Nel 2005, Riccardo Bertani (linguista, scrittore e traduttore di Campegine), pubblicò “Religiosità e credenze popolari”. La lettura del piccolo saggio C’era una volta la vigilia di Natale ci ha ispirato questo testo, col quale facciamo i nostri migliori Auguri a tutti gli amici di Léngua Mêdra.
Al Nadêl as sà l ē sgnê
da divêrsi antîghi uşânsi
che impés’n al cōr dla gînt
e davèira ânca al pânsi.
Per nōv dé ôgni matèina
vân al dòni a la nuvèina,
stréchi al spâli dèintr a i sciâj
şēl ch al crôda al cânt di gâj.
A meşdé as magnêva apèina,
s armandêva a l’ōra ’d sèina
e an mânchev’n i turtē ’d sóca
ch a saîvn ed bòun furmaj
(in muntâgna quì blisgòun
saba, sêlvia e maròun).
Chi magnêva al sturtèin
o chi invēci al bacalà;
a segvîr la Mèsa grânda,
pôch estêv’n a cà luntēra.
Bóschi e scòpa per i vècc,
per i şōvn al didalèin
j ēr’n i şōgh ed la Vigélia,
tgnìv’n unîda la faméja.
Pó a gh ēr’ i nadalèin
murōş mât e scheriansê
che sintîven al murbèin
e ânch la sîra dla Vigélia
la só bèla vrîv’n a vşèin.
L’ē la nôta dal Bambèin,
’na grân fèsta religiōşa
mó pr’ i vècc da ché indrē
l ēra ânca misteriōşa.
S a s lasêva al pân in têvla
al dvintêva al Pân Sânt
per preir fer munter tânt lât
a la mâma d’un latânt.
S’a gh vansêva dal butēr
a la sîra dla Vigélia
cun al spérit dal Nadêl
al dvintêva cesiunêl:
l’ēra mia pió sōl un ûnt
e l’andêva tgnû da cûnt,
per al bôti e al bruşadûri
e per tânti êtri cûri.
Cun l’aşèj ed l’insalêta
a s bagnêv’n i gâmb di fiōr
ché as cherdîva fósa vèira
che pió bē srén gnû i colōr.
Brişi ed pân per al galèini
a dvintêven dal medşèini
e galèini dai mél ōv
s prîva avèirghi cun l’an nōv.
Al trunchèt ed ciculâta
sōl un dōlş da regalêr?
mó l arcôrda un pô la sôca
ch as bruşêva per Nadêl:
cun la sèndra ch l a j cuacêva
la bruşêva piân pianèin
che la gh îva da scaldêr
lòngh al fèst Geşó Bambèin.
Gian Franco Nasi, Isarco Romani
Ascolta la poesia in dialetto recitata da Luciano Cucchi
Il Natale si sa è segnato da tante usanze antiche che riempiono il cuore della gente e in verità anche le loro pance. Per nove giorni ogni mattina le donne andavano alla novena le spalle strette negli scialli il gelo disgregava il canto dei galli. A mezzogiorno si mangiava appena si rimandava all’ora di cena, i tortelli di zucca non mancavano mai che sapevano di buon formaggio (in montagna i tortelli “scivolosi” con saba, salvia e castagne). Chi mangiava lo stortino o chi invece il baccalà, e a seguire alla Messa Grande, pochi stavano volentieri a casa. Per i vecchi busche e scopa per i giovani il “didalèin”, erano i giochi della Vigilia, che tenevano unita la famiglia. Però c’erano anche i “natalini” morosi un po’ matti e screanzati che dal troppo desiderio anche la sera della Vigilia volevano stare vicini alla propria bella. È la notte del Bambinello, una gran festa religiosa, ma per i nostri vecchi era anche un po’ magica. Se restava pane in tavola diventava il Pane Santo che faceva fare tanto latte alle mamme dei lattanti. Se avanzava del burro alla sera della Vigilia con lo spirito del Natale diventava eccezionale: non era più solo un condimento e andava tenuto da conto per ustioni e contusioni e per tante altre cure. Con l’aceto dell’insalata si bagnavano i gambi dei fiori perché si riteneva che avrebbero prodotto più bei colori. Le briciole di pane per le galline diventavano delle medicine così che galline da mille uova potessero aversi per l’anno nuovo
Un tempo quando gli inverni erano più lunghi e segnati da cumuli di neve immacolata (allora non c’era lo smog ad annerirla), l’arrivo delle feste natalizie era particolarmente sentito nelle nostre campagne. Tanto più che queste feste coincidevano con il periodo in cui i contadini, liberi dai lavori campestri, passavano i giorni in semi oziosità, racchiusi nel caldo delle loro umide stalle in compagnia dei braccianti e muratori del vicinato, costretti pure essi all’inattività a causa del duro gelo invernale. Le donne, munite di rocca e fuso, passavano tutto l’inverno nella stalla, dal precoce mattino sino a tarda sera per filare la fibra di canapa una lana dal cui filo si sarebbero poi ricavati vari indumenti e la biancheria che serviva per la casa o a preparare la dote per le ragazze da marito. Le donne non erano nemmeno risparmiate nel periodo natalizio, dato che avevano l’incombenza di assistere alle novene che segnavano il periodo del Natale. Così, appena il canto del gallo annunciava la venuta del giorno, ancora assonnate e coperte con i pesanti scialli (un tempo era sconosciuto l’uso del cappotto), si avviavano, sotto un cielo ancora traforato di stelle, per raggiungere la chiesa, dove il parroco avrebbe dato inizio alla lettura alle letture sacre che caratterizzavano il rituale della novena. Così nove mattine di seguito, come dice il nome stesso, le donne, accompagnate dalla loro ardente fede, affrontavano le solitarie e nervose strade di campagna, il cui profondo silenzio veniva a volte rotto dagli schiocchi delle fruste dei carrettieri, pure loro in viaggio in quella precoce ora mattutina; fino a quando il sonante rumore delle ruote dei loro birocci battenti sulla strada gelata andava a perdersi sempre più lontano.
