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Don Ferrante BEDOGNI (1813 – 1856)

Nasce a Reggio Emilia nel 1813 e muore prematuramente a Scandiano nel 1856, e da lui che ha vissuto solo la prima parte del 19° secolo, diamo l’avvio a questa nostra Antologia. Infatti, e non a torto, è considerato punto di riferimento per molti poeti dialettali reggiani venuti dopo di lui.
Studiò presso i gesuiti  a Chieri, Torino,  Roma e Reggio Emilia, e studiò teologia e lingue orientali all’Università della Sapienza a Roma.

A Roma ricoprì diversi incarichi nelle istituzioni religiose poi, dal 1840 al 1846 fu professore di ermeneutica e lingua ebraica presso il Seminario di Reggio. Nel 1846 divenne arciprete di Scandiano, dove morì prematuramente nel 1856 a seguito dell’epidemia di colera che imperversava in quegli anni.

Negli anni compresi fra il 1841 e il 1846 scrisse i Lunari arsan, principale fonte delle sue poesie dialettali, anche se non disdegnò di pubblicare altri componimenti su fogli volanti.
Don Ferrante Bedogni va ricordato soprattutto perché fu il primo a rivendicare l’uso del dialetto reggiano come lingua letteraria, rivendicazione che compare nella prima composizione del primo Lunari del 1841:

Prefazioun

Cruscant, purista, n’ me saltèdi adòss
S’ j ho scritt al me lunari in lingua ‘rsana
Perchè j’ hi da saveir, fra gl’ èter coss,
Che me n’so gnanc dv’ as sia la Toscana,
E po a scriver in lingua furastera
A dirvla s’cietta e netta en g’ho manera.
E so che st’furaster l’è un aggettiv
Che con la nostra lingua an gh’sta bein brisa,
El capiss’ anca me; mo… cosa vriv..
L’è un mód ed dir,… l’ è acsè una zerta guisa
D’ esprimr el nostri idei;… al srà un errôr;
Mo i sgnor purista egh caschen anca lôr.
Dèm mo a ment sgnor amigh dal bel parlèr;
Gh’ è nissun ch’ sia più voster d’un amigh?
E pur?… fèl ‘gnir un dé vosc a disner,
E po e vedrï sl’è veira col che digh,
Che st’ nom d’amigh av scappa dal pinsér,
E s’ dsi «i ho még a tevla un furastér ».
Donca, second vu ètr e pòss capir
Che al termin l’è abusiv, ma pur, al s’drova
E s’el druvè vu èter che psi dir
a bon zog, e gnint ès mova1,
Srà mo colpa parland in lingua arsana.
Dèr al nom d’ furastèra all’ italiana?
Purista, donc, e-n-em saltedi adòss,
Se m’ son inzgnè de scriver in dialett
Per dunerv anca me col bris che pòss;
Al regal e capiss ch’l’ è da puvrétt,
Cioè… adèsi regal, bisogna intender…
Regal.. l è veira… mo regal da vender.

Prefazione

Dottori della crusca, puristi, non saltatemi addosso

Se ho scritto il mio lunario in lingua reggiana
Perché dovete sapere, fra le altre cose,
Che io non so nemmeno dove sia la Toscana,
E poi a scrivere in lingua forestiera
A dirvela francamente non son capace.
Lo so che questo forestiero è un aggettivo
Che con la nostra lingua non ci sta bene,
Lo capisco anche io; ma… cosa volete…
E’ un modo di dire,…è un certo modo
Di esprimere le nostre idee; … sarà un errore;
Ma i signori puristi ci cadono anche loro.
Ascoltatemi signori del bel parlare;
non c’è nessuno che sia più vostro di un amico?
Eppure? …fatelo venire un giorno a pranzo con voi,
E poi vedrete se è vero quello che dico,
Che questo nome di amico vi sfugge dal pensiero,
E dite «ho un forestiero a tavola con me».
Dunque, secondo voi posso capire
Che il termine è abusivo, ma tuttavia, lo si utilizza
E se lo usate voi che potete dire
un buon gioco e niente si muova1,
Sarà una colpa parlando in lingua reggiana
Dare il nome di forestiera all’italiana?
Puristi, dunque, non saltatemi addosso,
se mi sono ingegnato di scrivere in dialetto
Per darvi anche io quel poco che posso;
Capisco che il regalo è da poveretto,
Cioè… piano regalo, bisogna intendere…
Regalo… è vero… ma regalo da vendere.

(1) A bon zogh, e gnint ès mova:
maniera di dire tolta dal gioco del tresette. Lo dice il giocatore a fine di partita, annunciando i punti d’ accuso che gli danno la vittoria senza proseguire il giro delle carte.

