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LA “Z” NEL REGGIANO

Ovvero la consonante che non c’è

Una delle questioni che divide maggiormente i reggiani è l’utilizzo della Z nella trasposizione grafica della nostra lingua a prevalente tradizione orale. Qualcuno la ritiene necessaria, altri si oppongono dicendo che “nel nostro dialetto, la zeta non esiste”.

La tradizione letteraria ci fornisce esempi un po’ confusi, contrastanti e instabili. Persino nel dizionario Ferrari-Serra, indiscutibilmente un’opera di grande prestigio e validità, può capitare di trovare esempi difficilmente spiegabili…. per esempio troviamo “vališa” (valigia) scritto con la š, ma “fazân” (fagiano) con la z. Eppure il suono è lo stesso e anche l’origine latina del fonema è identica. Ciò che ha portato alla “g” dolce italiana che troviamo in “valiGia” e “faGiano” in dialetto ha dato l’esito di S sonora.

Malgrado, nella maggior parte delle parole ci sia una certa logica e si possa risalire alla scelta grafica dell’autore, per la maggior parte delle persone oggi non è immediata la scelta se utilizzare Z o “s” (š volendo essere precisissimi e definire anche il suono sonoro), per scrivere parole che oggi per molti hanno esattamente lo stesso suono: zlê (gelato) e šlunghêr (allungare), cašêr (casaro) e razêr (roveto), gazèta (gazzetta) e gašôli (gasolio).

Ci sono poi ragioni fonetiche ma anche ragioni “estetiche”. Facendo il parallelo con la variante sorda, lo stesso vocabolario non si fa nessun problema a scrivere “sâpa” (zappa), come “sâs” (sasso), snêr (cenare) come schêr (seccare), tutte scritte indifferentemente con la S. La scelta è di fatto una scelta di stile.

Oltre al vocabolario Ferrari-Serra, che, ripeto, è comunque molto preciso e curato e con una coerenza grafica di gran lunga superiore alle media delle pubblicazioni in lingua locale, ci sono anche altri autori anche in tempi più lontani che fanno largo uso della Z. Sembra, anzi, che più si va indietro nel tempo, più il suo uso sia presente. Il vocabolario Ferrari del 1832 lo riporta anche come suono sordo (indicandolo con ž) che riporta anche doppia in parole come “ragažžóla”, oggi scritto “ragasōla” e contrapponendolo alla forma sonora indicata come , per esempio in “laẑẑarètt” (lazzaretto). Nel 1896, Nerio Golia, nella sua raccolta “la viazzola” si attiene ancora a questo standard, mentre Ficarelli nel 1927 mostra già un uso diminuito della z (e abbandona la doppia pretonica). Insomma c’è un evoluzione nel tempo che va verso un graduale abbandono. I motivi sono diversi e qui di seguito tenteremo una piccola analisi.

LA FONETICA

Gli studiosi di linguistica ritengono che nel medioevo le lingue parlate nel nord Italia fossero molto più simili tra loro di quanto lo siano oggi. L’origine comune di prosecuzione del latino garantiva una base uniforme, ma poi l’abbandono del latino successivo alla caduta dell’impero romano, e la successiva suddivisione in Stati politicamente indipendenti ha favorito una deriva linguistica di differenziazione. In generale, senza prenderlo come valore assoluto, la deriva ha portato spesso a una semplificazione fonetica, con esito frequente che suoni anticamente separati hanno finito per fondersi e generare una gamma più ristretta di sonorità. Ma ci sono state anche differenziazioni che a volte hanno allontanato suoni che, pur separati da qualche caratteristica erano invece più simili tra loro.

Ma veniamo alla nostra Z. Prima dell’ottocento, si attesta che anche in dialetto reggiano, come in tutti i dialetti del Nord, era presente una separazione evidente tra i suoni che sono confluiti nell’italiano SZ e C/G dolce, sia in versione sorda che in versione sonora. Esisteva inoltre il suono “sc” (il primo a sparire) e i suoni “cl” e “gl” latini avevano generato quelle forme intermedie [ ʝ ] e [ ɠ ] che si sono conservati nei dialetti di crinale.

