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Giuseppe AMOROTTI (1887 – 1944)

Giuseppe Amorotti venne definito da Ugo Bellocchi l’ “ultimo cantore di Carpineti”, dove nacque nel 1887 e vi morì nel 1944, assassinato da militari tedeschi durante un rastrellamento. Era uno degli ultimi discendenti del brigante Domenico Amorotto, personaggio famoso  agli inizi del ‘500 per il suo potere sulle popolazioni della montagna reggiana, modenese e della Garfagnana.
Giuseppe fu invece personaggio molto schivo, amante della natura e appassionato agricoltore.

*

Disse di sé stesso: “Appartengo a quegli animali che amano vivere nella solitudine del deserto o nel più folto e profondo della macchia. Somiglio a quelle piante che, portate dove il sole dardeggia, non si trovano in condizioni a loro favorevoli e soffrono.

 


 

Formatosi al Seminario di Marola, trascorse la sua vita dedicandosi all’amministrazione delle proprie terre. Le sue qualità di poeta vennero riconosciute in tarda età dal poeta e scrittore reggiano Armando Zamboni. Di lui ci restano 16 poesie in dialetto, di cui numerose sono quelle  composte in occasione delle nozze di gente del luogo, e 48 poesie in italiano.

La sua composizione più famosa è quella in onore del pianista e compositore carpinetano Luigi Valcavi, considerato uno dei più grandi interpreti di Chopin, Mendelsshon e dei più famosi maestri dell’ottocento. Valcavi visse a lungo per l’epoca e Amorotti immaginò nella sua poesia che con la sua musica Valcavi potesse tenere lontana  anche la morte.

 

A’l Maister Gigin Valcavi pr’al sô cumplean

E diss un dì la V’ciàra a chi d’ famja
(Pantion, Strangòss, Mal d’ côr, et ceteràa.. ):
« Mittj al bast a la mula! A’ m’ tîgh la brija
e stòven pront con tutt’ j’ arnês gussàa!

E gh’ è, in t’ un sit ch’ so mi, una parsôna
ch’ la m’ a schiva, ch’ la viv come se n’ gh’ fuss!
ch’ la rid se gh pass d’ arênt e ch’ l am’ cojôna
s’ la m’ved dal volt a sédr in simma a l’ uss!

I’ n’ vòj passàr pr’ ingiusta e pr’ imbambida,
i’ n’ vòj ch’ insun em’ mêna a spass pr’ al’ nâs!
S’ jgh’ riv adòss igh’ dagh’ na maledida
ch’ n’ voj ch’ l an gh’ abbia pù né ben, né pâs! »

In poch minut la mula l’ è cargâda
ad tótt i mal ch’ a’ s’ pôl immaginar…
la V’ciâra la gh’ dà al « mars » cun’ na scuriâda
e insimm’ Valcava la la fa farmar.

Ma, mènter la s’ in sta par dâr la via
a tott i sô malan, a gh’ é daijs
ad sentir gnir par l’ aria un’ armonia
che parìva ch’ la gniss d’ in Paradis.

Infatti l’éra propria ‘na sonåda
ad còli che nissun é bun d’ sunâr,
e, miràchel!, chi sbirr d’ la sôo covâda
j stévni a bocca averta ad ascoltar!

Tutt j’ usgnôl che cantèvni in t’ la Gorina (1)
par santìr j tasìnn tutt in t’ un bott…
più ‘n coriva adrée al mosch’ la scovasslina
e al « cioch-ciòch » e’ sospês anch i merlòtt…

V’sìn a ca’, sôvra i brocch ad la marùga
egh’ sidìva una mùccia ad bée anslin,
che par seguir dal nòt l’onda, la fuga,
j tnìven ferm j arch sovra i violin…

Parfin j’ àlber j’ êri tutt in alegria
e pariva ad sentii a mormorar:
« Fin ch j avròm un po’ d’ sôl e ‘st’ armonia
j s’ vadràn cascâr ‘l foj, ma brisa s’ car! »

Quand la V’ciara la vist che cla dolcezza
d’accord, ad bëe gorghegg’ e ad liêv sospir
la gniva da cl’ Omin (oh, che gramezza!)
ch’ la s’ éra missa in mênt ad malidir,

quand la capì al perchè d’ l arcana scena,
ch’ la l’ jva fatta tant maravigliar,
la diss a i sôo da fass santir a pena
«Andòmm subit a câ! Lassómml’ a star! ».