Tuttavia, Bedogni dichiara che il dialetto va considerato “come lingua di famiglia o paesana rispetto all’italiano e se la lingua del volgo si voglia far servire a nuovi concetti o di qualche levatura bisogna cercar in prestito le parole ne’ grandi magazzini della lingua generale”, una dichiarazione che troverà riscontro per oltre un secolo nella maggior parte dei poeti dialettali reggiani.
Sarà invece Cesare Zavattini, nel 1974, a sostenere il contrario, nonostante la ruvidità della nostra lingua madre nei primi versi della sua poesia INVCEND (Invecchiando):

Invcend a vrés
büta föra in dialét
col co tgnü dentr’in italian.
As pöl di töt cm’al mé dialét,
i sö sigulament
da car di bö chi turna a cà sotsira.

Invecchiando vorrei
buttare fuori in dialetto,
certe cose tenute dentro in italiano.
Può dire tutto il mio dialetto,
coi suoi cigolamenti
da carro dei buoi che torna a casa sottosera.

Bedogni fu anche importante per lo studio delle fonti bibliografiche del nostro dialetto che servirono poi a Bernardino Biondelli per il suo Saggio sui dialetti gallo Italici (Milano, 1853).

Per quanto riguarda la scelta degli argomenti, Antonio Fulloni, curatore della raccolta Vers Arsan  del 1931, scrisse che “non si può negare una certa monotonia se non nella scelta degli argomenti, nello svolgimento di essi. Infatti la critica è continua, i difetti del prossimo sono assiduamente posti in rilievo , la posa del vecchio lodatore del sereno passato rispetto al triste presente può ingenerare qualche stanchezza nel lettore.”.  Bedogni prende di mira soprattutto i ficcanaso, i chiacchieroni e i fannulloni come nel Mister d’Miclazzdal Lunari del 1844:

Al mister d’ Miclazz

La n’ è una bella cosa costa chè,
Cioè n’fer gnint, al bel mistèr d’ Miclazz,
E studier l’ignoranza tutt al dè,
E con un aria grossa c’me un palazz
Cuntintérs ed saveir, e d’ dir pr’ el cà
C sa pensa al tèl, ch’ s’ al magna, e cos’ al fa?
Mo che consolazion pr’un omm de scienza
Dop quattords’ our ed lett, e sé d magner,
E quattr ed vizi, pipa, e meldicenza
Alvèrs in t’ al mezgioren per disner,
E vanters con la grenta insunïeda,
Che oggi l’ è una bellissima giurneda!1
Che bella cosa un omm che in gioventù
Al rivò fina in media o in superioura,
E po l’è quarant’ ann ch al sarò su
Manuell, Poretti, e al liber d’ la primoura,
E al rivè a guadagners riputazion
Per trei o quater generazion
St’omm al srà sempr un omm, mo oè!  un gran omm,
Un umoun, un umazz, un pezz da s’santa;
Lu v’ parlarà da la panera d pomm
Fina al più elti vous d na donna ch’ canta,
2
E tutt la gioventu starà a sintir
Pr’ imparer a n’ saveir nè fer nè dir.

Il mestiere di Michelaccio

E’ una bella cosa questa,
Cioè non fare niente, il bel mestiere di Michelaccio,
E studiare l’ignoranza tutto il giorno,
E con un aria grande come un palazzo
Accontentarsi di conoscere, e di dire per le case
Cosa pensa il tale, quello che mangia, e quello che fa?
Ma che consolazione per un uomo di scienza
Dopo quattordici ore di letto, e sei a mangiare,
E quattro di vizi, pipa, e maldicenza
Alzarsi nel mezzogiorno per pranzare,
E vantarsi con la faccia assonnata,
Che oggi è una bellissima giornata!
Che bella cosa un uomo che in gioventù
Arrivò fino alle medie o anche al ginnasio
E poi sono quarant’anni che ha chiuso
Manuell, Poretti, e l’abbecedario,
E arrivato a guadagnarsi la reputazione
Per tre o quattro generazioni
Lui sarà sempre un uomo, ma oè! un grande uomo,
Un omone, un omaccio, un pezzo di grosso calibro
Lui vi parlerà dalla cesta di mele
Fino alle più alte voci di una donna che canta,
E tutta la gioventù starà ad ascoltare
Per imparare a non sapere né dire né fare.

(1) Un verso del Belli, di un sonetto famoso sul Cavaliere enciclopedico
(2) Due versi di difficile interpretazione oggi


Bibliografia
Don Ferrante Bedogni, Vers Arsan 1841-1849, a cura di A. Fulloni, Reggio Emilia., Anonima Poligrafica Reggiana 1931.
Ugo Bellocchi,  Il “volgare” reggiano. Origine e sviluppo della letteratura dialettale di Reggio Emilia e Provincia, vol 2,.23-31, 1966  (Poligrafici).

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