Ancora oggi già a Toano, riusciamo a sentire l’esisto diverso dei tre suoni (sei considerando la divisione tra sordo e sonoro) nelle diverse parole. Differenziano “marzo” da “marcio”, pronunciando il primo con una sorta di Z a metà tra la zeta italiana e la esse (la zeta bolognese per intenderci) e il secondo con una consonante vicina alla “sc” italiana (mārsc’). Ma differenziano anche “cassa” da “caccia”. “E casciadûr” (il cacciatore), “e casēr” (il cassiere). La tâsa è la tassa, la tâ(sz)a è la tazza.

Castelnovo Monti si perde la differenza tassa/tazza, mentre si mantiene il suono differenziato della “c” dolce italica, divenuta “sc” dopo che la vera “sc” era scomparsa assimilandosi a “s”. Negli altri comuni verso il modenese (nelle province di Modena e Bologna si arriva fino in pianura) è invece venuta meno la differenziazione tra la coppia minima “marzo/marcio” con un’assimilazione verso la z dell’antico suono “sc” iniziale di parola, dopo consonante e doppio, mentre in posizione intervocalica ha subito le sorti di “sc” assimilandosi a S (sorda o sonora).

Avvicinandoci a Reggio (e proseguendo a ovest verso Parma) in tempi relativamente recenti (si parla dei primi del novecento) si è avuta una successiva ulteriore riduzione che ha portato alla situazione attuale con l’assimilazione della Z alla S, sia nella variante sorda che sonora. Oggi a Reggio tassa e tazza sono omofoni, “šlê” (gelato) e “šlighê” (slegato) hanno lo stesso identico suono iniziale.

Questo processo di variazione dall’articolato al semplice è stato un processo graduale e non sempre percettibile e con diverse fasi intermedie. Quando trasponiamo i suoni in forma grafica, associandoli ai simboli SZSC, o C, in realtà mettiamo in atto una buona dose di approssimazione. Ci sono forme intermedie, quasi tante quante sono le persone, tant’è che quando sentiamo parlare persone di zone diverse riconosciamo la S reggiana che fa fischiare i microfoni come una consonante diversa da quella che sentiamo pronunciare dagli altri italiani.

I comici televisivi che scimmiottano la pronuncia emiliana, quando fanno le imitazioni di Zucchero, di Orietta Berti, di Prodi o di altri Vip locali …, sostituiscono la “sc” con la “s”: “scionosc’tato ….”. E a noi sembrano pessime imitazioni, dal momento che il suono “sc” è proprio quello che per noi presenta difficoltà maggiori. Evidentemente è un discorso di “percezioni”. Come quando imitiamo i “teteski”, pronunciando tutte le consonanti sorde …. in realtà D e T in tedesco se non sono finali di parola sono differenziate. Ma a noi la loro D sembra un filo più sorda.

Chi ha abitato per lunghi periodi a Reggio ed è ben integrato nella cultura locale, anche senza grandi competenze linguistiche è sicuramente in grado di individuare le differenze di registro generazionali presenti nell’italiano. Sentendo una registrazione di parlato in italiano da parte di reggiani “d.o.c.”, in base alla pronuncia delle parole io, come la maggior parte dei reggiani, sarei in grado di capire se chi parla è un coetaneo di mio bisnonno, di mio nonno, di mio padre o un mio coetaneo. Si parte dall’assenza totale dei suoni sc e z, per passare alla comparsa di una “mezza z” differenziata dall’italiano e totale assenza della sc, poi è chiara la z ma la sc è una “via di mezzo”, fino ad arrivare alla mia generazione in cui la sc è pronunciato chiaramente, anche se forse riconoscibile come tipico emiliano dagli altri italiani. Per qualche caratteristica che si percepisce ma non può essere scritta.