(1) Gorìna=Dosso boschivo nei pressi di Valcava di Carpineti

*

Al  Maestro Luigi Valcavi per il suo compleanno

E disse un giorno la Morte ai suoi collaboratori

(Affanno,Tosse, Mal di cuore, eccetera…):
«Mettete il basto alla mula! Mettetegli la briglia
e state pronti con tutti gli arnesi affilati!

C’è, in un posto che so io, una persona
che mi schiva, che vive come se non ci fossi!
che ride quando passo e che si prende gioco di me
se mi vede delle volte seduta sull’uscio!

Non voglio passare per ingiusta o rimbambita,
non voglio che qualcuno mi meni per il naso!
Se gli arrivo addosso lo riduco così male
Che voglio che non abbia più né bene, né pace! »

In pochi minuti la mula è caricata
di tutti i mali che si possono immaginare…
la Morte le dà il “via” con una frustata
e la fa fermare sopra Valcava.

Ma, mentre sta per liberare
tutti i suoi malanni, le sembra
di sentire nell’aria un’armonia
che sembrava venisse dal Paradiso.

Infatti era proprio una musica
di quelle che nessuno è capace di suonare,
e, miracolo! quegli sbirri del suo seguito
stavano ad ascoltare a bocca aperta!

Tutti gli usignoli che cantavano nella Gorina (1)
per sentire si sono azzittiti in un momento…
la cutrettola ha smesso di correre dietro alle mosche
e anche i merli hanno sospeso il loro “cioch-ciòch”.

Vicino a casa, sui rami di una robinia
stavano seduti tanti angioletti,
che per seguire l’onda delle note, la fuga,
tenevano fermi gli archi sopra i violini…

Perfino gli alberi erano tutti allegri
E sembrava di sentire mormorare:
«Finché avremo un po’ di sole e questa armonia
si vedranno cadere le foglie, ma non moriremo!»

Quando la Morte ha sentito che la dolcezza
di quegli accordi, i bei gorgheggi e i lievi sospiri
venivano da quell’Ometto (oh, quanta infelicità!)
che si era messa in testa di rovinare,

quando ha capito il perché di quella scena arcana,
che l’aveva fatta meravigliare così tanto,
disse ai suoi bisbigliando sottovoce
«Andiamo subito a casa! Lasciamolo stare! »

(1) Gorìna=Dosso boschivo nei pressi di Valcava di Carpineti

 


Armando Zamboni pubblicò nel 1941 un articolo in cui citava l’Amorotti come uno dei migliori poeti dialettali reggiani. Il poeta rispose con il testo Un òm zò d’post in cui si schernisce e se le Muse per punizione lo bastoneranno, si augura bonariamente che anche chi lo aveva nominato abbia la sua punizione.

 

Un òm zò d’post

Quand al Mûsi gh’andrànn, a fin dla stmàna,
pr-i giardìn d’Elicona in ispezión,
e al trovaran a seder int una scrana
fra génta da rispett anch’un cojón

poch istrui e tajâ zo’ all’antiga;
pù che a la pènna adatt al granarón (1);
che al règol dal bell scrìver en li sà miga;
che al sfréga zo’ a la mèij un zironzóon,

cos’agh faranli mai! Cóll pòver diâvel
puttost che starsen là cme un ciò sidû,
lé mèij, prima ch’al mettn in òvra al bàsel (2)
o che ‘el brànchen pr-i strass, ch’al ciapa al dû.

Mi che son coll’ povr’òm e i só csa ‘l vàli
al man d’call donn par manovrar d’bacchétt
e m’n’andarò, cme s’dis, fôra dal bali
fin ch’jò san al violon, al spall, l’archett.

La tèsta, puh, la prée anch’ciapar ‘na bòta
senza che mì abbia da portar gran dann,
ma ‘na stangåda in ch’j’âter sit l’am scòta
e gh’é d’armagner smalidï par d’j’ann!

