Il dialetto reggiano utilizza molte espressioni derivate dall’attenta osservazione degli animali per definire caratteristiche delle cose e delle persone. Quando il dialetto era la lingua maggiormente parlata dalla popolazione, la tonalità di molti colori era identificata in questo modo, non esistendo i moderni pantoni cui fare riferimento. Ben prima dell’Aquila di Ligonchio le caratteristiche di diversi animali servivano per dare subito l’idea dell’aspetto fisico o comportamentale di certe persone.
Riccardo Bertani e Giovanna Barazzoni, nell’opera Quando le medicine profumavano di siepi e di prati (Istituto “Alcide Cervi”, Reggio Emilia, 1985) hanno raccolto questi modi di dire. Alcuni di questi vengono ancora oggi utilizzati ma altri sono completamente dimenticati, a segnare il nostro allontanamento dall’osservazione della natura che ci circonda.
L ē ròs cme un pît [è rosso come un tacchino], dall’ intenso rossore che appare sulla testa verrucolata del tacchino quando si adira;
L ē vèird cme ’n angòr [è verde come un ramarro] dalla luminosa colorazione del ramarro maschio adulto, sul capo, il dorso e la coda;
L ē şâl cme ’na pôrca [è giallo come una «porca» ossia di quel colore giallognolo che prendeva il baco morto, e marcito, prima di fare il bozzolo (il nome di «porca» è sicuramente un’allusione al ripugnante odore del porco).
L ē nìgher cme un stòurel [è nero come uno storno] dal piumaggio di questo uccello.
La pêr ’na rôspa [sembra una «rospa»] di persona panciuta e con le mascelle carnose e gonfie, tanto da dare l’idea di quella specie di grosso rospo, un tempo comune in campagna.
Al pêr un rôsp [sembra un rospo] per una persona con la pelle grinzosa e verrucosa, come quella del rospo.
L ē mègher cme ’na chêvra [è magro come una capra] per richiamare la forma estremamente ossuta di questo ovino.
Al pêr un bôtel [pare un « bôtel »] per indicare un individuo dalla testa grossa ed il corpo tozzo, come era appunto quella specie di ghiozzo un tempo comune nelle acque della Provincia.
Al pêr un cirabibi [sembra uno scricciolo] la voce onomatopeica riflette il verso dell’uslèin dal frèdd [uccellino del freddo] perché appariva in pianura solo durante i mesi invernali, per indicare una persona di aspetto minuto e gracile
La pêr n’arsintèlla [sembra una lucertola] di una ragazza alta e dinoccolata che nel muovere il lungo corpo assomigliava alle lucertole quando camminano.
La pêr ’na scuvaslèina [pare una cutrettola] l’epiteto indicava quelle «forosette» che ancheggiavano vistosamente, imitando in tal modo l’andare sculettante delle cutrettole.
L ē svèlt cme ’na bèndla [è svelto come una donnola] per indicare un individuo alquanto agile e svelto, che nel suo agire ricorda il rapido zigzagare della donnola.
L ē incantê cme n’ôca [è imbambolato come un oca] di una persona che ascolta le cose incantata, come fanno le oche quando sentono qualcuno conversare sull’ aia.
Al pèr ’na lôdra [sembra una lontra] chi beve molto, dato che un tempo era diffusa la credenza che la lontra, vivendo lungo i corsi d’acqua, avesse un gran bisogno di bere per sopravvivere.
Al pèr un scarzarèin [somiglia ad un cardellino] di chi amava vestirsi con colori vivaci, come quelli delle penne del cardellino-
L ē cojòun cme un pigâs da la brèta ròsa [e sciocco come un picchio verde] il paragone deriva da un errata credenza popolare, che riteneva stupido il picchio perché picchiava con il becco contro gli alberi secchi o marci, nonché per il suo gridare forte quando si avvicinava qualcuno, il che dette origine al detto al pigâs al sîga, l ē al padròun ch al rîva [il picchio grida, sta arrivando il padrone].
L ē stópid cme un fasân [è stupido come un fagiano] per sottolineare la reale stupidità del fagiano che in caso di pericolo nasconde la testa tra l’erba, lasciando il corpo in vista.
Al cór cme na lēvra [corre come una lepre] di un individuo molto lesto, che ricordava la scioltezza della lepre nella corsa; sulla celerità della lepre esisteva un altro detto contadino: ciapêr al lēvri cun al câr [prendere le lepri con il carro], per indicare una cosa impossibile da raggiungere.
La pèr ’na pojàna [pare una poiana) o La pèr ’na ciôsa [sembra una chioccia] per indicare una donna sciatta e fannullona, forse riferendosi al volo sciatto e planante del rapace o al comportamento trasandato della chioccia, il cui compito non era più quello di attirare le attenzioni del gallo, ma quello di badare alla cova e ai pulcini.
L ē permalòuşs cme i côren dal lumêghi [è permaloso come le «corna» delle lumache] per gli individui eccessivamente permalosi che al minimo sgarbo si ritraggono in se stessi, come fanno appunto le «corna» delle lumache e delle chiocciole al solo sfiorarle
Fêr al pît [fare il tacchino] indicava un giovane «cotto» di una ragazza e che le faceva goffamente la corte, proprio come il tacchino fa la ruota attorno alle femmine.
Ciapêr un nâder [prendere un’anatra] si riferisce al caso in cui un giovanotto veniva rifiutato dalla ragazza di cui si era innamorato, richiamando il diniego delle anatre con la testa quando rifiutavano l’accoppiamento.