Il nostro Giovanni Ramusani, scrisse un sonetto, nella raccolta Don Bortlin da la Chervara, che illustra bene quale fosse la posizione ufficiale della Chiesa, alla fine dell’ottocento, sull’impiego della bicicletta da parte del clero.
A Don Bortlin viene posta la domanda se un sacerdote avesse fatto bene o male a recarsi in bicicletta da un ammalato che era gravissimo, per amministrargli i sacramenti, non ostante il divieto del Vescovo. Così risponde Don Bortlin, in un dialetto che riprende quello della nostra montagna:
E e me dmandà se j era dla premura?
E pret e vans cièmà da n’ammalà
Póvr óm – saivand e mè – ch’a gh’ èra dà
La gózza, e che ’s’n andava per sicura!
Ajèval da lassar na cheriatura
De Sgnór sènza che fuss sacramentà?
Egh’ andj in biciclètta! Ha fatt e pcà?
Ha fatt e só dovèr, n’abbie paiura!
- Ma e disi ch’an se pól andar acsj!
– Ma per cossa an se pól? – An ghe guadagna
Caràtter, dignità e sòja mj!
– Caràtter, dignità? Corpo ’d cóll quàtter!
Ma quand e vèn e Vèschve su in montagna
E monta l’asi e e mul, él in caràtter?
Cosa spinse Giovanni Ramusani a scrivere questo sonetto e ad essere così polemico con il vescovo?
Molto probabilmente fu un episodio, ricordato nelle cronache e nei libri sulla storia della bicicletta, di un prete di Ravenna che nel 1910 aveva avuto il coraggio di chiedere, attraverso il giornale della parrocchia “se un sacerdote può nel caso di un ammalato grave inforcare la bicicletta nonostante il superiore divieto?”
Leggere oggi questo trafiletto del Corriere della Sera del 30 luglio 1894 può lasciare increduli, ma per molti anni le autorità religiose ostacolarono i preti, vietando loro l’utilizzo della bicicletta anche per i doveri del loro ufficio. La bicicletta era vista come un simbolo della modernità che stava facendosi strada in quegli anni sull’onda del positivismo scientifico rispetto al quale il Vaticano era fortemente contrario.
Scriveva l’ L’Osservatore romano nel 1898
Molti parroci compresero subito che la bicicletta poteva essere un utilissimo mezzo per spostarsi rapidamente per portare un’estrema unzione, o ricevere una confessione in un convento e per molti altri adempimenti, senza dover ricorrere al mantenimento di un cavallo o di un asino (per chi poteva permetterselo). Tuttavia, i preti “ciclisti” dovevano sfidare i divieti vescovili, motivati soprattutto dalla presunta perdita di dignità del religioso, costretto ad arrotolare la veste per poter salire in bicicletta ed assumere una posizione “sconveniente”.
I pochi produttori di biciclette del tempo capirono molto rapidamente che il clero poteva essere un ottimo cliente e un formidabile influencer dell’utilità del nuovo mezzo. L’Umberto Dei, una delle prime fabbriche italiane di biciclette, mise a punto un modello di bicicletta priva della canna orizzontale, chiamato levita, che consentiva così al religioso di pedalare senza bisogno di sollevare troppo l’abito talare. In pratica, una bicicletta simile a quelle create per le donne dalla Rover nel 1892, con le ruote della stessa dimensione delle biciclette da uomo.
Questa innovazione fece “levitare” il numero dei preti ribelli agli ordini ecclesiasti, come questo di Giuseppe Sarto, Patriarca di Venezia e amministratore apostolico della diocesi di Mantova, che sarebbe diventato Papa X di lì a poco.
Molto numerose furono le sospensioni a divinis di religiosi non rispettosi del divieto, ma vi furono anche alti prelati che cercarono di superare questa situazione. Uno di questi fu il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, che così intervenne sulla questione:
Questa situazione si trascinò ancora negli anni successivi e nel 1915 fu il prete di un paesino mantovano, Don Doride Bertoldi, poeta dialettale con lo pseudonimo di Anfibio Rana, a schierarsi contro il divieto vescovile:
Ch’ a gh’ vaga ’l marangon e ’l murador
Lor si ch’ i pöl! Su pur, su pur barber,
ch’a ’l faga prest, ch’a ’l monta, sior sartor.
A gh’ à d’andar insima ’l campaner,
ma diol? E ch’a ’viagia come on sior;
al fachin, al spasin, fin al busèr,
ma ’l pret, oibò! ’l saria on disonor!
Al pret in bicicleta? Gnent afat,
voler o non voler l’è n’indecensa;
on pret sentà là in sima al par on mat.
Al perd la dignità, la conveniensa;
a pè ch’i vaga i paroch e i curat
s’i l’ha da esercitar la penitensa
Che ci vada il falegname e il muratore.
Loro sì che possono, salga pure, barbiere,
Faccia presto, salga, signor sarto
Ci deve salir sopra il campanaro,
ma diamine? E che viaggi come un ricco;
il facchino, lo spazzino, anche il becchino,
ma il prete, oibò! sarebbe un disonore!
Il prete in bicicletta? Niente affatto,
volere o non volere è un’indecenza;
il prete seduto lassù sembra un matto.
Perde la dignità, la convenienza;
vadano a piedi i parroci e i curati
se devono esercitar la penitenza!
La posizione di ostilità delle autorità religiose perdurarono a lungo e nel frattempo, all’epoca della Grande Guerra, a complicare le cose arrivò anche la motocicletta, curiosamente definita “bicicletta a macchina” o più precisamente nel gergo curiale “birota ignifero latice incitata” (biciclo mosso da un liquido combustibile).
Fino alla metà del ‘900, l’apparizione di un prete in bicicletta poteva destare il sorriso nella gente comune e in tanti, anche in anni molto più recenti, hanno conosciuto un qualche prete bonariamente soprannominato Don Pedivèla. Un significativo messaggio di apertura alla “novità” della bicicletta arrivò molto tardivamente quando Papa Pio XII decise di accogliere nella Città del Vaticano la carovana del Giro d’Italia per una benedizione papale: era il 26 giugno 1946.
Per Stefano Pivato, professore dell’Università di Urbino e profondo conoscitore della storia della bicicletta, vi è una scena nel film Don Camillo e l’Onorevole Peppone, che rappresenta simbolicamente questa riconciliazione, laddove Peppone e Don Camilo si rincorrono lungo gli argini di Brescello, superandosi a vicenda, ma senza che vi sia un vincitore.[ascolta]
Infine, a suggello di una vicenda durata più di un secolo, nell’ottobre del 2021, papa Francesco ha voluto l’ingresso della polisportiva Athletica Vaticana nell’Unione ciclistica internazionale.
Abbiamo dunque capito per quale ragione Giovanni Ramusani scrisse quel sonetto!
2 risposte
Bravi!!
SIETE FANTASTICI
Grazie Professore per il suo graditissimo commento. I migliori Auguri di Buone Feste e Felice Anno Nuovo dal gruppo di amici di Léngua Mêdra.