Se n’farò mija in temp a scapâr via
senza sintir di legn l’introduzión,
i’gh’dirò: «Basta mò, porcaresia,
tgni quell anch’ par Michel e Armand Zambón
chi’jen propia chi ch’m’hann miss zò d’posizion!».

(1) Granaron: grossa scopa di frasche verdi che usavano i contadini dei tempi andati per spalmare le aie di una broda , composta di deiezioni bovine diluite con acqua, che serviva da intonaco.
(2) Basèl: bastone ricurvo utilizzato per portare a spalla i secchi

*

Un uomo fuori posto

Quando le Muse andranno, a fine settimana,

ad ispezionare i giardini di Elicona,
e troveranno seduto su una sedia
fra gente rispettabile anche un coglione

poco istruito e fatto all’antica,
più che alla penna adatto alla ramazza (1)
che non conosce le regole del bello scrivere;
che suona alla belle meglio un contrabbasso,

cosa non gli faranno! Quel povero diavolo
piuttosto che starsene lì seduto come un allocco
è meglio, prima che comincino ad usare il bàsto (2)
o che lo prendano per gli stracci, che se ne vada.

Sono io quel pover’uomo e so quanto valgono
le mani delle donne ad usare un bastone
e me ne andrò, come si dice, fuori dalle palle
fin che ho sano il contrabbasso, le spalle e l’archetto.

La testa potrebbe anche prendere una botta
senza arrecarmi un grande danno,
ma una bastonata negli altri posti mi brucia
e c’è da restare  rovinati per degli anni!

Se non farò in tempo a scappare via
senza sentire le bastonate
dirò loro: «Basta adesso, porco mondo,
tenetene un po’ anche per Michele e Armando Zamboni
Che son proprio loro che mi hanno messo fuori posto!».

 


 

Nel seguente sonetto apparentemente ironico c’è anche tutta la disperazione di due fratelli che dopo avere duramente lavorato per un giorno intero non hanno niente di cui cibarsi.

Un brutt rimèdi

Dû fradée, dop’ un giurn inter d’ vangâda
j éren gnů a ca’ provist d’aptit par trî,
e smanios ad far ‘na gran magnâda
pr andâr pô dòp a lètt meno sfinî.

Nasâa per tutt i co’, an’ gh fu manêra
ad trovar né un po’ d’ polenta, né un po’ d’ pan:
j éri tutt dû, puvràss, senza mojera
e n’ gh’ avivi ch’ jutéss gnanch un cristian.

Piròccia al dis a ch’ l’ àter: «Sént, Batista.
mja andar a lètt, stassira senza zéna;
di noster piatt l’ é za finî la lista…».

Battista inviperí (la fam l’ al sfianca…)
al fa: «Chi vâga a lètt, mi, senza zéna?
Puttóst J’ dórem chì, chì in zîm’ la banca!».

*

Un brutto rimedio

Due fratelli, dopo aver vangato per un intero giorno

erano tornati a casa con un appetito per tre
e smaniosi di fare una grande mangiata
per andare poi a letto meno sfiniti.

Annusarono in tutti i luoghi, ma non ci fu modo
di trovare un po’ di polenta, né un po’ di pane:
erano tutti e due, poveracci, senza moglie
e non c’era un cristiano che li aiutasse.

Piròccia disse all’altro: «Senti Batista,
non andare a letto questa sera senza cena:
dei nostri piatti è già terminata la lista…».

Batista inviperito (la fame lo sfianca)
rispose : «Che vada a letto, io, senza cena?
Piuttosto dormo qui, qui sopra alla panca!».

 


 

Bibliografia
Giuseppe Amorotti, (1878-1944) : poesie, a cura di Giovanni Fontanesi, 1999. Carpineti : Parrocchia di S. Prospero Vescovo, 1999

Ugo Bellocchi, Il “volgare” reggiano. Origine e sviluppo della letteratura dialettale di Reggio Emilia e Provincia, vol 2,. 276-278, 1966 (Poligrafici)

Ugo Bellocchi, Giuseppe Amorotti, L’ultimo cantore di Carpineti, Estratto dal Bollettino Storico Reggiano, XXVI, settembre 1993, n. 80

 


 

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