Denis Ferretti
L’appartenenza a un territorio, anche se in una zona circoscritta e con confini politici che sono cambiati nel tempo, fa entrare anche l’idioma parlato nel tessuto della tradizione del luogo che lo ha forgiato, specialmente quando sono forti i riferimenti ad antichi mestieri in ambiente rurale, tanto da sviluppare una tipicità in sintonia con altre lingue che condividono la stessa estrazione sociale. È nella lingua locale che si ha la definizione più precisa dei prodotti tipici, spesso a denominazione di origine controllata e oggetto di tutela.
È paradossale che i prodotti del luogo d’origine legati all’agricoltura, alla zootecnia, alla tradizione culinaria, all’architettura e al paesaggio siano tutelati e valorizzati, mentre la lingua locale dello stesso ambiente e con una identica antica tradizione e valore culturale sia rivestita solo di una considerazione marginale e trascurata per il fatto di non essere oggetto di compravendita e perciò difficilmente sfruttabile in termini di produzione di reddito.
Le lingue locali sono invece elementi integranti della cultura della nostra provincia in quanto sono il mezzo naturale con cui si dà espressione al lavoro, ai mestieri, alle specie locali e alla quotidianità che si intende valorizzare. Hanno una storia millenaria in cui, attraverso un processo perfettamente naturale, si sono perfezionate per adattarsi completamente alle esigenze comunicative presenti sul territorio di riferimento. Il livello di efficacia e di perfezione ha raggiunto il suo apice e di conseguenza iniziato il suo declino con l’arrivo della lingua nazionale, politicamente imposta e diffusasi rapidamente anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione moderni e alle mescolanza di popolazioni che, con i nuovi sistemi di trasporto, si spostano agevolmente anche tra zone molto lontane.
Purtroppo il declino è stato rapido e questo ha avuto un impatto negativo sul livello culturale generale e sulla capacità di espressione.
L’attuale ultima generazione in vita era arrivata a poter esprimere nella propria lingua concetti molto complessi con un lessico ricco, preciso e articolato. Laddove è presente una cultura, il ruolo della lingua dove questa cultura si è sviluppata è determinante e il suo legame al territorio è parte integrante della cultura stessa.
Le varietà linguistiche locali presenti sul nostro territorio sono a tutti gli effetti delle vere e proprie lingue, come lo sono tutte quelle che si sono sviluppate naturalmente negli altri paesi.
Le lingue ufficiali quali l’italiano, il francese, il tedesco e tutte le altre che sono state scelte per la comunicazione nell’ambito delle nazioni riconosciute sono di fatto dei semplici dialetti ovvero delle lingue naturali che per una serie di fattori, che possono essere rappresentati da una posizione centrale, un particolare prestigio, il ruolo dominante della minoranza di parlanti autoctoni o la presenza di una letteratura ricca, sono stati studiati, osservati, catalogati, stabilendo uno standard grafico e imponendo il loro uso a tutti i paesi confinanti. L’ufficializzazione, l’insegnamento nelle scuole e la diffusione in territori molto vasti attraverso i nuovi mezzi di comunicazione hanno poi fatto tutto il resto, facendo in modo che queste lingue sviluppassero una loro storia e iniziassero un loro percorso. Non esistono però lingue a grande diffusione completamente studiate a tavolino o create artificialmente.
Ogni lingua ufficiale, una volta divenuta il principale mezzo di comunicazione, anche attraverso imposizione politica, tende comunque poi a differenziarsi in tante varietà distribuite sul territorio. Ogni paese finisce per personalizzare la propria fonetica e il proprio lessico per l’influenza di altre lingue precedentemente parlate, per effetto dei flussi migratori, per dinamiche sociali o semplicemente per una deriva linguistica mai del tutto controllabile. L’assetto naturale della lingua non è infatti quello del monolinguismo, ma quello del plurilinguismo. Se ascoltiamo l’italiano parlato dalla gente di Udine noteremo un accento e un lessico diverso da quello che possiamo trovare a Siracusa o a Bari o a Torino. Chi pronuncia le vocali più aperte, chi fa raddoppiamento fonosintattico e chi no, chi ha una certa “cantilena” che altri non hanno. Ci sono differenze di pronuncia, ma anche differenze di lessico. Tanti termini che siamo abituati a considerare sinonimi, di fatto non vengono mai utilizzati in certe regioni, pur se li si sente nominare in TV ogni giorno. Nel nostro italiano regionale non usiamo quasi mai la parola “nulla”, che è invece è molto diffusa in Toscana. Noi preferiamo dire “niente”. Non usiamo quasi mai “accanto” per dire “vicino”. Ci sono anche differenze nella grammatica: in molte regioni il passato remoto non si usa mai. In altre si usa l’articolo determinativo davanti ai nomi propri femminili e lo fanno persino i professori a scuola: “oggi interroghiamo *la* Daniela”. Può sembrare un modo scorretto di parlare, ma in ambito locale è percepito come un approccio familiare, cordiale che mette a proprio agio. Un professore che parla come noi ci fa capire che sta lavorando insieme a noi e non lo sentiamo estraneo o distaccato come un’entità che vuole solo giudicarci. Una pronuncia ipercorretta sul calco dei doppiatori cinematografici anche se usata da un professore rischia di avere un effetto “call center”. L’interlocutore ci sembra distante da noi e ci dà l’impressione che voglia “venderci qualcosa”. Per ogni situazione c’è un registro linguistico ideale.
Le lingue locali presenti sul nostro territorio hanno tutte le caratteristiche appena esposte che, come detto, sono proprie dell’italiano come di qualsiasi altra lingua. Funziona così pressoché ovunque. La mancanza di uno standard grafico non significa che manchi uno standard orale e una grammatica con regole proprie ben assimilate che ogni parlante porta dentro di sé. I bambini, d’altronde, imparano a parlare ben prima di imparare a scrivere e, superata una prima fase in cui possono fare qualche errore, con poche correzioni degli adulti imparano a parlare correttamente senza fare errori di grammatica pur non avendola mai studiata. Lo stesso accadeva ai nostri antenati che parlavano la loro lingua senza fare errori di grammatica.
