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DIALETTO È UNA BRUTTA PAROLA?

 

 

Questa provocatoria domanda è presa dal titolo di un capitolo del bel libro di Nicolò De Blasi Il dialetto nell’Italia unita. È nozione comune che tante persone pensano ai dialetti come a corruzioni della lingua italiana considerandoli inferiori a questa, trascinando spesso in questo giudizio di inferiorità anche coloro che utilizzano il dialetto. Per reazione, chi vuole difendere il proprio dialetto, usa sovente l’affermazione: ” il [reggiano][1] non è un dialetto ma una lingua”, rifuggendo quasi dall’utilizzo di questo termine come se fosse una brutta parola. Questa contrapposizione sembra essersi fortemente radicata nei dibattiti in rete o sui social, dove ogni utente si sente autorizzato ad esprimere il proprio pensiero, troppo spesso ben poco argomentato, su questioni complesse come quelle linguistiche[2].

Secondo De Blasi, l’origine di questa diffidenza verso i dialetti potrebbe essere attribuita al termine inglese dialect che viene utilizzato dagli anglosassoni per indicare una variante di una lingua standard, cioè una modalità particolare di parlare una certa lingua o anche una sua deformazione. Ad esempio, l’inglese americano è un dialect dell’inglese standard, e può essere considerato un modo deviante di parlare (male) l’inglese.

Tutto questo non vale per i dialetti italiani che non sono varianti derivate dalla lingua italiana né modi sbagliati di parlare l’italiano.

Per comprendere questa differenza fondamentale occorre rifarsi all’origine dei dialetti italiani, nati dalla lingua latina. Durante i secoli del dominio di Roma, i testi scritti latini forniva una base linguistica comune che consentiva lo svolgimento delle attività amministrative, militari, commerciali, religiose, culturali, ecc. in tutte le regioni dell’impero. Tuttavia, il latino che veniva parlato a livello locale presentava significative differenze, dovute alla composizione etnica disomogenea delle comunità, ai diversi gradi di istruzione dei parlanti e ai diversi contesti, più o meno informali, della comunicazione, nonché alle diverse lingue che venivano parlate nelle regioni dell’impero prima del latino. Quando l’impero romano si disgregò il latino perse la sua funzione di riferimento linguistico e, progressivamente, assunsero sempre maggiore importanza le parlate locali che finirono per differenziarsi in mille modi, anche a seguito dell’innesto di termini nuovi portati dai tanti popoli che invasero l’Italia (es. longobardi, franchi, arabi ecc.).

Gli abitanti di centri vicini o situati nella stessa area geografica, quando per esempio si incontravano in una fiera o in occasione di una festa religiosa (o anche in occasione di contese) naturalmente comunicavano tra loro senza difficoltà, ma avvertivano pure la diversa provenienza anche rịconoscendo minime differenze linguistiche (una forma pronominale, una desinenza verbale, un parola particolare o un’intonazione diversa).
Ancora adesso, d’altronde, gli abitanti di un certo paese sono forse in grado di distinguere gli abitanti di paesi vicini sulla base di tratti linguistici diversi.

Accanto al latino scritto, che continuò ad essere utilizzato dalle persone colte ancora per diversi secoli, si andò sviluppando anche una letteratura in lingua “volgare” che rifletteva le diversità delle lingue locali.

Dante Alighieri, per primo, espresse nel Convivio l’esigenza di una nuova lingua (un sole nuovo) da affiancare al latino e destinata a prenderne il posto, per dare possibilità di scrivere testi letterari anche a coloro che non conoscevano il latino:

Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.

Questo sole nuovo verrà identificato dagli umanisti di inizio ‘500 nel volgare fiorentino che costituì il riferimento per la lingua italiana da contrapporre al latino nelle espressioni della cultura e nelle situazioni formali, mentre le parlate locali continuarono ad essere utilizzate nelle situazioni informali, della comunicazione quotidiana e famigliare[3].

Pertanto, i dialetti italiani non derivano  e non sono corruzioni dell’italiano quanto piuttosto sono varianti del latino.

Per chi pensa che la parola dialetto sia una brutta parola, De Blasi ne ricostruisce la storia e la curiosa evoluzione. Il termine, di origine greca, venne utilizzato in epoca rinascimentale tra i letterati italiani per indicare le tante lingue parlate nelle diverse zone dell’Italia, per poi diffondersi in diverse lingue europee: dialect nell’inglese, dialecte nel francese e dialekt nel tedesco. A quei tempi, evidentemente, la cultura italiana, pur essendo espressa in numerosi stati e staterelli divisi e in lotta tra di loro, era così influente da poter introdurre italianismi nelle lingue di altre società ben più coese. In epoca moderna, in cui si importano invece continuamente termini stranieri, anche il termine inglese dialect è rientrato in Italia, con un significato però molto diverso dall’originale. Scrive De Blasi:

Questo italianismo di ritorno è in fin dei conti la spia di una crisi culturale prima che linguistica, visto che una parola italiana che ha fatto il giro del mondo viene ora in Italia attribuita in modo inconsapevole l’accezione americana.

 

Note

Nicola De Blasi è professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università
di Napoli “Federico II”.

Il libro Il dialetto nell’Italia unita. Storia, fortuna e luoghi comuni, è edito da Carrocci, 2019.

[1] O qualsiasi altra lingua locale (napoletano, siciliano, bolognese…)

[2] Si veda in proposito: Ghilardelli M, Dialetto: definizione semplice di una parola controversa in: Definizione di Dialetto (patrimonilinguistici.it)

[3] Il successo del dialetto fiorentino non è dovuto ad una sua superiorità rispetto agli altri dialetti, dal momento che “nessuna lingua può considerarsi intrinsecamente superiore ad un’altra, ma ad una serie di concause extra-linguistiche, fra le quali vanno annoverate quanto meno: la presenza nello spazio di poco più di un secolo (fine Duecento, Trecento) di tre autori toscani del calibro di Dante, Petrarca e Boccaccio; la supremazia culturale ed economica (o è il caso di dire economica e culturale? di Firenze dal Trecento al Cinquecento; anche, perché no, la centralità geografica della Toscana rispetto alla penisola italiana nel suo complesso”. (Fanciullo F.: Prima lezione di dialettologia, Laterza, 2015).

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