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Cesare ZAVATTINI (1902 – 1989)

 

Cesare Zavattini nasce a Luzzara (RE) il 20 Settembre 1902, e muore a Roma il 13 Ottobre 1989.

È stato uno degli intellettuali più importanti e influenti del Novecento, in grado di influenzare con le sue opere e il suo lavoro la letteratura e il cinema prima di tutto, ma sempre esplorando le più disparate forme artistiche, dedicandosi anche alla pittura, al teatro e all’editoria.

*

Tutti ricordano Zavattini per il suo sodalizio artistico con Vittorio De Sica e per le sceneggiature di film come Ladri di Biciclette, Miracolo a Milano, Sciuscià, La ciociara, solo per citarne alcuni.
Ma Zavattini soprannominato “Za” dagli amici, si mosse fin dai primi anni trenta nella scrittura con romanzi di stampo umoristico e satirico come Parliamo tanto di me, Totò il buono, I poveri sono matti.

 


 

Nell’opera letteraria di Zavattini c’è però un unicum, che ad oggi è rimasto tale anche per quanto riguarda la poesia dialettale italiana: è il caso della raccolta di poesie del 1973 “Stricarm’in d’na parola”. Si tratta infatti non solo del primo tentativo poetico e dialettale di Za, ma anche il primo e unico esempio di poesie scritte in dialetto Luzzarese.

Zavattini approdò alla poesia molto tardi, a più di 70 anni, ma questa fu una scelta che non sorprese nessuno. Era infatti solo una questione di tempo che celebrasse a tutti gli effetti il suo paese di nascita. Za era infatti legatissimo a Luzzara, anche se qui visse solo fino ai 6 anni, per ragioni diverse si trasferì prima a Bergamo, poi a Milano, e infine a Roma, ma non dimenticò mai il suo piccolo paese sul Po, al quale tornava sempre quando poteva, e appena vi metteva piede cominciava subito a parlare in dialetto con i suoi compaesani.

Ma che tipo di dialetto è quello luzzarese?
Per chi è abituato a parlare ed ascoltare il dialetto reggiano, il dialetto luzzarese verrà immediatamente associato al dialetto mantovano. Infatti per quanto riguardo l’aspetto fonologico (ovvero la pronuncia delle parole) il luzzarese ha suoni come le vocali turbate ü e ö ( suono simile alla u e o francese) che contraddistinguono il dialetto mantovano e molti altri dialetti lombardi da quelli più puramente emiliani: fiöl (anziché il reggiano fiol), pütlet (cioè bambino, putein in reggiano).

Inoltre un’altra grande differenza tra il reggiano e il luzzarese consiste nella palatalizzazione delle vocali centrali, ovvero quello che in italiano è una in reggiano assume un suono che è molto più simile ad una e. Così prato in luzzarese sarà prà anziché il reggiano prè; nascosto invece è lugà anziché il reggiano lughé.
Ulteriori particolarità del dialetto luzzarese si trovano in alcune terminazioni in u, in parole come nonu (nonno), pogiu (balcone), dopu (dopo).
Infine una caratteristica che avvicina ancora una volta il dialetto luzzarese a quello mantovano, è l’articolo femminile plurale li anziché al: a Luzzara vedremo li doni mentre a Reggio al doni.

 


 

Il dialetto che Zavattini utilizza in questa raccolta, pubblicata per la prima volta da Schwiller e poi edita nella sua versione più recente anche da Bompiani, ha delle caratteristiche tutte sue. Lo stesso Zavattini in una nota a margine nelle sue bozze scrive “In ultimo devo confessare che il mio dialetto non lo uso perfettamente. Lo parlo con voracità più spesso che posso, specie con mia madre, tuttavia le lunghe assenze da Luzzara, cominciate fin dalla più tenera età, lo hanno non so come e dove mitigato, temo.”

Ricordiamo che Za non poteva in alcun modo riferirsi ad altre opere precedenti in luzzarese in quanto fu il primo in assoluto a tentare di mettere per iscritto questo dialetto. In questa raccolta quindi troveremo anche italianismi, cioè parole derivate direttamente dall’italiano (Il sottoscritto, tran tran, angel, arcipret), forestierismi, ovvero parole che derivano dalle lingue straniere (blocknotes, caterpillar) e talvolta anche neologismi, ovvero parole di sua invenzione come tergicristo (gioco di parole tra tergicristallo e Cristo).

 

 

La prima delle 50 poesie di “Stricarm’ in d’na parola” che vi presentiamo è Da li me bandi “Dalle mie parti” uno degli affreschi più caratteristici della bassa reggiana e di Luzzara.

In questa poesia sono racchiusi tutti gli elementi più tipici e famigliari non solo a Zavattini ma a tutti gli emiliani:
dal tabarro ai “supion i soffioni, dalle biciclette che riempiono le strade, ai pioppi sulle rive del Po.