La mancanza di uno standard grafico riconosciuto e l’abitudine di far riferimento all’italiano tendono ad ampliare la nostra percezione di diversità tra la lingua parlata in un paese è quella parlata nel paese confinante.
Trascrivere le parole con grafie diverse, per esempio “brùt, brót o bröt” per brutto, dà l’impressione di essere di fronte a tante lingue diverse. Nessuno invece si sognerebbe mai di dire che due italiani parlano una lingua diversa solo perché pronunciano in quattro modi diversi la parola “Bologna”, chi pronunciando aperta o chiusa la prima e/o la seconda O, chi pronunciando la gn in modo marcato come fosse doppia, chi allungando la vocale tonica.
Insomma, ciò che succede nei nostri “dialetti” non è niente di diverso da ciò che capita in qualsiasi altra lingua e la differenza tra uno e l’altro è come la ricetta del pesto per i cappelletti. Ognuno ha la sua e nessuna è meglio dell’altra, ma tutte caratterizzano il proprio prodotto e lo rendono spesso migliore di un equivalente industriale omogeneo dai due poli all’equatore.
Così come si sono recuperati i borghi antichi e si conservano le vecchie ricette, così come si considerano i prodotti artigianali come oggetti preziosi, e gli antichi mestieri delle forme d’arte da preservare, sarebbe importante che allo stesso modo ci si preoccupasse di non perdere le lingue che ci hanno accompagnato per lunghi anni.
Questo non significa dimenticare l’italiano e non imparare l’inglese, il cinese o altre lingue del futuro. Poter fruire di nuove opportunità non deve necessariamente farci cancellare le nostre origini. Due o più lingue possono convivere sullo stesso territorio senza problemi. Il plurilinguismo è soltanto una ricchezza.
Caratteristiche delle lingue locali reggiane
Il sistema linguistico emiliano è caratterizzato da un complesso vocalismo. Come prosecuzione del latino, ha mantenuto la struttura vocalica latina che già differenziava lunghe e vocali brevi.
In italiano il sistema latino ha generato un sistema di 7 vocali e due dittonghi. “É”con suono chiuso ed “È” con suono aperto, così come le equivalenti “Ó” ed “Ò” sono però indicate solo sui dizionari, come pure l’accento tonico, che nella scrittura normale è espresso graficamente solo nelle parole tronche. Questo permette di mantenere un minimo di variabilità naturale per alcune parole. Infatti pur essendo prevista una pronuncia standard indicata come “corretta”, questa è largamente disattesa nell’italiano regionale e provinciale. A Reggio è nettamente prevalente la dizione “ròsso”, nonostante lo standard dia indicazioni per “rósso” come pronuncia corretta. E questo avviene per numerose altre parole. A parte queste piccole variazioni, la pronuncia delle vocali in italiano è abbastanza omogenea. La pronuncia locale differenzia il grado di apertura di E e di O o la lunghezza delle vocali, ma la qualità è mantenuta pressoché costante indipendentemente dalla posizione tonica o atona e con pochissime influenze delle consonanti che precedono o seguono le vocali stesse.
Per i dittonghi “ie” e “uo”, è abbastanza frequente un’alternanza vocalica nel passaggio da posizione tonica a posizione atona, nelle alterazioni dei nomi o nella coniugazione dei verbi. Per esempio “uomo” e “ruota” che generano i diminutivi “omino” e “rotella” in cui il dittongo sparisce, o i verbo “sedere” e “tenere” che si coniugano “siede” e “tiene” all’indicativo della terza persona evidenziando il dittongo in posizione tonica.
Nelle lingue locali emiliane invece l’esito della prosecuzione del latino ha dato origine ha un vocalismo molto più articolato con differenziazioni molto marcate tra una zona e l’altra e i fenomeni di alternanza vocalica non sono più episodici, ma sono la norma non solo per i dittonghi, ma per tutte le vocali.
Altra caratteristica comune a tutte le varietà è la differenziazione tra il suono presente in sillaba aperta (cioè seguito da una sola consonante) e quello in sillaba chiusa, ovvero seguito da particolari gruppi di consonanti che nel passaggio latino italiano hanno portato spesso al raddoppiamento consonantico.
Nelle nostre lingue locali, il raddoppiamento consonantico non è evidenziato foneticamente ma è la vocale che variando di lunghezza o qualità del suono, ci indica la presenza degli antichi gruppi consonantici latini.
Il sistema vocalico reggiano, pur di chiara derivazione latina, nel complesso si presenta più vicino a una logica anglosassone. Pensiamo alla lingua inglese in cui la lettera A può avere sei suono diversi nelle parole Alive, orAnge, wAsh, mAn, gAme e cAr e questo in perfetta sintonia con un seppur non rigido standard di pronuncia.
Anche le vocali latine passando al reggiano hanno esiti diversi in base alla loro posizione tonica o atona. A loro volta le atone si differenziano a seconda che siano pretoniche, post-toniche o finali di parole, mentre le toniche possono avere quattro varianti a seconda che siano nasali, finali di parola, e come in latino avere un suono breve o lungo. Non tutte le varietà differenziano “tutte” queste combinazioni. In alcuni casi, certi esiti si fondono in un unico suono, ma ogni singola varietà sceglie quali suoni fondere e quali tenere separati e anche quale qualità e lunghezza dare a ogni vocale. L’esito finale, comunque, non è mai completamente casuale, ma spesso c’è un influenza delle varietà vicine e come è logico aspettarsi, è semplicissimo comprendere le varietà che distano pochi chilometri, ma diventa leggermente più complesso comunicare senza incomprensioni con varietà molto distanti, se non si ha familiarità con suoni sconosciuti.
Anche se facenti parte di un sistema linguistico di assetto ben più ampio, le varietà presenti sul territorio reggiano mostrano una considerevole variabilità ed è possibile costruire una sorta di continuum di variazioni tra Il Po è il crinale e tra l’Enza e il Secchia attraverso un processo di modificazioni progressive.