Ma quando giungeva il fatidico giorno che segnava la vigilia di Natale sin dal mattino si vedevano le donne indaffarate in cucina a preparare i piatti tipici, innanzitutto i tortelli di zucca [1], che avrebbero caratterizzato la cena di quell’importante ricorrenza.
Infatti, tutto il cibo veniva preservato per la cena, E a mezzogiorno, per rompere la fame, di solito si mangiava solo una “brodaglia” ricavata dalla cultura di riso e foglie di verza.
Quel giorno nella stalla cessava ogni attività e tutti restavano in attesa di quando, al giungere della sera, si sarebbero riuniti in cucina per recitare il rosario, e dopo per poter finalmente assaporare i tanto agognati tortelli di zucca, odoranti di burro e di formaggio. A questi seguiva di solito un buon umido di baccalà , sostituito presso alcune famiglie da altre specie di pesci specialmente marinati. Chiudeva quindi la cena una fresca insalata, ricavata dalle bianche foglie della verza, l’unico ortaggio reperibile in quel gelo invernale con la terra tutta ricoperta di neve.
L’atmosfera magica che aleggiava in quella sera portava a credere che quella fosse una notte magica e che avesse quindi proprietà apotropaiche [2]. Infatti era uso lasciare quella notte la tavola imbandita perché si credeva che il pane rimasto su di essa avesse poteri taumaturgici. Questo pane santificato (e che non faceva mai la muffa) veniva conservato a lungo per farne poi la prima zuppa da dare alle partorienti, dato che tale zuppa aveva il potere di favorire la buona lattazione delle puerpere.
Anche le briciole del pane che rimanevano sulla tovaglia venivano raccolte per darle alle galline che in tal modo avrebbero fatto più uova ; allo stesso modo veniva conservato il burro rimasto dal condimento dei tortelli la sera della vigilia servito per ungere contusioni e ustioni. Così come era pure credenza che, se si versava l’aceto usato per condire l’insalata quella sera sui gambi delle piante da fiore rinsecchito e dal gelo a primavera si sarebbero sicuramente ottenuti fiori dai colori vivaci e intensi.
Dopo cena la famiglia si riuniva di nuovo nella stalla, questa volta però in piena atmosfera di festa e nell’attesa di recarsi alla messa di mezzanotte, gli uomini si mettevano a giocare a carte mentre i giovani e le ragazze attorniate dalle donne si dedicavano allo spassoso gioco del didalèin[3].
Tali giochi duravano sin quando giungeva l’ora di recarsi in chiesa per assistere alla solenne messa di mezzanotte santa. Tanta era la credenza e la devozione dei fedeli, che questi nemmeno si accorgevano del freddo che regnava in chiesa (un tempo le chiese non erano riscaldate). Le più felici erano le ragazze, dato che in chiesa potevano scambiarsi sguardi d’intesa con i loro spasimanti, dato che quel giorno non erano potuti andare a trovare a casa le loro fidanzate; chi infrangeva la severa regola che proibiva recarsi “a moroso” la sera della vigilia di Natale [4] veniva classificato come nadalèin, ossia un giovane mattoide e poco serio.
Dopo aver assistito alla messa di mezzanotte santa, tutti riprendevano la via di casa per andare a dormire. In quel momento tutto era silenzio attorno, solo nelle larghe cucine contadine si udiva ogni tanto lo scoppiettio di quel grosso ceppo messo ad ardere sul focolare per onorare con la sua fiamma duratura la sacralità di quella notte così speciale. [1] Presso alcune famiglie in tale occasione oltre ai tradizionali tortelli di zucca, si facevano anche i cosiddetti torté blisgon (tortelli scivolosi dato il loro aspetto viscido), un tipo di tortelli dal ripieno dolce ricavato da un impasto di saba e castagne secche cotte e spappolate conditi con salvia e pane grattugiato. Tali tortelli andavano mangiati freddi. [2] Questa era anche la notte in cui le vecchie médgouni (così erano chiamate in dialetto quella specie di medichesse – fattucchiere un tempo molto comuni nelle nostre campagne) confidavano le loro misteriose formule magico.
empiriche alle giovani donne che esse candidavano a sostituirle. [3] Letteralmente ditalino. Divertente gioco di gruppo in cui chi conduceva il gioco, tenendo stretto tra le mani giunte a mo’ di preghiera il didalein (che poteva essere un ditale ma anche un anello, un bottone…) faceva finta di passare il pegno nelle mani altrettanto congiunte degli altri giocatori seduti sulle panche attorno a lui. Il pegno naturalmente veniva lasciato solo nelle mani di uno di questi, quindi si trattava di indovinare chi era il nuovo detentore del pegno. Colui che riusciva a indovinare chi possedeva il didalein non solo diventava capo del gioco, ma acquisiva anche il diritto di condannare chi teneva nascosto il pegno. La condanna di solito consisteva nell’obbligare a dare un bacio a una o a uno dei presenti che magari poteva essere una persona gradita ma a volte sgradita se non addirittura ripugnante. [4] Un tempo ai giovani era consentito di andare a moros, ossia a trovare la fidanzata, solo il giovedì e la domenica e in alcune feste infrasettimanali