giovani erano in montagna ma dovevano sapere cosa accadeva in pianura. Quindi c’era l’andare e venire sempre di questi piccoli bigliettini per portare le notizie di come si muovevano i tedeschi , di quello che facevano i tedeschi, se c’erano i rastrellamenti, se i nostri uomini erano in pericolo. Se c’era un rastrellamento noi in bicicletta ci davamo la voce poi in quattro o cinque dai vari capi della frazione nel giro di una ora o venticinque minuti noi davamo l’allarme e i giovani e gli uomini che erano a casa, che erano scappati dal fronte sapevano che dovevano andare fuori casa e andarsi a nascondere in pianura dove era possibile. (…)

 

 

Lidia Valeriani (Montecavolo di Quattro Castella)
Nella bassa reggiana noi avevamo tra Limidi, Soliera, Carpi… insomma tutta quella zona lì, noi avevamo un po’ ammassato tutte nostre forze, molte delle nostre forze. Perché lì tutte le case erano con noi. Tutti i posti erano… Avevamo avuto anche un periodo che la chiamavo una zona libera, cioè che non c’entrava nessuno. Però c’è stato tra i nazifascisti, si vede che avevano… per quella zona lì c’avevano ragionato su anche loro, non solo noi… Allora a un certo punto hanno deciso di fare un rastrellamento per liberare la zona. Ma un rastrellamento con delle forze, con delle mitragliatrici, con delle forze pesanti, delle armi pesanti per liberare questa zona che avrebbero distrutto un po’ tutta la nostra organizzazione diciamo. Allora ci siamo riuniti al comando: “Qui c’è da andare”, c’è la solita storia della staffetta che deve partire e deve affrontare questo combattimento – perché era un vero combattimento quello lì, di forze – e andare a avvisare tutti i nostri, perché se no li massacrano se non sono pronti a affrontare questo rastrellamento. E se non sono pronti per affrontare vuole dire che si ritirano in tempo prima di essere tutti massacrati. Un bel momento dico: “Allora ci vado io”. Della zona ero già pratica perché là ci andavo spesso. Avevamo tutte delle famiglie di contadini, che erano delle famiglie meravigliose, e dico: “Parto, datemi la rivoltella e vado”. Gli ordini più o meno, quelli che si poteva si tenevano nel cervello e si tiravano fuori quando era il momento… e vado. Allora incontro questa pattuglia e cosa faccio? Mi intimano l’alt. Io tiro fuori la mia rivoltella e sparo, sparo mentre vado in bicicletta… e vado, sparo fin quando riesco e continuo a andare, e vedo che continuo a andare e vado e… arrivo al punto giusto dove mi potevo fermare e che dovevo poi avvisare tutti quelli che dopo ci sono andati…e lì poi abbiamo fatto presto a darci voce. E così. E sono riuscita a passare tra questi spari, queste pallottole, questo disastro perché quando c’erano loro che sparavano non avevano bisogno di risparmiare una pallottola perché dopo là non ce l’ho. Cioè, noi dovevamo fare anche questo, ma loro ce n’avevano in abbondanza. E ci sono riuscita, è riuscito il combattimento, è riuscito tutto e si sono salvati
[guarda e ascolta le interviste integrali]

 

Ciao amici, la Céca che è stata partigiana se ne va!”.
Con queste parole si è spenta nel 2017 Zaira Rinaldi, nome di battaglia “Dimma”. Negli anni della Resistenza faceva la sarta e sulla sua bicicletta portava una borsa con metro, spilli e forbici, facendo finta di andare dai clienti a prendere misure per confezionare abiti, e invece recapitava messaggi nascosti nei capelli. Raccontava: “Avevo i capelli lunghi così ci nascondevo dentro tanti biglietti e mi facevo certe acconciature!”.

Sempre in bicicletta da Arceto o da Fellegara accompagnava alla Ca’ Bassa di Rondinara i giovani che dai comuni sotto la via Emilia andavano a raggiungere i partigiani in montagna. Legata al gruppo dei partigiani di Arceto, li aiutò nella cura dei feriti e cercò poi invano di recuperare il corpo del cugino, Nino Rinaldi “Eros” morto in località Minghetta a Viano.

Coraggiosa e capace, diede un grande contributo alla lotta di Liberazione scandianese. Eppure a chi la intervistava diceva “A me non sembra di aver fatto granché”.[da: Reggio online, accesso 8.02.2022].

Altre testimonianze

“Nell’aprile del 1944 mi trasferii a S, Rigo. Partii da Cavriago in bicicletta con una borsa piena d’armi. Attraversando il paese, mi sembrava che tutti si accorgessero di me ed immaginassero dov’ero diretta. Senza incidenti invece arrivai a S. Rigo” (Rosina Becchi, classe 1918).

“Nel luglio 1944 è necessario trasferire armi da Villa Masone a S. Bartolomeo. “Bruna” prende la sua bicicletta, lega un carretto dietro e va a Masone. Carica una mitragliatrice, altre armi e munizioni, camuffa il carico con delle masserizie e via. Deve attraversare parte della periferia della città, deve attraversare il ponte del  Crostolo, ma non si preoccupa! Pensa lei a a trovare la strada meno controllata, (…) arriva sana e salva a Castelbaldo, prima di S. Bartolomeo.” (Giovannina Grassi, classe 1925)

“Mi ricordo bene un viaggio che feci con la mia bicicletta con un carico che portai da Rio Saliceto, sotto la neve e la pioggia e passando anche davanti a sedi di fascisti, fino a Villa Sesso a casa Manfredi.