È sicuramente più interessante per tutti vederle nel dettaglio piuttosto che continuare a parlarne in modo generico e distaccato. Vediamo perciò che cosa capita ai nostri suoni vocalici latini.
La A latina (ā, ǎ)
La vocale A presente nelle parole latine, in posizione tonica, nel reggiano di città mantiene il suono originale solo quando è accentata finale di parola, nelle parole tipo “baccalà, papà” o nei tempi futuri alla terza persona come “dirà”, “farà” ecc., escludendo i suffissi “ità”, che si rifanno a un antico libertate/libertade e richiamano perciò un suono lungo.
Il suono nasale prima della N seguite da vocale o da consonante sorda resta abbastanza fedele alla fonetica italiana, seppur con una diffusa tendenza alla pronuncia velare della N tanto più frequente quanto più ci si sposta verso ovest.
Negli altri casi la A latina nel reggiano di città può avere due esiti: il suono allungato [a:] delle parole “gatto”, “latte”, “fatto”, “fiasco” che prendono rispettivamente la forma di [ga:t], [la:t], [fa:t] e [fja:sk] e il suono di “e” semiaperta altrettanto allungata delle parole “male”, “salto”, “caso” che diventano perciò [mɛ:l, sɛ:lt, kɛ:z]. La A pretonica suona come la A italiana (es. malê, cavâl = malato, cavallo), la A post-tonica è una “e” aperta (es. sândel, cânten = sandalo, cantano) e la a finale di parola è identica all’italiana (gâta, sêla = gatta, sala).
Lungo il territorio provinciale però queste “regole” subiscono parecchie variazioni. Il suono corrispondente all’ [a:] cittadino tende a rimanere piuttosto stabile, ma in alcune varietà, specialmente verso la montagna e a Ovest può tramutarsi in un suono breve [gat, fat, fjask]. Il suono [ɛ:] ha variazioni più forti e tende a stringersi da ovest a est lungo la via Emilia e poco nella parte centrale della provincia diventando una vera e propria e chiusa [e:] nelle aree tra Cavriago e San Polo dove viene meno la coppia minima “lava-leva” resi entrambi con [le:va]. Rimane il suono più aperto il suono prima della R, permettendo perciò di distinguere “cantiere” da cantare [kan’te:r / kan’tɛ:r]. Il suono più aperto prima della R è tipico di molte altre aree in tutta la parte centrale della provincia dove le parole “cantare, mare, fare” suonano spesso come [kan’tæ:r, mæ:r e fæ:r].
Da nord a sud, le variazioni sono ancora più ampie. Nei comuni di Reggiolo, Luzzara, Guastalla, Boretto e Gualtieri (escluso Santa Vittoria), la [ɛ:] reggiana diventa una [a:] eliminando la coppia minima “caro-carro” resi entrambi come [ka:r]. Il suono [ɛ:] rimane in questa zona per i derivati latini del suffisso “arium” divenuto “aio” in italiano (fornaio, gennaio, pollaio) che rimangono [fur’nɛ:r], [znɛ:r] e [pu’lɛ:r]. Il passaggio da [ɛ:] ad [a:] è secco. Non ci sono suoni intermedi, probabilmente perché divide realtà storicamente separate anche politicamente. Il Ducato di Guastalla è stato separato da Reggio fino alla metà del Settecento e precedentemente era accorpato a Parma e Piacenza a loro volta separate da Modena e Reggio.
Dal centro verso sud, si ha pure un ritorno alla [a:], documentato come suono antico e modificatosi solo lungo la via Emilia dove l’influenza di Bologna è più forte. In questo caso però il passaggio è più graduale. Le vocali intermedie tra [a] ed [ɛ:] sono già nel distretto modenese, ma anche nel nostro medio appennino sono presenti suoni turbati di a come [ɐ:] ed [ɑ:] e quando si arriva alla massima apertura [a:] resta comunque la separazione nella coppia minima “caro-carro” [ka:r, kar].
La a atona post tonica tende passa da [ɛ] ad [a] avvicinandosi al Po, in alcuni casi con apertura graduale (continuum di suoni intermedi) in altri casi attraverso una sovrapposizione con aree in cui le due modalità sono percepite entrambe come corrette.
La a finale di parola resta identica alla a italiana su quasi tutto il territorio provinciale, fatta eccezione di una vera e propria “isola dialettale” costituita dalla frazione di Arceto (comune di italiano) che adotta una pronuncia in cui il suono si trasforma in una E piuttosto aperta: [‘ga:tæ, sɛ:læ] per gatta e sala. Sono presenti fenomeni analoghi nel parmigiano.
La ī latina
La vocale latina a cui generalmente si riconducono le “i” delle parole italiane nel reggiano di città ha dato esiti leggermente più diversificati. Innanzitutto, abbiamo un suono differenziato prenasale [æj o [ɛj] tipico per esempio di tutti i diminutivi che corrispondono all’ -ino italiano, ma presente anche in molte parole che non sono affatto diminutivi, come “vino” [væjn] o cantina [cantæjna]. Sempre in posizione prenasale questa vocale però è resa con [i:] se la consonante se è preceduta da c o g (sia gutturali che palatali) o da gn, j e gl. Esempi: facchino= [fa’ki:n], bagnino = [ba’ɳi:n], pastiglina = [pasti’ʎi:na].
