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LA BICICLÈTA E AL DÒNI

 

«Su preghiamo il buon Signore
Che ci salvi a tutte l’ore
Da tempesta e da saetta
E da donne in bicicletta».
Don Dario Flori, 1917

 

Siamo nel 1897. Nel piccolo teatrino dell’Istituto Psichiatrico San Lazzaro, oggi non più esistente,  va in scena uno scherzo comico dal titolo Gnint ed tutt, di Virginia Fiastri Guicciardi. La commedia è ambientata nella casa della famiglia Salsetti, formata dalla madre Rusinòun (che comanda), da suo marito Puldein (ch al sta schés) e da tre figli: Celso, il più piccolo; Gigioun di 19 anni, fidanzato con una vicina di casa, Adele; e Antonietta, fidanzata con il signor Angelo, ex scrivano, più vecchio di lei ma con parecchi soldi.

Il matrimonio tra i due rischia di andare in fumo perché Angelo ha saputo che Antonietta esce la notte con degli altri giovani e vuole scoprire se lo tradisce. In realtà Antonietta esce la notte con Gigioun e Adele. Scopriamo il perché.

 

 

RUSINOUN – Avanti e pochi ciaccér. È veira che t’andèv fóra ed nott?
ANTONIETTA – Sé.
RUSINOUN –E vó e’gh’ eri ségh.
ADELE – Sissignora.
RUSINOUN– (Furibonda). Adessa mo’ e t’al dégh mé che t’é seinza riputazioun. T’é pèrs un mari che nuveter e t’al dèven acsée luntéra. Va… t’é ruvinèe la to famja. Và fora ed cà…
PULDEIN – (Le fa cenno d’arrestarsi).
ANTONIETTA-– Anca lée, mama… (Cade singhiozzando su di una seggiola).

PULDEIN – Povra ragazzóla.
GIGIOUN – Andomm! sta puleinta e soun stùff de mnèrla. E l’ii da savèir tùtta. L’é veira ch’l’ é ché soqquanti sir che da mé, l’Antonietta, e l’Adele i’ andèven in zémma a la mura a lusour ed luna. Mo al sgnour Angel al s’é scurdèe ed dir che con nuvetèr a gh’era un’ ètra persouna, la sola colpevole in tùtt e’ ste barbèsch.
RUSINOUN – Mo chi ?
ANTONIETTA – La bicicletta ed Gigioun.
RUSINOUN – Cusa gh’ eintra la bicicletta?
ADELE – (Inginocchiandosi) Sgnoura Ruseina, l’ am perdouna. Em sentiva murir da la voja d’andèr in bicicletta. Me zina en vliva, e da dé e n’em srèv attintèda. Csa peinsa Gigioun ? Vin fóra – al dis – a lusour ed luna che t’inségn in dou o trèi volt. Mé e’ soun una ragazza pr’al vers e da per mé con ló e n’ gh’ soun vruda andèr, e i’ho fatt gnir nosch cla povra dièvla d’ l’ Antonietta.
PULDEIN – A purtèr al candlér.
ANGELO – Sicché, una ragazzèda…
RUSINOUN – Una cosa cumpagna se l’ éssa savuda in èter mumeint em l’aréssi paghèda chèra tùtt quant. Mo l’è stèda acsée grossa la strètta ch’ i’ ho avû ch en soun più bouna ed cridèrev.
ANGELO – Dunque, sei innocente. Perdounem d’ aveir susptèe. (Fa per abbracciarla – Antonietta si schermisce).
RUSINOUN – En fèr la schittignousa, ch’ al gh’ iva miga una, mo zeint ragioun.
PULDEIN – Guardèe lé, pr’una bicicletta !.. Serpeint d’ un usvii che l’ha inventèe al dievel per fèr pèrder la testa ai sgnour, ai puvrètt, al donn, ai ragazz, ai vècc…..a tùtt.
ANGELO – Antonietta…. (Antonietta da la mano ad Angelo).
Ecc. ecc ……………
(e al schêrs al finès bèin naturalmèint)

Ecco, la causa dello scompiglio in casa Salsetti è dovuto ad una bicicletta, un serpèint d’un usvii!, come dice Puldein.

