La prova di un sistema linguistico separato dall’ Italiano
I verbi frasali sono verbi che, uniti a un avverbio o a una preposizione, modificano il loro significato di fondo diventando idiomatici, cioè assumendo a volte un significato piuttosto diverso da quello del verbo isolato.
I verbi frasali sono tipici delle lingue nordeuropee. L’inglese, che oggi quasi tutti conoscono, ne ha tantissimi:
to keep on, to give up, to stand by e l’ormai celebre “to lock down”.
Anche i verbi separabili tedeschi, anche se concepiti con una sequenza di elementi molto lontana dalle nostre abitudini, hanno di fatto una logica che ci è famigliare. In tedesco, per esempio, i verbi “entrare”, “uscire”, “salire” e “scendere” si costruiscono abbinando il verbo base “gehen” (andare) a particelle che corrispondono ai nostri “dentro”, “fuori”, “su” e “giù”. Lo stesso avviene in tutti i dialetti romanzo-gallici. Nel reggiano infatti non abbiamo verbi non frasali corrispondenti a “entrare”, “uscire”, “salire” e “scendere”, ma abbiamo solo “andêr dèinter”, “andêr fōra”, “andêr só”, “andêr şò”. Può sembrare un eloquio di più facile comprensione, ma non è sempre così. La deriva linguistica a volte ha portato a risultati abbastanza ostici, difficili da interpretare per chi non è dentro alla lingua. Se “alvêr só” (sollevare) o “dêr fōra” (distribuire), possono essere abbastanza intuitivi, si pensi invece a “cavêres şò” (spogliarsi), “andêr adrē” (persistere), lavêr şò (lavare *le stoviglie*) o dêrgh a l êlta (smettere), simile all’inglese “to give up” quasi sicuramente per pura coincidenza.
“Maria, tè và só a lavêr şò che mé vâgh şò a trêr só”
E’ una struttura diversa che testimonia anche un modo diverso di organizzare il pensiero. A riprova che la nostra lingua locale non è un dialetto dell’italiano, ma ha una sua propria autonomia e rientra in un sistema linguistico separato.
Ritrovare questa struttura nelle lingue nordeuropee ha portato diversi linguisti storici ad attribuirla a un retaggio del passato prelatino, cioè a un’eredità delle popolazioni presenti sul territorio prima dell’arrivo dei romani, che imponendosi politicamente, avrebbero poi diffuso la loro lingua. La stessa spiegazione per molto tempo è stata fornita a giustificazione della presenza nei nostri dialetti di suoni e strutture fonetiche non presenti nell’italiano. Si parlava cioè di un sostrato celtico che avrebbe portato avanti antiche abitudini di pronuncia e di struttura sintattica. Oggi queste teorie sono sempre più spesso messe in discussione dai linguisti moderni che, disponendo di studi più approfonditi sui cambiamenti linguistici reali, hanno notato come la fonetica e la struttura linguistica cambino già nel giro di poche generazioni e sia alquanto azzardato ipotizzare che possano rimanere tracce a distanza di millenni. Sono perciò più propensi a parlare di una casualità che porta a uno stesso esito
Come appassionato amatoriale di linguistica, non posso che prendere atto degli aggiornamenti degli esperti e non mi sento di prendere posizione sulle teorie esposte da chi ne sa molto più di me, ma personalmente rimango sempre possibilista. Magari, come spesso succede, c’è una parte di verità in tutte le posizioni.
Lasciando ad altri le diatribe riguardanti l’origine di queste particolarità strutturali, resta comunque innegabile la diversità di struttura tra la lingua locale e l’italiano e la presenza di queste forme in lingue ufficialmente riconosciute e non certo prive di prestigio.
Nello scorso secolo la contrapposizione tra dialetto e italiano considerati infondatamente nemici l’uno dell’altro ha portato molti insegnanti ed educatori motivati a far apprendere un buon italiano a scoraggiare l’uso dei verbi frasali che istintivamente venivano riproposti in italiano tradotti alla lettera. Agli studenti si richiedeva di usare un “lessico ampio”, di cercare un verbo specifico che fosse in grado di descrivere ogni azione nel modo più preciso possibile.
In un momento storico in cui molte persone non avevano ancora piena consapevolezza della lingua parlata e scambiavano il dialetto locale con un registro basso dell’italiano si è radicata la convinzione che i verbi frasali, al pari del dialetto stesso fossero indice di un linguaggio “povero” e tipici di una parlata rozza.
In realtà ogni lingua si evolve e si perfeziona in base alle esigenze comunicative di chi la parla. Se l’italiano letterario ha perfezionato la sua struttura per dare espressione a concetti elevati e nell’uso delle parole per la ricerca di un’armonia estetica, le lingue locali si sono specializzate nella comunicazione colloquiale, nel quotidiano, nell’esprimere i concetti pratici nel modo più preciso possibile. Quotidiano non significa necessariamente volgare, o intellettualmente limitato. Nel quotidiano si lavora, si pianifica, ci si deve rapportare con tante categorie di persone diverse. Per diversi secoli il nostro dialetto è stato parlato da tutti. Non lo possiamo considerare una lingua povera e i verbi frasali non sono indice di lessico ridotto, perché pur partendo da un vocabolario di pochi verbi base, la combinazione con le diverse preposizioni permette di ottenere infinite sfumature di significati.