In posizione non nasale e tonica invece possiamo avere tre esiti: [i:] in parole come filo [fi:l] o giro [dʒi:r] oppure [e] in parole come fritto [fret] o birra [‘bera] e [i] (anticamente [ej] nel dittongo corrispondente all’italiano “ia”, come “fantasia” [fanta’zia], “Maria” [ma’ria] e “mia” [‘mia]. All’inizio del secolo scorso, queste ultime parole suonavano come [fanta’zeja], [ma’reja] e [‘meja]. Il suono [e] è anche il suono tipico della ì accentata fine di parola: venerdì = [vener’de], sì = [se]
In posizione atona oggi la ī latina tende ad assumere il suono italiano sia pretonica che post tonica. Es. finire = [fi‘ni:r] o macchina = [‘ma:kina]; nelle parole più antiche però è ancora possibile trovare tracce della vecchia abitudine di sincopare le pretoniche (sgranfignare = [sgranf‘ɳæ:r]) e il suffisso “-ico” delle parole più vecchie è reso in -egh, sonorizzando la consonante e sostituendo la i con la vocale eufonica ɛ. Esempi: carico [‘ka:rɛg], manico [‘ma:nɛg]. A queste parole si contrappongono quelle più “moderne” che rendono questo suffisso in “ik”: automatico [awtɔ’ma:tik], fisico [‘fi:zik]
La i finale di parola può avere diversi esiti, ma tendenzialmente tende a sparire (in particolare nei plurali maschili), mentre resta come in italiano nei plurali femminili degli aggettivi e in molte parole “moderne” come “avanti”, “quindi” e “tardi” che sono di fatto dei prestiti dall’italiano. Ma molte parole si mostrano con desinenze che si rifanno al neutro latino o ad antiche parole preromanze: fuori, magari, pari, per esempio hanno desinenza in -a.
Fuori dal centro storico riscontriamo alcune differenze che contribuiscono a differenziare le varietà locali. Il suono differenziato nasale, per esempio, che già all’interno del comune è soggetto a variazioni oscillando tra [æj] ed [ɛj]. Andando verso nord il suono tende a stringersi sempre più fino a ridursi a [ej] in molte varietà prossime a Novellara per poi perdere la dittongazione [e:n] fino ad arrivare alla [i:n] di Guastalla dove il suono perde ogni differenza con il corrispondente non nasale, ma passando attraverso a una fase intermedia in alcune varietà presenti nei comuni di Reggiolo e Luzzara dove la forma [en] è mantenuta solo nei maschili generando perciò parole come “ven” contrapposto a “galina” (vino, gallina).
In senso est-ovest invece la tendenza è quella di eliminare il dittongo spostandosi verso ovest. Se in prossimità del Secchia il dittongo è presente e con vocale ben aperta [væjn], spostandosi verso l’Enza la vocale tende dapprima a stringersi [vɛjn] e poi a nasalizzarsi [vɛ̃] con pronuncia velare della “n” che arriva pian piano a fondersi nella vocale stessa.
In territorio montano la realtà è molto più complessa e frastagliata, ma in generale si ripropongono seppure in modo più disordinato i fenomeni descritti in pianura. Nella parte ovest restano più presenti i suoni nasali e, sempre attraverso il passaggio da [vɛjn] si arriva a [vɛ̃], [vẽ] e poi [vĩ] sull’alto crinale. Nella parte c’è prima un restringimento della vocale [vɛjn], poi la perdita del dittongo [vɛn] [ven] fino a veder riproposta la situazione guastallese [vi:n] e [gali:na] non più sul crinale, ma già a partire dal medio appennino (pur con andamento oscillante e tante particolarità locali).
Un’altra diversificazione che può riguardare il suono prenasale è la scomparsa della divisione tra [i:] ed [æj] presente in città con l’estensione del suono dittongato o nasale (a seconda della zone) a tutte le parole indipendentemente dalle consonanti presenti. Nelle zone a ridosso del Secchia è frequente trovare [fa’kæjn, fa’kein, fa’kɛn] per “facchino”.
Nelle sillabe non nasali, le variazioni sono più ridotte. Il suono [i:] in particolare è mantenuto costante in tutto il territorio provinciale, dal Po al crinale e dall’Enza ben oltre il Secchia.
Il suono [e] invece può subire qualche limitata variazione. Innanzitutto, la variabilità ha un andamento separato se si considera il suono finale di parola e quello di sillaba interna. Il passaggio da [fret] a [frit] nella parola corrispondente all’italiano “fritto” avviene sulla via Emilia in corrispondenza della località “Gaida” e divide in due la linea “frìt/frét” divide in due il comune di Campegine. Per avere il suono [i] in “sì” però bisogna andare oltre Enza. O risalire lungo l’Enza fino al medio appennino. L’isoglossa [e]/[i] si sposta leggermente a est se si procede verso l’appennino, soprattutto secondo la nostra percezione. In realtà è la nostra provincia a essere leggermente inclinata anche se siamo abituati a considerarla allineata ai punti cardinali. Nella zona centrale comunque è presente una curvatura un po’ atipica che fa in modo di far rientrare in zonoa [i] il comune di Cavriago che, pur essendo a ridosso di Reggio, ha una sua area di influenza. Sorprendentemente in alcune zone è possibile trovare suoni in pozione finale più aperti che in città [ɛ] anche in direzione ovest. Per esempio, in tutta l’area Montecchio-San Polo-Ciano fino all’alto appennino “sì” è pronunciato [sɛ].
A est il suono [e], salvo rare eccezioni, resta tale e quale alla città da Guastalla fino all’alto appennino in posizione non finale, mentre in pozione finale è tipica l’apertura nei comuni della bassa già a partire da Bagnolo e Correggio (sì = [sɛ]) e più tra i vecchi rispetto ai giovani che tendono invece ad adeguarsi sempre più alla pronuncia cittadina. Le rare eccezioni fanno riferimento all’influenza carpigiana dove il suono è [ɪ], cioè non proprio identico a quello del versante ovest, ma comunque stretto e “soprattutto” percepito come “i” dai locali che lo scrivono come tale, probabilmente perché è un suono utilizzato anche nella loro pronuncia regionale dell’italiano. In questo caso il passaggio [e]-[ɪ] non è netto, ma un crescendo di suoni intermedi e altalenanti. Nella confinante Correggio, per esempio, si dice [fret], mentre il [frɪt] carpigiano lo ritroviamo a Fosdondo e in frazioni più centrali.