Perché e come mai Adele deve uscire di notte per prendere lezioni di ciclismo da Gigioun?

A fine ’800 la bicicletta fu una novità così sconvolgente che fece perdere la testa a tutti. Come per tutte le cose “rivoluzionarie” si formarono subito due partiti: i conservatori, violentemente contrari e gli entusiasti della nuova invenzione.

I primi ciclisti dovettero superare molti ostacoli. Coloro che potevano fungere da maestri erano molto pochi; in molte città furono emanati divieti di circolazione in quanto le biciclette “disturbavano la quiete pubblica” e i vigili si accanivano sui trasgressori. Nelle campagne, il passaggio di una bicicletta spaventava i contadini, che mai avevano visto un mostro metallico tanto veloce. I ciclisti erano oggetto dello scherno dei ragazzi e dell’ostilità di molti adulti. Anche i cani, randagi o non, erano un pericolo per i polpacci dei primi ciclisti. Addirittura Cesare Lombroso sostenne che la bicicletta favoriva il crimine per la facilità di fuga. [Mellini M., La strada si conquista. Donne, biciclette e rivoluzioni, Capovolte editore, 2021]

Tuttavia, il numero dei ciclisti andò rapidamente crescendo e le loro prime associazioni cominciarono ad organizzarsi per avere anche un qualche peso politico

I ciclisti e le elezioni
Sebbene noi siamo sempre rimasti estranei, come resteremo, alla politica non possiamo [fare] a meno di approvare l’opera della Società velocipedisti di Torino che intende entrare in campo di battaglia nelle elezioni amministrative per combattere le candidature ciclofobe. Oggi i velocipedisti non sono più un gruppo di ragazzi, ma sono un rispettabile numero di uomini e possono ben valersi dei loro diritti per tutelare i loro interessi. (da: Illustrazione ciclistica, 1894,3 (46),713).

Ben presto ci si abituò a quei “matti” a due ruote. A condizione che fossero uomini, ovviamente! Fin dall’inizio della sua storia, in Italia, le donne in bicicletta vennero fortemente osteggiate. Non così in altri paesi, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia, dove una donna in bicicletta poteva anche essere l’immagine di copertina di un grande giornale (1893 ca).

 

 

Mentre ad Ostenda, in Belgio, nel 1896 si corse già il primo campionato mondiale di ciclismo femminile, in Italia le cose andavano decisamente peggio e infuriò un furioso dibattito fra i tanti detrattori  (anche donne) e i pochi sostenitori.

Salute, costume e moralità furono i tre capisaldi dell’avversione della società di fine ’800 per le donne cicliste. Molti medici sostenevano che la posizione che la donna doveva assumere, con il busto piegato in avanti, provocava congestione pelvica ed era pericolosa per la sua salute e per la sua capacità di generare, oltre a paventare un’infinità di altri rischi, come “svenimenti, sincopi, intorpidimenti cerebrali, danni alle articolazioni e alla spina dorsale, così come al cuore e ai polmoni”, e altro ancora.

Sul piano del costume si produsse una frattura profonda con la tradizione. Per la prima volta la donna poteva spostarsi da sola, non più al fianco di un uomo. Poteva allontanarsi da casa e sfuggire allo stretto controllo dei famigliari: in sostanza, diventava più indipendente e questo non era tollerato da molti.