Penso che anche per la scomparsa della Z dal reggiano, il processo sia stato identico, anche se al contrario. Io che ho una certa “deformazione professionale” e sono particolarmente attento a tanti dettagli spesso ignorati, ricordo effettivamente che i miei bisnonni inconsciamente facevano una leggera differenziazione tra parole come “žlê” (gelato) e “šlunghê” (allungato), ma ovviamente non così marcata come nel modenese e nel bolognese. E sicuramente non avrebbero saputo esprimerla graficamente così come oggi noi non sappiamo indicare la differenza tra la S usata da Jovanotti e la S che usiamo noi. E lui non dice “le tafche piene di faffi”. La F è un’esagerazione caricaturale per dare l’idea, ma sta esattamente al suono realmente pronunciato come la Z sta alla “š” di “šlê” pronunciato dai miei bisnonni.
I miei bisnonni differenziavano allo stesso modo anche le corrispondenti sorde. C’era una piccolissima e appena percettibile differenza tra la S di “fêls” (falso) e quella di “chêlś” calcio… che aveva un filo di Z.
Non è chiara da questo punto di vista la scelta del Ferrari-Serra di conservare la diversificazione per le consonanti sonore, che sono perfettamente sovrapponibili al bolognese, con la Z in corrispondenza dei suoni “g” e “z” italiani, ma di arrendersi alla S in parole come “sócher” (zucchero), “chêls” (calcio), “ragasōl” (ragazzino), ecc. Tra l’altro Ferrari l’ho anche sentito parlare parecchie volte… ci conoscevamo, ci siamo incontrati in diverse occasioni, e so per certo che non pronunciava le Z come in bolognese. Aveva una pronuncia simile, per registro a quella dei miei nonni/bisnonni. Forse un livello intermedio tra quello dei miei nonni e quello dei miei bisnonni. Credo che la scelta di mantenere la forma grafica della Z sonora sia stata quindi motivata da questioni di “stile”, non accettando di vedere una “Ş” iniziale di parola e ricorrendo alla Z in tutti i casi in cui in italiano la “S” non avrebbe potuto avere un suono sonoro.

LO STILE

I massimi esponenti di studi linguistici oggi consigliano di adottare, nella trasposizione grafiche dei dialetti, scelte grafiche caratterizzate dalla massima coerenza fonetica. Si consiglia cioè di utilizzare uno stesso segno per uno stesso suono e di differenziare i caratteri quando percepiamo suoni diversi. E’ alla base di questo che nella “Grammatica del dialetto reggiano” pur volendo garantire una continuità con le pubblicazioni precedenti e rispettare la tradizione letteraria locale, ho scelto di abbandonare l’uso di Z per l’espressione di un suono che oggi non è più differenziato dalla “S” sonora.

Una scelta analoga, nella sua diversità, era stata fatta a Parma dove Renzo Pezzani già agli inizi del 900 utilizzava la Z per indicare il suono sonoro di S. Scrivendo perciò “bruzär” per bruciare, “cróza” per “croce” e usando perciò addirittura la Z in parole che avevano la stessa identica pronuncia dell’italiano addirittura quando l’italiano usa la S. Quindi anche “väz” per “vaso”, o “scùza” per (scusa). Questa scelta era più accettabile in un contesto come quello degli inizi del novecento in cui la gente, anche parlando italiano, non sarebbe comunque nemmeno stata in grado di pronunciare la zeta come “dz” o “ts”.

Mio bisnonno per pronunciare “zerbino” in italiano diceva “şerbino”, con S sonora. O qualcosa molto più vicino alla S sonora che non alla DZ, ma che lui percepiva come Z. Come pure diceva “palasso” per “palazzo”. Perché quella era la loro percezione di Z …. non era tanto un’impossibilità fisica, tant’è che nel nostro dialetto esistono parole che accostano la T e la D alla S, producendo l’equivalente dell’italiano Z. Pensiamo a parole come “dşûn” (digiuno), “medşèina” (medicina), “fât só” (fatto su, avvolto), “t sêlt” (tu salti). In un mondo in cui la stessa parola “zeta” era letta “şeta” per una sorta di forma mentis era sicuramente più naturale proporre una scelta grafica di questo tipo.

Oggi invece che la gente ha imparato a pronunciare la Z “all’italiana” è sicuramente più impegnativo far accettare al cittadino comune questa lettera come tipica della propria parlata locale. Se ai tempi della stesura della prima edizione del Ferrari Serra ci si poteva permettere di scrivere “arzân” con la Z perché i cittadini “comunque” non erano in grado di pronunciare nemmeno “manzo” in italiano e andavano dal macellaio chiedendo il macinato di “manʂo”, scrivendolo oggi c’è chi non riconosce il proprio parlato in quella parola. “Arzân è come lo dicono a Modena” – viene detto. Per noi è “Arşân” con la S.