Sempre nella bassa è frequente la variante [‘ea] del cittadino [‘ia] (es. “mìa”, diventa “méa” a Novellara e dintorni), mentre la variante “méja” (e dI tutti gli altri suoni in éj) più che dalla posizione geografica sono è influenzata dal grado di contaminazione con l’italiano e dal contatto con altre varietà dialettali. Il suono [ej] è di fatto un suono “antico” ed è presente nelle varietà più conservative, quindi nei paesini isolati, frequenti in montagna ma presenti anche in pianura.
Anche per quanto riguarda le diversificazioni della “i” in posizione non tonica a farla da padrone è la distinzione tra “vecchio e nuovo”. Non ci sono infatti differenze legate alla geografia. Nei paesi isolati, sia in montagna che in pianura, resistono più a lungo le forme antiche con la sincope della i pretonica (quindi “fnîr” anziché finîr) e con la vocale eufonica universale nei suffissi post-tonici (es. “nobel” anziché “nobil” per “nobile”). Nel medio appennino è frequente una pronuncia più chiusa (quasi una “e”) della i finale. Questo suono in molte varietà distribuite nei comuni di Casina, Carpineti e Castelnovo Monti, storicamente era riservato ai plurali femminili, ma col tempo si è esteso in molte zone a tutte le “i” finali, comprese quelle derivate dai suffissi – ium e -ius latini che si risolvono solitamente nell’italiano “io”. (es. stadio = [‘stade] o [‘sta:dɪ] a Castelnovo Monti e Carpineti).
Le evoluzioni dei suoni œ, æ, ĭ, ē ed ĕ latini
I suoni latini œ, æ, ĭ, ē ed ĕ si sono evoluti nell’italiano standard nei suoni di “è” (aperto), “é” (chiuso) e nel dittongo “ie”. Malgrado l’italiano regionale, nella nostra provincia ancor di più che nelle confinanti si discosti notevolmente dall’italiano standard, nei dialetti, paradossalmente, c’è una buona aderenza a queste tre derivazioni presenti nelle antiche lingue preromanze, anche se, ancora una volta, non si ha un solo suono costante per tutte le posizioni, ma suoni differenziati a seconda della posizione atona (pretonica, post-tonica e finale) o tonica (nasale, o differenziata “esattamente” come precedentemente visto per la vocale A.
La é chiusa reggiana (ĭ latina) nel reggiano di città si presenta quindi in due modalità: [æj] in parole come “mese” o “pelo” che diventano [mæjz] e [pæjl] oppure [æ] in parole come “freddo” o “fresco” [fræd, fræsk].
In posizione nasale mantiene il suono [æj], come avviene in tutte le parole a suffisso -mente (malamente = [mala’mæjnt]) mentre in posizione pretonica tende a essere sincopata (sparire). Pelare = p‘lêr [plæ:r], segnale = s‘gnêl [sɳɛ:l]. In caso di difficoltà di pronuncia, è possibile mettere una ɛ o una a eufonica spesso posizionata prima della consonante che precede la vocale eliminata. Tremare = [tɛrmæ:r]; Finale di parola è normalmente eliminata, almeno che non rappresenti in un plurale femminile una parola che termina in “a”. In questo caso è pronunciata come una “i” per le parole che hanno un corrispondente maschile (es. “gatte” = “gâti” ) e oggi sempre più spesso anche negli altri casi (es. vacche = “vâch” oppure “vâchi”)
Finale accentata dà l’esito [ɛ] che è identico anche per la corrispondente aperta (re e caffè diventano [rɛ] e [ka’fɛ]).
La “è” aperta italiana che si rifà alla “e” latina nel reggiano standard ha un suono nasale corrispondente al precedente [æjn] che diventa una [i:] in caso sia preceduto da c, g (sia con suono duro che dolce), da gn, da j o gl e alterna in “i” passando a posiziona atona a seguito di alterazioni. Esempi: [pæjnsa] (pensa), [pa’sji:nsa] (pazienza), [pinsæ:r] (pensare).
Negli altri casi può essere resa con [e:] in parole come [zve:lt] (svèlto) o [le:va] (lèva) oppure [æ] in parole come [‘tæra] (terra) o [‘bæla] (bella), sovrapponendosi quindi al corrispondente alla é italiana.
Anche in posizione pretonica è soggetta a sincope (terrazza = t‘râsa [tra:sa]) mentre in posizione post-tonica, genera vocali eufoniche indipendentemente dalla posizione occupata (anche finale). La vocale eufonica post-tonica tipica del reggiano di città è la ɛ.
Esempi: padre [‘pɛ:dɛr], genere [dʒænɛr], lettera [‘læt:ra],
La æ latina alla base del dittongo “ie” italiano si risolve nel reggiano di città in un suono [e:], completamente sovrapponibile a suono di cui abbiamo parlato a proposito della “e” aperta, ma distinto dal fatto che passando alla posizione atona, le parole più antiche alternano in “i”. Un mestiere diventa [un mi’ste:r], ma un “mestieraccio” (lavoraccio) diventa [un misti‘ras].
Allontanandoci dal centro, come si può facilmente immaginare, le variazioni relative a ogni singola espressione delle varie “e” genera una realtà incredibilmente articolata.
Le prime diversità che possiamo notare riguardano la sparizione dei dittonghi e la nasalizzazione delle vocali da una parte, contrapposta alla scomparsa della differenziazione dei suoni nasali dall’altra, analogamente a quanto abbiamo visto per la vocale “i” in città porta allo stesso esito della “e” limitatamente alle nasali differenziandosi quindi solo nell’area guastallese e in molte frazioni della montagna, dove “vena” e “vino” divengono “vena” e “vîn”.
