Il termine “wellerismo” si riconduce a Sam Weller, un personaggio letterario inventato da Dickens ed è usato per definire le frasi attribuite a personaggi immaginari o indefiniti con tono scherzoso e intento ironico.
La funzione è quella di costruire una breve premessa che attiri l’attenzione e la convogli sul concetto che si esprime di seguito.
Funzionano cioè come i Jingle delle pubblicità, o le scenette proposte per creare una trama e assicurarsi l’attenzione dell’interlocutore in modo che il messaggio vero che si vuole trasmettere sia recepito.
Quando ancora non esisteva la TV e la pubblicità era semplice informativa, il dialetto reggiano aveva già elaborato queste tecniche e nella tradizione locale possiamo trovare diversi esempi di questo fenomeno:
- Al capés tânt cme tréch e berléch : capisce talto come “trick e berlick” (è inaffidabile, poco raccomandabile).
- Bòun al tòun! E ‘l berlechêva la chêrta… : Buono il tonno! E leccava la carta… (per fare il verso a chi si vanta facendo credere di avere chissà ché, quando invece non ha tanto più di noi).
- Dunèin l ē môrt e Regalèin al gh ē drē (oppure: al stà mêl ânca ló): Donnini (cognome tipico locale) è morto e Regalini (cognome inventato) ci è dietro (sta morendo). Oppure: sta male anche lui. (si dice quando qualcuno mira a pretendere cose gratis. Nessuno “dona” o regala niente. Chi lo faceva è morto).
- E fân cme quî dal şirunşòun, ch i dîşen da bûrla per dîr da bòun: fanno come quelli dalla compagnia del “contrabbasso” che dicono per scherzo per dire seriamente (quando qualcuno usa il tono ironico per punzecchiare e far trapelare cose che comunque pensa veramente).
- E mé chi sûnia? Al fiōl dla pôvra schifòuşa? : e io chi sono? Il figlio della povera schifosa (si dice evidenziando ingiustizie. Anch’io ho dei diritti, pensano solo agli altri e nessuno pensa a me).
- “E ûn!” al dgîva còl ch al castrêva i frê… ma l ēra pó còl di quéndeş: “e uno!” diceva quello che castrava i frati, ma era in realtà il quindicesimo (frase scherzosa, allusiva a chi dice mezze verità o dipinge una realtà leggermente distorta).
- L ē fûrob cm ē Mamèl: è furbo come “Mamelli”. Il seguito, che può essere omesso, perché tutti lo conoscono già, è: …ch al şmeşdêva la pulèinta cun l’uşèl e pó ‘l dgîva: “mama s’la brûşa!”: che mescolava la polenta con l’uccello e poi diceva “mamma come brucia (scotta)!”
- Quî lé j în interèsi d Cucclèin, ch al bruşêva la cà per vènder la sèndra! : quelli sono gli interessi (affari) di Coccolini, che bruciava la casa per vendere la cenere (non stai facendo un affare… pensi di fare un affare, ma ci rimetterai).
- Fêt cme còla ch la şghêva al scrâni per vènder la bóla? : fai come quella che segava le sedie per vendere la segatura? (simile alla precedente).
- San Paganèin: San Paganino (il giorno dello stipendio). Variante: San Sasidân (San Sassidano). In questo caso c’è un gioco di omofonia con la frase “sân s’ a s i dân” (sanno se ce li danno).
Denis Ferretti
2 risposte
Dalla mia tradizione familiare a San Polo ho delle varianti al n. 3 e al n. 8 (ma possono essere influenzate anche da mia mamma che è di origine parmense collinare):
3 – Regalein l’è mort e so fradel al stà mel;
8 – Al fa i’interesi ‘d Pepino, c’al bruseva la legna per vender la sendra.
Ciao, grazie del feedback! E’ chiaro che si tratta delle stesse massime con piccoli adattamenti di carattere locale. E’ una cosa tipica della tradizione orale. 🙂