In questa come in altre poesie emerge il lato umoristico di Zavattini, mischiando la sessualità con la religione, la spiritualità con gli aspetti più terreni della vita.

DA LI ME BANDI

I par usei
la gent in bicicleta.
Apena al pé
al toca ancor la tera
a turna in ment
col ch’i evum vrü smangà.

D’cul fiur trasparent
ciamà supiòn
ag’n’é di prà.
Basta na luserta a travarsà
ch’i sa sfa.
Gh’ei sta?

Alvé la man ch’in s’ grata mai i coión.
Me am capit’ in prömavera
s’a m’inochi a vardà
li palpogni ca sbat cuntra i lampion.

I porta ancora al tabar
da li me bandi.
A ghé an vèc dal Ricovar Buris-Lodigiani
c’al sgh’invoia dentr’in fin i oc
cme s’al vrés dir
an vöi pő vedr’ansön.

Frasi ca scultava da pütlet
ié dré a sucedar propria in sla me pèl.
Mitóm: cul piop lé
al g’sarà c’ang’ sarò mia pö me.

Sl’e grand al Po.
Coi ca s’incuntra là
i sbasa sens’acorzasan la Vus,
e i arcnós,
cm’an po ad malincunia,
ca siom dabón cumpagn.

As pöl inamuraras dapartot
m’andua tsé ná dapö.
L’é mia question ad cosi ad téti no,
la dona lusaresa quand la réd,
anc da luntan,
basta parché sübét a mé l’am s’drésa
cme pr’an flaut.

*

DALLE MIE PARTI

Sembrano uccelli

la gente in bicicletta.
Appena il piede
tocca ancora la terra
torna in mente
quello che avevamo voluto scordare.

Di quel fiore trasparente
chiamato “soffione”
ce ne sono dei prati.
Basta attraversi una lucertola
e si sfanno.
Ci sono stati?

Alzi la mano chi non si gratta mai i coglioni.
A me capita in primavera
se m’ incanto a guardare
i maggiolini sbattere contro i lampioni.

Portano ancora il tabarro
dalle mie parti.
C’è un vecchio del Ricovero Buris-Lodigiani
che vi s’involta dentro fino agli occhi
come volesse dire
non voglio più vedere nessuno.

Frasi che ascoltavo da ragazzo
stanno succedendo proprio sulla mia pelle.
Mettiamo: questo pioppo
ci sarà che non ci sarò più io.

Com’ è grande il Po.
Chi s’incontra là
abbassa senza accorgersene la voce
e riconosce,
con un’ombra di malinconia,
che siamo davvero uguali.

Ci si può innamorare dappertutto
ma dove sei nato di più.
Non è questione di cosce di tette no,
la donna luzzarese quando ride,
anche da lontano,
basta perché subito a me si rizzi,
come per un flauto.

 


Vi proponiamo quindi la poesia Invcend “Invecchiando” , che contiene il titolo dato all’intera raccolta (stricarm’in d’na parola), ed è una vera e propria dichiarazione di poetica: stringersi in una parola significa preferire la brevità, esprimere concetti nell’intensità di pochi versi, ritornare alla semplicità del proprio dialetto “Invcend a vrés büta föra in dialét col co tgnü dentr’in italian”. Questa stessa poesia è caratterizzata da un grande frammentismo: battute, quasi aforismi che vanno a costituire insieme l’intera poesia.

 

INVCEND

Invcend a vrés
büta föra in dialét
col co tgnü dentr’in italian.
As pöl di töt cm’al mé dialét,
i sö sigulament
da car di bö chi turna a cà sotsira.
Pr’esempi:
“Sul gnüatr’a saiòm
col ca tulóm e dóm.”
An gal mia dal tambör?
St’atar: “S’avdésu al me paés sota la nev
avresu esag na.
Duls: “Cun na panlada sul
piturà al ciel da Lusèra a Gualtér.”
Duls duls: “An segn drét in s’an foi
l’e la pianüra.”
Intim (a patés d’insonia):
“Sa pudés stricarm’in d’na parola
a durmirés.”
Ah cost, a l’o apena squacià:
“L’e pusibil sufri sensa capi.”
Vriv quel d’sucial?
“Unomas finalment cuntra tant casu.”
Avdi, töt as pöl dì.
Del.
Sré la porta.
Fat. Alura?
Spudèm in facia: an parli mia.
Parché?
A go paura.
Ad chi?
Dal melanövsentstantatri.
Cardì, sempar da po’
an’ag siöm mia
e a sg’abituóm

*

INVECCHIANDO

Invecchiando vorrei

buttare fuori in dialetto,
certe cose tenute dentro in italiano.
Può dire tutto il mio dialetto,
coi suoi cigolamenti
da carro dei buoi che torna a casa sottosera.
Per esempio:
“Solo noi sappiamo
ciò che prendiamo e diamo”.
Non ha del tamburo?
Un’altra: ”Se vedeste il mio paese sotto la neve,
vorreste esserci nati.”
Dolce: “Con una pennellata sola
pitturare il cielo da Luzzara a Gualtieri.”
Dolce dolce: “Un segno dritto sul foglio
è la pianura.”
Intimo (soffro d’insonnia):
“Se potessi stringermi in una parola,
dormirei.”
Ah questo, proprio fresco:
“E possibile soffrire anche senza capire.”
Volete qualche cosa di sociale?
“Uniamoci finalmente contro tanto caso.”
Tutto si può dire, vedete.
Dillo.
Chiudete la porta.
Fatto. Allora?
Sputatemi in faccia, non parlo.
Perché?
Ho paura.
Di chi?
Del millenovecentosettantatré.
Credete, sempre più
non ci siamo
e ci si abitua.