Qualcuno si inventa stratagemmi nuovi… Arzsanarszanarzhan. Anche a Parma dove c’è una tradizione letteraria più forte che da noi, vedo però che la gente comune tende spesso a disattendere le regole grafiche del vocabolario scrivendo “lusa”, “vosa”, “brusèr” “ves”… con la S e con la consueta confusione di accenti tipica di chi non ha avuto un insegnamento specifico e scrive un po’ a sentimento.

L’INFLUENZA ITALIANA

Dopo più di un secolo di convivenza con la lingua nazionale imposta e con politiche sociolinguistiche che spingevano verso l’adozione della lingua ufficiale e l’abbandono delle realtà linguistiche locali, la popolazione italiana indipendentemente dal proprio dialetto ha finito per adottare lo standard grafico dell’italiano riferendosi a questo anche per esprimersi nelle altre lingue. Lo standard italiano ha una base prevalentemente fonetica ma presenta diverse scelte “fonologiche” che agli occhi degli stranieri potrebbero anche sembrare incoerenti anche se, riferite all’italiano, hanno sempre una loro “logica”. Sono gli scogli più difficili per i bambini che imparano il nostro sistema di scrittura: l’uso del CH e del GH solo prima di I ed E, la pronuncia differenziata di C e G davanti a vocali diverse, il GL, il GN, l’uso della Q … e appunto la diversa possibilità di pronuncia con suono sordo o sonoro di S e di Z.

La logica alla base dell’italiano a volte può apparire molto ostica per i bambini che imparano a scrivere, soprattutto quando affonda le proprie radici nel latino. Capire perché “cuore”, “scuola” e “cuoco” sono senza “Q” perché il dittongo “UO” è un evoluzione della “O” latina e si alterna in “O” (cottura, scolastico, coraggio) mentre “quota” non presenta queste caratteristiche non è cosa facile per uno scolaro di sei anni. La conoscenza del dialetto in questo caso aiuterebbe (cŌrscŌlacŌgh vs qUÔta).

Di norma i bambini imparano semplicemente a memoria le parole che non richiedono la Q. In tempi in cui la pronuncia dell’italiano era molto più lontana da quella attuale, che si sta gradualmente sempre più avvicinando allo standard nazionale, molti scolari hanno imparato allo stesso modo anche altre parole che un tempo potevano risultare “difficili. Così come i bambini di oggi imparano a memoria che “cuore” si scrive con la “C” e “quadro” si scrive con la Q, molti bambini inizio secolo hanno dovuto imparare con questo metodo che “tassa” si scrive con la “S” e “tazza” si scrive con la “Z”. Apprendendo come “regoletta da imparare a memoria” la differenziazione di parole che loro pronunciavano con suoni identici o al massimo impercettibilmente diversi.

I primi dizionari e i primi scritti autorevoli dialettali sono stati scritti da persone scolarizzate e con un certo grado di istruzione, in tempi in cui in pochi potevano permetterselo. È altamente probabile che abbiano trasferito questi “dogmi” anche al dialetto. Provenendo da un mondo in cui la maestra segnava con errore rosso chi scriveva “gasetta” con la S anziché “gazzetta” con due zeta, mentre magari lo tollerava all’orale e lo pronunciava lei stessa in quel modo, è possibile che alcuni autori abbiano trovato semplicemente “inaccettabile” scriverlo con la “S”.

Nel dizionario del 1832, come pure nei già citati scritti di Nerio Golia (la ViaZZola, il titolo dice tutto), oltre alla Z, che a quei tempi era probabilmente ancora presente, si scrivevano le consonanti doppie anche pretoniche. “Cappuzzèin”, per esempio. O addirittura “pôvra *mammòuna* (mammona), dove la doppia non è presente nemmeno se la si volesse usare come espediente grafico per accorciare la vocale: “mâma” ha una A lunga. A mio avviso il motivo di queste scelte sta nel fatto che in italiano queste parole erano state studiate così come gli inglesi studiano lo spelling. “Si scrivono con la doppia”. L’unico modo per apprendere era imparare a memoria perché la fonetica non poteva aiutare. I mei nonni dicevano ancora “cavaletto”, “patumiera”… e quindi anche “capucino” e “mamona”. La consonante geminata è apparsa dapprima solo in sillaba tonica.
Resta perciò anche plausibile l’ipotesi che gli scritti di Ferrari-Serra e dei loro coetanei fossero anche influenzati da una forma mentis basata sul “si scrive così” appresa a scuola … e ovviamente largamente condivisa.