Per poter salire in biciletta la donna dovette modificare il suo abbigliamento, liberandosi di corsetti che la imprigionavano e da voluminose gonne. Dagli Stati Uniti prima e dalla Francia poi arrivarono nuovi indumenti ispirati agli ampi calzoni delle donne turche (bloomers) e la cosiddetta jupe culotte (gonna pantalone). L’universo maschile non poteva tollerare che le donne si impossessassero dei calzoni, un capo sempre appartenuto all’uomo e simbolo del suo potere sulla donna. Alleggerendo il proprio abbigliamento la donna si avvicinava, almeno nell’immaginario maschile, a quelle immagini licenziose diffuse dalla pubblicità, in cui donne coperte solo da veli svolazzanti erano a cavalcioni delle più belle biciclette.

Per non parlare poi dello scandalo provocato dalla pubblicazione in Francia del libro Voici des ailes! (Abbiamo le ali!), dove due coppie di sposi in viaggio di piacere, si scambiano non solo le biciclette … ma anche i rispettivi partner.

La bicicletta non era dunque solo un mezzo di trasporto ma un mezzo di emancipazione e di liberazione delle donne.

La donna in bicicletta per la società del tempo non era solo indecorosa, era decisamente immorale. Se a cavallo le gambe stavano dallo stesso lato dell’animale e restavano  chiuse cavalcando all’amazzone, in bicicletta questo non era possibile. Commenti sarcastici, ostili alle nuove amazzoni, vennero espressi anche da nobili signore:

La nobildonna marchesa Cigala Fulgosi di Milano, amazzone e assidua frequentatrice dei circoli equestri della città lombarda, ostentava ogni giorno, fra i nobili benpensanti, la sua avversione verso il nuovo veicolo a due ruote. Una volta, più per provocazione che per cortesia, le offrirono di fare un giro su velocipede nei Boschetti del Parco a Milano. Ella sdegnata esclamò in dialetto milanese: “..in mezz ai mè gamb, de robb che stan minga in pee de per lor ghe ne ven minga!”[Cionfoli M., Pedalare controvento: Ciclismo femminile nella storia, Marcianum press 2013].

C’era poi il pruriginoso problema del  punto di contatto con la sella che tormentava i sonni dei moralisti, soprattutto se la sella  aveva un becco rivolto all’insù, tanto che, a tutela della morale, vennero realizzate  selle con una profonda scanalatura centrale!

Fortunatamente, ci furono alcune donne importanti che sposarono invece la causa della bicicletta. Non solo donne libere e spregiudicate come l’attrice-cantante Lina Cavalieri, ma anche donne dell’altissima nobiltà del tempo, compresa la Regina d’Italia Margherita di Savoia. Suo istruttore fu Edoardo Bianchi, il principale costruttore di biciclette del tempo. Anche lui dovette però darsi da fare per evitare le insinuazioni maliziose dell’ambiente reale. Reggere il sellino della bicicletta della Regina procurava grande imbarazzo in un  “nobiluomo di corte, un conte, addetto alla compagnia e alla tutela della Regina che ricordò a Bianchi che non si poteva toccare l’augusto corpo della Sovrana.

Bianchi, sbuffando, rispose in dialetto: «Voer di che i tomm van sul so cunt, care el me cont...(Vorrà dire che le cadute saranno a vostro carico, caro il mio Conte!). Dopo di che Bianchi realizzò un cinturone con tiranti che permetteva di sorreggere la Regina durante le lezioni senza bisogno di avvicinare troppo le mani … alla sella della bicicletta.

Tornando alla farsa comica di Virginia Guicciardi Fiastri, si comprende per quale ragione Adele è costretta ad uscire di notte per fare le sue prove ciclistiche, al di fuori di sguardi indiscreti. E si capisce anche perché chiede ad Antonietta di accompagnarla e non lasciarla sola con Gigioun: il sospetto che la bicicletta favorisse i desideri d’amore era tanto diffuso che non era il caso di aggiungere carne al fuoco. Semmai ci si può stupire del fatto che Gigioun fosse già possessore di una bicicletta, il cui costo era quasi pari alo stipendio annuo di un operaio, visto che era figlio di un povero rilegatore di libri e di una patēra (venditrice di abiti usati), ma queste sono libertà che commediografi e poeti possono prendersi.