Nell’autunno del 1944 ebbi l’incarico di trasportare una mitragliatrice (cosa molto rara in quell’epoca): la caricai sul carrettino del latte, legai questo dietro la bicicletta, coprii il tutto con della saggina e partii, anche se ero gravida di parecchi mesi, scortata a distanza da due partigiani; il trasporto ebbe esito positivo. Poiché il mio stato di gravidanza era molto avanzato dovetti poi abbandonare la bicicletta.” (Brunetti Noemi, classe 1923)

“L’ultimo giorno di febbraio 1944 io e la Lidia, in bicicletta, distribuimmo volantini in tutta la zona di Montecavolo e nella parte alta di Rivalta per invitare la popolazione a partecipare alla manifestazione che si sarebbe svolta il giorno dopo a Montecavolo. L’indomani, il 1° marzo, fu un successo.” (Buffagni Alberta, classe 1921)

Era mio compito sorvegliare le strade, tenere i contatti, portare parole d’ordine, messaggi orali e scritti a Ca’ de Frati di Rio Saliceto. A Villa Prato di Correggio sono andata a prelevare un mitra che, ben nascosto in una sporta appesa al manubrio della bicicletta, portai a casa dove, la sera stessa, venne prelevato.” (Catellani Gina, classe 1924)

“La stampa veniva prodotta in una stalla della bassa reggiana e mi veniva recapitata dalla staffetta “Libera”. Naturalmente, allora, l’unico mezzo di trasporto era la bicicletta e la vastità della zona era tale per cui non riuscivo mai a rientrare a casa prima del coprifuoco.” (Corradini Liliana, classe 1926)

“Ero staffetta di collegamento nella bassa reggiana: Casoni di Luzzara, Guastalla, Novellara, Suzzara, Mantova e altre località. Con la bicicletta portavo ordini, trasportavo armi e munizioni nei vari centri dei paesi, nei modi più impensati per non dare sospetti ai fascisti. Mi ricordo essere stata fermata dai fascisti che volevano sapere cosa avevo in due enormi borse appese al manubrio della mia indimenticabile bicicletta. Risposi che tenevo del vino e, decisa, presi una bottiglia, gliela diedi dicendo di bere anche le altre bottiglie, che però erano piene di colpi di mitra.” (Daffini Iva, classe1921)

“Fui incaricata dal C.L.N.A.I. di mantenere i collegamenti fra Reggio Emilia e Parma. A Reggio ero collegata con l’avv. Negri Arrigo che dirigeva l’apparato stampa e con Magnani Aldo. Viaggiavo sempre in bicicletta: ricordo che un giorno, in bicicletta, trasportai fino a Parma una macchina da scrivere.” (Fontanesi Erda, classe 1916)

“Divoravo chilometri e chilometri ogni giorno. Portavo e ricevevo messaggi verbali e scritti, giornali, medicinali, manifesti, divise militari, armi efficienti o da riparare e, nella giovanile spensieratezza, passavo quasi senza batticuore davanti alle caserme dei militi fascisti che, del resto, poco si curavano di me e degli involti più o meno voluminosi che portavo sulla mia bicicletta.” (Mazzali Anna Maria, classe 1928)

“Percorrevamo km e km di strada in bicicletta per tenere i collegamenti. Bisognava lavorare durante il coprifuoco oppure, comunque, eludendo la vigilanza dei fascisti. Noi avevamo il compito di trasportare, nascoste dentro sporte, oppure con un carrettino trainato dalla biciletta,  pacchi dove c’erano armi.” (Mazzali Leda, classe 1922)

“Oltre al lavoro di staffetta per i collegamenti fra le varie formazioni partigiane nella zona di Massenzatico, Correggio e S. Martino,  il 15 aprile 1945, nella battaglia a Villa Gazzata e Fosdondo, insieme alla Tirabassi, sono riuscita a tenere i collegamenti fra i vari distaccamenti partigiani. Tra il fragore delle armi, in bicicletta, attraverso i campi, ci spostavamo da una postazione all’altra portando ordini e contrordini.” (Nironi Ines, classe 1922)

“Il 2 febbraio 1945 con Zina Rossi partii da Bagnolo in bicicletta per Milano, dove eravamo state inviate per svolgere il nostro lavoro cospirativo. Fu un viaggio avventuroso e denso di pericoli: a Piacenza non funzionò la parola d’ordine e ci rifugiammo a dormire in un convento di suore. Traghettammo il Po con tedeschi e fascisti e subimmo un terribile bombardamento alleato; a Lodi fummo portate in caserma dalla brigata nera e fortunatamente rilasciate” (Polizzi Laura, classe 1924)

“Dopo parecchie missioni portate a termine senza incidenti, nell’agosto del 1944, dovendo raggiungere il comando della 145a in una zona della montagna, arrivata nella zona di Baiso (in bicicletta da Campagnola), dovetti proseguire a piedi per maggiore sicurezza e, arrivata a Cerrè Sologno, venni fermata dai tedeschi e tenuta in ostaggio per venti giorni” (Rifredi Luciana, classe 1929).

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