La seconda differenziazione riguarda la scomparsa della coppia minima “se: / sæj” (6 / sete). Nella bassa già a partire da Bagnolo e Correggio e nel primo appennino il dittongo [æj] o [ɛj] sparisce e si fonde col suono [e:], quindi “mese” e “pelo” divengono [me:z] e [pe:l]. Il numero “sei” però in molte varietà della bassa si mantiene differenziato mutando in [se:z], chi dice per il mantenimento di una consonante latina, chi per emulazione del numero “dieci” [de:z]. Nelle aree più vicine al centro è invece il vocabolo “sete” a mantenere il suono reggiano anche quando altre parole come [prima’ve:ra] e [fe:rma] hanno perso il dittongo. Nei comuni confinanti con Reggio si nota oggi spesso una situazione intermedia, con un numero sempre maggiore di vocaboli a dizione cittadina che penetrano nel parlato quotidiano degli abitanti. Persino a Novellara si sentono già sporadicamente delle espressioni del tipo “chi s in frèiga” (chissenefrega) di chiara matrice “fonetica” reggiana. E sottolineo “fonetica”.
Sul crinale invece questi suoni possono assumere una forma turbata [prima’və:ra], [mə:z] ecc. e ancora una volta ritroviamo sonorità che possiamo risentire nel mantovano.
Per quanto riguarda la seconda espressione sonora della “e”, allontanandoci dal centro, assistiamo a un fenomeno opposto. Ovvero, allo sdoppiamento, in questo caso, del suono corrispondente alla “è” italiana aperta e quello corrispondente alla “é” italiana chiusa che in città confluiscono in [æ] / [ɛ] ma sono differenziati sia a Parma che a Modena. I modenesi riservano alla variante aperta il suono lungo [ɛ:] eliminando in questo modo la coppia minima “sella/sala” ([‘sɛ:la] per entrambi). I parmigiani ricorrono a un suono lungo ma più stretto [e:] eliminando la coppia minima “fiera/ferra” (la ferra è la nostra falce per l’erba) rendendoli entrambi [fe:ra], fomentando l’abitudine dell’utilizzo del diminutivo “frénna” per distinguere i due vocaboli.
Nella provincia reggiana sono presenti diverse varietà che si adeguano al sistema modenese o parmigiano. Il primo è presente in particolare nell’area di Guastalla e lungo il confine modenese nella parte più settentrionale della provincia. Si interrompe in centro (da Correggio, a Rubiera, fin oltre Castellarano) e riprende nelle varianti del medio appennino confinanti col modenese. Il secondo modello è presente in alcune parlate della bassa a ridosso dell’Enza e sporadicamente in alcune varianti montanare. Mentre lungo tutto il corso dell’Enza nella parte reggiana resta un suono solo per le e di “freddo, fresco, bello e letto”
Nei suoni brevi la differenza tra [æ] ed [ɛ] è già presente in città e ha un andamento piuttosto ballerino anche a causa dell’instabilità residenziale e della eterogeneità delle famiglie moderne. Ampliando il territorio di riferimento le differenze sono ancora più marcate. Si va dalla [a] pura di molte varietà di montagna [frad, frask], ma anche in pianura specialmente verso il confine modenese, fino alla [e] stretta [fred, fresk], sporadica in pianura (es. a Rolo) e più frequente in montagna in particolar modo nelle aree in cui è presente il suono [i] per la “i” breve.
Il suono accentato finale di parola è invece [ɛ] pressoché ovunque mentre il suono [e:] per il dittongo “ie” italiano è altrettanto stabile con l’eccezione di un’unica “isola dialettale” costituita da Arceto [‘ia] o [‘iæ] se finale di parola e Salvaterra che ha solo la prima opzione.
A dire il vero questi suoni che in passato avevano interessato solo le parole riconducibili al dittongo “ie” italiano, interessano oggi quasi tutto ciò che in territorio reggiano ha il suono [e:]. La coppia minima “mistero/mestiere” è oggi risolta paradossalmente con il mantenimento del dittongo dove l’italiano non l’ha: [mis’tiar] per mistero e [mis’te:r] per mestiere. E’ probabile che l’arcaico “misterio” avesse comunque portato la forma in [‘ia]. L’espandersi del dittongo [‘ia] è dovuto comunque a un’influenza delle varietà confinanti che ha agito con effetto opposto: “siccome noi siamo diversi, non pronunciamo MAI come loro”. Ha vinto il forte senso di appartenenza degli abitanti di Arceto e la rivalità con i vicini che solevano definirli “ladri”. A Arsèj, i piântn i fașóo e a nâs i lêder” – si diceva nelle frazioni vicine.
In posizione atona vale su tutto il territorio provinciale quanto è stato detto per il reggiano di città. La vocale eufonica però può aprirsi fino a diventare una [a] all’estremo nord dove “padre” diventa [‘pa:dar] e in posizione pretonica anche in montagna [kar’pɑːr / kar’pɐːr] per “crepare”.
Ancora una volta però gioca un ruolo importante la situazione più o meno conservativa delle varietà locali. I neologismi infatti solitamente non adottano alternanza vocalica e mantengono le vocali atone presenti in italiano o nella lingua da cui il prestito attinge, che potrebbe essere anche l’inglese. Al “scooterésta” (lo scooterista) non ha sincope ne alternanza.
I plurali in “i” finale di parola sono tipici della “bassa”. Più ci si avvicina al Po, più è facile che per parole come “vacca” o “donna” venga scelta la forma plurale di “vâchi” e dòni” al posto di “vâch” e “dòn”. Nell’area di influenza di Guastalla, estendiamo questa regola allo stesso articolo determinativo che al plurale femminile diventa “li”.
L’evoluzione delle ō, ǒ, ǔ latine
Questi suoni latini, che trattiamo insieme in quanto danno lo stesso esito in alternanza vocalica anche nell’italiano standard ci riportano a tre suoni: ò aperta, ó chiusa e dittongo uo.