Virginia Guicciardi Fiastri ebbe grande coraggio e intuizione a portare in scena questa farsa, battendo in volata (visto il tema)  il musicista Umberto Giordano, che solo un anno dopo introdusse la bicicletta nella sua opera lirica Fedora, rappresentata al Teatro Lirico di Milano, e fece dire alla protagonista femminile Olga, profondamente annoiata dalle cose che la circondavano in uno chalet di montagna:

 

LORIS (accennando alla bicicletta addossata alla scala): Anche la bicicletta?
OLGA
(ridiventando gaia)
Se amor ti allena, se amor ti guida,
gioia dei muscoli, dei nervi ebbrezza!
Vola, precipita, scivola, sdrucciola,
cadi, rialzati, ricadi ancor…
Ma quando sola ti lascia amore,
che gioia correre, se niun t’insegue?
Se niun ti regge, perché cader?
Meglio, all’antica, andar a piè.

 

Allo scoppio della Grande Guerra le donne ebbero una qualche maggiore libertà di muoversi  in bicicletta, imposto dalla necessità di sostituire gli uomini al fronte in molte incombenze della vita quotidiana, ma alla fine del conflitto la Chiesa riprese la propria ostilità nei confronti dell’uso della bicicletta da parte delle donne.

Notevole risonanza ebbe negli anni ’20 la storia di Alfonsina Morini in Strada, unica donna che abbia disputato il Giro d’Italia assieme a ciclisti uomini.

 

Questo avvenne nell’edizione 1924, nella quale vennero percorsi 3.613 Km in dodici tappe; 250 Km la tappa più breve, 415 Km quella più lunga. Alla 8^ tappa, corsa per 15 ore sotto una pioggia battente, Alfonsina arrivò al traguardo di Perugia con il manubrio rotto, da lei stessa sommariamente riparato con un moncone di manico da scopa, con un ritardo di 3 ore e 43 minuti dal vincitore e fuori tempo massimo. Le venne però concessa la possibilità di proseguire il Giro fuori classifica e arrivò trentesima, ultima, ma ben altri 60 corridori uomini avevano abbandonato il Giro. Per trentasei volte nella sua carriera vinse gare ciclistiche contro uomini. Gianni Celati, scrittore scomparso agli inizi del  2022, e fortemente legato alla nostra città, inserì tra i racconti di Narratori delle pianure la Storia della corridora e del suo innamorato, dove tra realtà e finzione si parla, senza nominarla esplicitamente, di Alfonsina Morini e del suo amore per la bicicletta. Di lei scrive Manuela Mellini (op. cit. p.37): “Una donna che è diventata un mito per ogni altra donna che, dopo di lei, ha lottato per la propria emancipazione spingendo sui pedali di una bicicletta. [Per chi volesse avere maggiori informazioni sulle imprese ciclistiche di Alfonsina Morini segnaliamo questo sito specializzato].

La storia di Alfonsina Morini fu un fatto isolato, ma ebbe anche un valore simbolico: la donna poteva competere alla pari degli uomini nello sport, ma occorreva superare le alte barriere che la Chiesa e la morale corrente avevano alzato nel corso degli anni. Significativo in proposito fu l’esclusione di Ondina Valla dai Giochi Olimpici di Los Angeles del 1932 a causa della pressione esercitata dal Vaticano sul governo fascista, che giudicava sconveniente che una sedicenne affrontasse il viaggio transoceanico, unica donna in una spedizione totalmente maschile.