CONCLUSIONI

I tempi però cambiano velocemente. Sempre in tema di scelte grafiche, un altro consiglio che danno i linguisti e le persone che oggi iniziano a occuparsi di programmazione linguistica, è quello di cercare di avvicinarsi il più possibile al “sentito” dei parlati. Studiare sistemi coerenti ma non troppo lontani dal modo in cui la gente scriverebbe spontaneamente. Altrimenti si crea un’inevitabile dicotomia tra la lingua locale scritta appartenente a pochi e quella utilizzata da persone che non avendo adeguata formazione non si staccano dalla loro “base” appresa dall’italiano. Se insegnassimo a scrivere il reggiano direttamente ai bambini in età prescolare, per esempio, sarebbe molto più semplice insegnare loro la scrittura con l’utilizzo di K suono duro ed eventualmente C suono dolce. Con il sistema puramente fonetico “un suono, un segno” incoraggiato dai linguisti.

Di fatto però, la presenza invadente dell’italiano come “lingua ponte” fa sì che questo metodo trovi forte resistenza. I parlanti non riconoscono la K come segno presente nella propria lingua e sono ormai abituati a scrivere “cia”, “cio”, “ciu”. Stravolgere queste regole sarebbe una lotta con i mulini a vento. Allo stesso modo, tecnicamente sarebbe sicuramente più semplice adeguarsi allo standard letterario parmigiano e decidere che in reggiano la Z ha un suono di “S” dolce come in inglese e in francese. Ma dal punto di vista pratico andrebbe a finire che le regole sarebbero largamente disattese e molte persone non riconoscerebbero come propria lingua parole che per istinto leggono con regole fonetiche italiane.

La soluzione più comoda, è perciò, a mio avviso, l’utilizzo del segno “Ş”. La cediglia per dare il valore sonoro è sufficiente per differenziare le due “S” come consonanti diverse, ma allo stesso tempo permette al lettore di associare il segno ad un suono comunque famigliare. Succede ciò che capita con gli accenti usati per dare un suono aperto o chiuso. Chi non conosce il significato grafico li ignora e riconosce ugualmente la parola. Foneticamente tra la S sorda e la S sonora c’è la stessa differenza che c’è tra F e V …. o tra T e D. Sono due consonanti diverse. In italiano però non sono considerate tali, tant’è pronunciare in un modo o nell’altro è spesso solo una questione “geografica”. Se dico “casa” con la S sorda o “caşa” con la S sonora la parola resta comunque comprensibile.

In dialetto invece, soprattutto nelle varietà in cui c’è stata una fusione completa di tutti gli esiti di C/G e Z, le ambiguità sono frequenti (basti pensare a “insegno” e “ingegno”, “messa” e “mezza”, “gennaio”, “cenare”) e risulta spesso indispensabile evidenziare il suono sordo o sonoro. La raccomandazione per chi vuole scrivere correttamente è perciò di farlo sempre. Quando ci si abitua, la lettura risulta molto più scorrevole e la comprensione è immediata. Prima di abituarsi si dovrà rileggere e pensare per poter capire, ma il segno è comunque riconosciuto come una S e cioè corrisponde alla lettera che normalmente utilizzerebbe chi vuole “scrivere così come si dice”. “Rèş” è “Reggio”, “rés” è “riccio”. La scrittura spontanea porta a non mettere accenti e a mettersi in condizioni di travisare queste due parole. La scrittura precisa permette a chi sa interpretare i segni diacritici di capire al volo, ma allo stesso tempo non sconvolge la vita a chi come riferimento usa solo l’italiano, che dovrà cercare di capire con l’intuito in base al senso dello scritto.

Denis Ferretti, 3 Aprile 2021

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