Nel reggiano di città abbiamo la solita ripartizione: suono nasale [ɔw] oppure [ɒw] universale per tutti e tre, ma reso [u:] in molte varietà qualora la “n” sia seguita da consonante sorda (es. “monte” = [mu:nt]). Suono [ɔ] finale di parola. Suono [ɔ:] corrispondente alla “ò” aperta sia per le parole come “gnocco” e “collo” ([ɳɔ:k, kɔ:l]) in cui la O è seguita da doppia consonante, che per altre come “oro” e “nota” ([ɔ:r, ‘nɔ:ta]). La ó chiusa può invece dare due esiti: suono [ɒ] per parole come “bollo” e “rotto” ([bɒl, rɒt]) e suono [o:] in parole come “fiore” e “lavoro” ([fjo:r] e [la’vo:r]). Questi ultimi suoni, nel vecchio dialetto inframurario era rappresentato in realtà dal suono [ɒw] e così lo troviamo sui dizionari ufficiali, che riportano “fiòur” e “lavòur” malgrado la pronuncia ormai generalizzata dei suoni “moderni”. L’antico dialetto del centro storico oggi, infatti, sopravvive solo in una sempre più anziana “diaspora” di ex-residenti, trasferitisi nei vari quartieri popolari extraurbani dopo le demolizioni del dopoguerra.
Nelle parole che in italiano sono caratterizzate da dittongo “uo” troviamo in dialetto ancora una volta il suono [o:]. Nella variante attuale, perciò, si perde la coppia minima “sole/suolo”, dove “suolo” però sta per recipiente di cottura delle lasagne: “al sōl” per entrambi. Il suono è presente anche in parole che oggi in italiano hanno perso il dittongo, ma lo avevano nella versione arcaica (figliuolo, usignuolo, fagiuolo, ecc.). Tutte in [-o:l].
L’alternanza vocalica per questi suoni richiederebbe la “u”, in particolare quando si tratta di forme originate da alterazione dei nomi o coniugazione del verbo. “fiorire” diventa perciò [fju‘ri:r]. La “gnoccata” è la [ɳu‘kɛ:da]. Nelle parole molto vecchie, quando la “o” che vediamo in italiano non assume forme toniche è molto frequente che sia sincopata: la colazione = la [k–lassjɒwn]; “comandare” = [k–man’dæ:r]. Nelle parole moderne e neologismi, cioè nelle parole che sono state diffuse dall’italiano anziché arrivare dal latino, è molto facile che la O sia mantenuta anche in posizione pretonica senza subire alterazioni. Il “coccodrillo” è per molti una parola imparata a scuola, leggendo libri in italiano o addirittura dalla TV. Perciò sentiremo dire [al kɔkɔ’drel].
In posizione post-tonica la tendenza dei vecchi era quella di appoggiarsi alla solita vocale eufonica universale ɛ.
Il “miracolo”, “Montecavolo”, “Roncolo”, il “Crostolo” e persino il moderno “semaforo” (che non ha sincope della E pretonica) erano resi con [mi’ra:kɛl, muntkɛ:vɛl, krɒstɛl, sɛma:fɛr]
Le forme moderne tendono però a lasciare le vocali come in italiano.
E’ abbastanza evidente che la O finale italiana equivalente delle desinenze latine, -us, -um, ecc.) nella lingua locale cadono. La o finale la troviamo nei prestiti dall’italiano completi, come “treno”, “freno” e “coro”.
La ɛ eufonica universale è anche usata per riuscire a pronunciare agevolmente molte parole che con la caduta dalla O finale sarebbero difficilmente articolabili, come “ladro” [‘lɛ:dɛr] o litro [‘letɛr]; Ma la troviamo anche in parole dove la pronuncia non sembra affatto difficoltosa, considerando le nostre capacità di pronunciare agevolmente improbabili sequenze consonantiche a inizio frase. Eppure anche “largo” diventa [‘læ:rɛg] e inverno diventa [iɲ’væ:rɛn]
Anche in questo caso, allontanandoci dal centro troviamo assetti diversi e modifiche alle regole. Per quanto riguarda i suoni prenasali si ripropone in pieno il quadro che abbiamo descritto a proposito dei suoni [æjn]. Il suono [ɒw] cittadino arriva alla [u:n] guastallese e montanara con le stesse modalità attraverso le quali [æjn] passa a [i:n]. Nasali senza il dittongo verso ovest, e suono che si restringe gradualmente a nord.
Per quanto riguarda il suono [ɔ:] lungo; invece, possiamo assistere a una separazione procedendo verso la montagna. Già nel primo appennino sono molte le varietà che adottano una pronuncia stretta per il gruppo di parole simili a “oro” e “nota”, che divengono [o:r] e [‘no:ta] mantenendo il suono cittadino in [ɳɔ:k] e [kɔ:l] o trasformandolo, in molte varietà a ovest in [ɳɔk] e [kɔl]. Questi ultimi suoni, a ovest, sono adottati anche in alcune varianti di pianura (zone tra Bibbiano e San Polo e alcune frazioni di Montecchio) dove però “oro” e “nota” restano come in città.
Il suono cittadino [ɒ] invece analogamente a quanto visto a proposito di [æ], subisce variazioni già nel territorio comunale che storicamente potevano essere ricondotte a una maggior apertura nella parte “est” del comune e una graduale chiusura procedendo sia verso ovest, che verso nord e sud, ma dopo i recenti rimescolamenti dell’era della motorizzazione questi suoni si trovano un po’ ovunuque mischiati tra loro. Fuori dal territorio comunale il suono tende a chiudersi ulteriormente verso la montagna diventando una [o] chiusa sul medio appennino ([bol, rot]) e addirittura una [u] in alcune varietà di crinale.