La politica del fascismo verso l’educazione fisica e lo sport era però orientata diversamente, in quanto si voleva sostenere, anche a livello internazionale, l’immagine di una “razza italica” forte, erede dei fasti imperiali,  pronta a combattere – gli uomini – e a dare figli alla Patria – le donne. Ondina Valla partecipò alle Olimpiadi di Berlino del 1936 e la sua vittoria di una medaglia d’oro venne molto enfatizzata dal regime. Altri fattori, come la riduzione del costo delle biciclette, la riduzione della tassa di proprietà, prima, e la sua abolizione, poi, nonché l’organizzazione del tempo libero dei cittadini operata dal regime, favorirono la pratica ciclistica da parte delle donne. Tutto questo ebbe una conseguenza molto importante dopo l’8 settembre 1943 quando ben 20.000 donne diventarono staffette partigiane e la bicicletta fu il loro principale mezzo con cui spostarsi per aiutare la resistenza partigiana: tema al quale dedichiamo un articolo specifico.

Nel primo dopoguerra lentamente le cose cambiarono, anche grazie al cinema che divenne un fenomeno sempre più popolare. I brevi inserti documentaristici della di vita degli italiani mostravano sempre più frequentemente donne che utilizzavano la bicicletta per andare al lavoro o per semplice svago. La famosa canzone Bellezza in bicicletta, composta nel 1951 da Giovanni D’Anzi e Marcello Marchesi, nonostante si dica che fu ispirata dalle vicende sportive di Alfonsina Guerra, era ancora ispirata dal richiamo erotico esercitato dalla bellezza femminile su due ruote, e nel testo invitava la ciclista a lasciare la bicicletta per concedersi all’amore!

La realtà per le classi popolari era meno sdolcinata e ben più dura. Le donne utilizzavano la bicicletta e spesso, dalle nostre parti, al cariulèin per inventarsi un lavoro, come portare damigiane di vino ai braccianti della cooperativa agricola un tempo esistente al Campo Volo, accompagnata dal fedele cane Fudrèta.

 

 

Lentamente, le donne italiane entrarono anche nel ciclismo sportivo, ancora una volta però con notevole ritardo rispetto alle donne francesi o inglesi. L’ostracismo era tale che era proibita la partecipazione delle donne alla carovana del Giro d’Italia anche solo come giornaliste, tanto che fece scalpore la presenza di Anna Maria Ortese come giornalista “clandestina” al Giro del 1955.

La prima campionessa del ciclismo femminile fu Maria Canins, che iniziò a gareggiare all’età di 33 anni, nel 1982, vincendo nella sua carriera ben 7 titoli italiani, 2 Tour de France, un Giro di Norvegia e un Giro del Colorado.[Cionfoli M., Pedalare controvento: Ciclismo femminile nella storia, Marcianum press 2013].

 

Virginia Guicciardi Fiastri
Virginia Guicciardi Fiastri, nata nel 1864, era figlia di un deputato del Parlamento italiano ed aveva potuto avere un’ottima istruzione scolastica.
A vent’anni si sposò con il dottor Giuseppe Guicciardi, che divenne successivamente direttore dell’Istituto San Lazzaro.
Scrisse molte novelle e diversi romanzi in lingua che ebbero notevole successo, tanto che i critici letterari la definirono la “Deledda emiliana”. Aveva un’ottima conoscenza del dialetto che le consentì di scrivere diverse commedie, rappresentate all’interno del teatrino dell’Istituto, destinate a intrattenere i ricoverati. Ad alcuni di loro venivano affidati anche ruoli di scenografi e attori. La sua commedia più celebre, Piasa cèca, ebbe come principale interprete Ennia Rocchi .

 

Una risposta

  1. Articolo davvero ottimo: documentato, corretto, piacevole. Si può aggiungere che la canzone di D’Anzi e Marchesi è la colonna sonora del film “Bellezze in bicicletta”, dove le due bellezze erano Silvana Pampanini e Delia Scala (tra gli attori c’era anche Gigi Reder, il futuro rag. Filini), che però usano la bicicletta solo come un ripiego dopo che il loro pullman si è fermato per sciopero, e alla fine accettano volentieri un passaggio su un camion militare…

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