Ritornando all’esempio di “salire” (o scendere), vorrei far notare una cosa: è vero che nel reggiano non esiste un verbo che da solo renda questi concetti, ma è anche vero che in italiano spesso usiamo un solo verbo per esprimere concetti che in dialetto sono resi più precisi da numerosi verbi frasali. Salire non è solo “andêr só” (da qui verso là), ma anche “gnîr só” (da là verso qua). O “muntêr só”, se si sale su un autoveicoli, “rampêr só” se si sale su un albero. Ci sono molte circostanze in cui la parlata locale sa essere molto precisa.
Molti verbi italiani usati per dare sfoggio di un lessico ampio, sono inoltre costruiti con prefissi che hanno la stessa funzione degli avverbi e preposizioni con cui si formano i verbi frasali. Verbi quali “interporre”, “proseguire”, “intravedere”, “surclassare”, “soprassedere”, sono costruiti mediante l’uso di prefissi che di fatto hanno lo stesso valore dei nostri “só”, “şò”, “dèinter”, “fōra”, “via”, “adrē”, “avânti”, “indrē”, “tramèş”, ecc.
Cambia solo la struttura con cui si costruisce la frase ed è pura convenzione che una forma sia ritenuta ricercata e l’altra sciatta. Ognuna dovrebbe essere considerata all’interno della propria lingua di riferimento, tenendo conto che ogni lingua ha una storia diversa con lessico e strutture specializzate per adattarsi alla cultura locale.
Non è quindi il caso di farne una guerra tra lingue e se proprio vogliamo allargare la nostra mente per comunicare sempre meglio, potremmo spingerci oltre e anziché limitarci ad ampliare il lessico, potremmo allenare la nostra capacità di organizzare il pensiero utilizzando molteplici strutture che rispondono a logiche diverse . E’ questo il vero vantaggio del plurilinguismo e della padronanza della lingua locale affiancata e non sostituita dalla lingua nazionale. Esprimersi con regole diverse è un vero esercizio per la mente e sapersi esprimere in più lingue con peculiarità diverse può aiutare a esprimere meglio i concetti in ognuna di esse, perché ognuna costituisce un serbatoio di idee per sfruttare vantaggi comunicativi diversi in diverse circostanze.
A partire dal secolo scorso, le ultime generazioni di parlanti hanno invece visto ridursi queste capacità. L’antagonismo dialetto/italiano ha spinto molte persone nella direzione del monolinguismo: il pensiero si è organizzato con l’unico riferimento dell’italiano e il ricorso alla lingua locale, sempre più sporadico, è divenuto spesso un esercizio di semplice traduzione letterale. Come rovescio della medaglia rispetto a ciò che avveniva in passato e che portava a pensare che i nostri antenati avessero un lessico “povero” in quanto non utilizzavano verbi come “salire” e “uscire”, oggi sentiamo spesso giovani usare parole come “entrêr”, “scènder”, “superêr”… lavêr i piât (doppio errore), sostanzialmente perché il loro pensiero è strutturato con le regole dell’italiano.
Il cambiamento del modo di esprimersi nel tempo è un fenomeno normale per qualsiasi lingua. Nemmeno gli attuali ultranovantenni parlano nello stesso modo in cui parlavano i loro nonni. Se la lingua cambia, significa che è viva e che si adatta al contesto sociale in cui viene parlata. E le contaminazioni tra lingue e varianti diverse ci sono da sempre. Anche l’italiano odierno è contaminato dall’inglese, così come l’inglese del secolo scorso è stato contaminato dal francese. Quando però le strutture grammaticali di una lingua assorbono completamente quelle di un’altra, vengono meno tutti i vantaggi cognitivi del bilinguismo. Parlare un dialetto che è una semplice trasposizione di suoni, con il mantenimento della stessa struttura logica e grammaticale dell’italiano non significa parlare una seconda lingua, ma solo aver appreso un codice di regole di pronuncia.
Per chi è nato parlante genuino e sente la propria lingua dentro di sé, sentire espressioni quali “a n riès mia a scènder” o “a n sovrapòner mia i piât” è paragonabile a mettere la panna nei cappelletti. E’ sicuramente soprattutto un fattore estetico e di gusto personale.
Ci sono però, come abbiamo visto, anche fattori oggettivi per auspicare che ogni realtà locale possa mantenere le proprie tipicità sia lessicali che grammaticali e strutturali. La ricchezza della nostra espressività sta nella diversità linguistica e questa deve essere garantita nel suo insieme, mantenendo armonia tra le sue componenti.
Oggi abbiamo grattacieli, ponti dal design innovativo e poster luminosi a effetto tridimensionale, ma quando restauriamo una chiesa gotica non sostituiamo gli affreschi con maxischermi luminosi, e nemmeno stravolgiamo l’architettura dei borghi antichi inserendo costruzioni totalmente decontestualizzate, anche se persino i vecchi castelli oggi hanno ascensori, illuminazione elettrica e connessione internet.
Insomma, occorre avere l’accortezza di saper capire quando il cambiamento e la contaminazione vanno in direzione di un arricchimento e quando invece le nuove abitudini vanno in direzione di un appiattimento espressivo e impoveriscano la lingua privandola delle sue principali peculiarità tradizionali maturate nel corso di secoli.
Denis Ferretti, 22 Gennaio 2022
Relazione tenuta in occasione della Giornata di Studi sul Dialetto Reggiano presso la Sala Civica del Comune di Albinea