 


 

Infine Zavattini cerca di riassumere in sole dieci parole il suo paese in “Sot’al portag”, “Sotto al portico”di nuovo una descrizione di Luzzara, tra immaginazione e realtà, parole che hanno suoni tipici del dialetto di quella terra, a metà tra Reggio e Mantova, un nuovo modo per condensare in dieci termini tutto un mondo. “In sustansa al me paes l’è des paroli

 

 

SOT’AL PORTAG

Sot’al portag, long
men d’cent metar,
a fag a temp
pröma d’rivarg ‘in fond
a pansà:
1) chi mantés sira e matina
al s’cata na volta in dla vrità
cme n’arloi ferum
2) al me trop preocüparam
dla gent
(che muviment, che cambiament d’cravati)
3) o masà cm’al panser,
pantì avrés esar lincià
da coi pès ad mé
4) quanti robi ca so
chiatar no
quanti chiatar i patès
me no
5) ringrasià la sort
che Mafalda la canta
quand la lava
i pagn dal padron,
l’è vec, l’argata,
peró in dal coro
a morte a morte c’al vé da la cantina
am par d’arcnosar la sö vus
6) in sustansa al me paés
l’e dés paroli:
arzan piarda la cuperativa
paièr ca brüsa, lingöria,
la man survulanta tra li braghi
d’na dona anca sopa
in dla cuntrura,
al Po al vé föra
sansali vén cot
al lös in sl’a tor
c’al s’lamenta
vers Milan o Türén
second al vent
7) scapà in campagna, a par
d’esar gnü al mond a godar
dl’asensa dl’om,
specie s’at camini
an dua ghé arà
8) parlà cun Diu?
am sum sgarapa: na volta al scultava in devusion
sensa saver
ch’i era paroli c’ag miteva in boca me!
A resta ancor di arcadi,
gn’avres da cuntarav e mia a cardresu,
cost l’è al mé dulur,
dal paiàs am daresu.

*

SOTTO IL PORTICO

Sotto il portico,

lungo meno di cento passi,
si fa in tempo
prima di arrivarci in fondo
a pensare:
1) chi mente sera e mattino
si trova una volta nella verità
come un orologio fermo
2) il mio eccessivo preoccuparmi
del giudizio degli altri,
(che tramestio, che cambio di cravatte)
3) riconoscere che ho ucciso col pensiero,
pentito vorrei esser linciato
da chi è peggio di me
4) quante cose che io so
e gli altri no
quante gli altri patiscono
io no
5) ringraziare la sorte
che Mafalda canta
quando lava
i panni del padrone,
è vecchio, talvolta dà di vomito,
però nel coro
a morte a morte proveniente dagli scantinati
riconosco la sua voce
6) in fondo il mio paese
è una decina di parole:
argine piarda la coperativa
pagliaio che brucia, la cocomera,
la mano sorvolante tra le brache
d’una donna anche zoppa
nella controra,
il Po straripa
zanzare vino cotto
il luccio sulla torre
che si lamenta
verso Milano o Torino
a seconda del vento
7) scappare in campagna, sembra
di essere venuto al mondo per godere
dell’assenza dell’uomo,
specie se cammini
sulla terra arata
8) parlare con Dio?
mi sono scantato: una volta lo ascoltavo in devozione
e non sapevo
che quelle parole gliele mettevo in bocca io!
Ci sono ancora metà arcate,
un sacco di roba da raccontarvi e non ci credereste,
questo è il mio dolore,
del pagliaccio mi dareste.

 


Scheda redatta dalla Dr.ssa Elena Belli

Bibliografia
Cesare Zavattini, Opere 1931-1986 – Introduzione di Luigi Malerba. Bompiani, 1991.
Elena Belli, Lo Zavattini dialettale di “Stricarm’in d’na parola”, Tesi di Laurea
Relatore Fabio Marri, Correlatore Gino Ruozzi.


 

È per noi di Léngua Mèdra un vero piacere condividere questa testimonianza dell’incontro avvenuto nel 1980 tra il nostro Rolando Gualerzi e Cesare Zavattini, nella sua casa di Roma.
La fotografia è di Oliver GAGLIANI, grande fotografo italoamericano.

 


 

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