Per le parole di tipo “fiore” e “lavoro” invece possiamo avere due possibilità: 1) la ricomparsa del vecchio dittongo cittadino, anche con diversi gradi di apertura [fjɒwr, la’vɒwr] o [fjɔwr, la’vɔwr] nella zona centrale ai confini col Secchia (da Rubiera a Casalgrande e Scandiano nord); 2) la chiusura della vocale in [u:] ([fju:r], [la’vu:r]. Verso la montagna il passaggio è graduale e nelle frazioni di Casina troviamo un frequente altalenarsi di [o:] e [u:] e spesso suoni intermedi [ʊ:]. Nella bassa invece ancora una volta abbiamo una mutazione brusca quando si entra nell’area di influenza guastallese. Per quanto riguarda la parola “lavoro”, ovunque, per tutta la provincia possiamo osservare una v evanescente, in corrispondenza della vocale u, (quindi [la’u:r] e [la’uræ:r] o [la”ura:r])
In corrispondenza del dittongo uo italiano, sia le varianti in area di influenza guastallese che tutte le varietà del medio appennino e del crinale ad eccezione di Collagna adottano il suono turbato [ø:]: “suora” = [‘sø:ra], “aiuola” = “a’jø:la]. Nelle zone precollinari ci sono piccole variazioni impercettibili per arrivare al suono montanaro in modo graduale. E nella bassa ancora una volta c’è il “salto” Santa Vittoria / Gualtieri: due località nello stesso comune ma con forte rivalità e divisi persino nelle varianti dialettali.
Inoltre, sempre nella già citata isola dialettale tra Arceto e Salvaterra, dove il suono [e:] cittadino diventa [‘ia] [‘iɛ], anche il dittongo italiano “uo” assume forme diversificate che sono in questo caso [‘uæ] (solo ad Arceto se è in posizione finale) o [‘ua] sia ad Arceto (non finale) che a Salvaterra (sempre).
Un altro contributo alla differenziazione su territorio dialettale è costituito dall’alternanza vocalica. Molte aree periferiche della zona centrale non la fanno: a Cadelbosco e Vezzano “portare” rimane [pɔr’tɛ:r] senza alternare in [pur’tɛ:r]. Allontanandoci dal centro però ritroviamo il suono [u] anche non alternato perché divenuto tale nella vocale tonica, in parole come [fju’ri:r] (fiorire).
Per quanto riguarda le post-toniche, già nella prima periferia (oggi permeata anche in molti quartieri prossimi al centro) è possibile notare una differenziazione in [ɔ] per le vocali seguite da consonanti “m”, “v” e “b”, regola che vale per ogni forma eufonica e anche per quelle vocali che servono a permettere la pronuncia di consonanti che non sono facili da dire consecutivamente. Esempi: “orbo” = [‘ɔ:rɔb], servo = [‘se:rɔv] o [‘sɛ:rɔv]. In molte varianti della bassa, soprattutto nella parte “ovest” (Tra l’Enza e la statale 63) questo suono diventa una [u] ([‘ɔ:rɔb, sɛ:ruv] per poi cadere in area guastallese e ritornare come “u” finale già in area mantovana.
Dal medio appennino, invece il cambiamento consiste nel mettere la vocale d’appoggio (che ritorna [ɛ]) finale di parola generando le varianti del tipo [‘se:rvɛ] e [o:rbɛ]. Sull’alto crinale si ha un ulteriore chiusura in [ə] ([‘se:rvə] e [o:rbə]) fino a una totale sparizione ([‘se:rv] e [o:rb])
La vocale ū latina
Si riconduce alla U italiana e nel reggiano di città ha una logica riconducibile a ciò che abbiamo detto a proposito della “i”. Un suono nasale che si sovrappone a quello delle “o” sempre meno frequente che ritroviamo solo in frasi fatte antiche passate da una generazione all’altra (ûn pr òun a’ n fà mêl a nisòun “uno ciascuno non fa male a nessuno”). Poi abbiamo una variante lunga simile alla U italiana [u:] per parole del tipo “muro” e “fuso” [mu:r, fu:z] e una variante breve [o] per parole come “brutto” e “busta” [brot, ‘bosta]. Quest’ultimo suono in città si usa anche per la finale accentata: Gesù = [ ʤɛ’zo].
In posizione atona mantiene il suono italiano. Infine, un suono [u] prevocalico, di fatto presente solo nei possessivi “tuo” e “suo” che peraltro rappresenta un modernismo.
Le variabilità sul territorio provinciale però è un filo più complessa rispetto a quanto abbiamo visto per la vocale “gemella” i.
Per quanto riguarda la finale, la logica è la stessa, ma il punto di variazione [e-ɛ]/[i] non coincide tra quello [u]/[o], poiché quest’ultimo leggermente più lontano dal centro nella parte est e addirittura assente nella parte ovest dove “Gesù” mantiene sempre la pronuncia identica a quella italiana senza mai mutare in “Gesò”. A est la trasformazione [o], [ɔ] è più lenta rispetto alla [e] [ɛ]. Nei comuni della bassa direttamente confinanti con Reggio si dice ancora [lo] per dire “lui”, ma già [sɛ] per dire “sì”.
Più a sud compare anche [lɔ], ma in una prima zona di passaggio si trova frequente la compresenza di parole dal suono aperto (quelle più utilizzate, come “lui” e “più” [lɔ, pjɔ]) e altre col suono chiuso che di solito sono “ricreate” su modello italiano (Gesù, blu [ʤɛ’zo, blo).
La [o] cittadina non finale ha variazioni da Est a Ovest e da Nord a Sud. Lungo la via Emilia e nelle zone poco distanti il passaggio [o]/[u] ricalca esattamente l’isoglossa che separa [e]/[i]. Il cambio si ha perciò in prossimità Gaida e nel comune di Campegine, comprende Cavriago e sul lato opposto compara con la variante [ʊ] nell’area di influenza carpigiana (ma non a Correggio!).
Nella linea “nord-sud” si ha invece un passaggio dalla [o] alla turbata [œ] che diventa una [y] sul crinale nella parte est e già nel medio appennino nella parte ovest. Da Ciano a Canossa, infatti, il passaggio è [u]/[y] e non [o]/[œ] come è invece tra Albinea a Regnano. Il passaggio nelle frazioni di montagna è graduale e altalenante. Ci sono tanti suoni intermedi anche tra [y] e [ø] e tante particolarità locali. Ma in generale possiamo dire che in appennino “brutto” e “busta” diventano [brœt] e [‘bœsta] oppure [bryt] e [‘bysta]
Nella bassa ritroviamo il suono [œ] ([brœt, ‘bœsta]) nella più volte citata area di influenza guastallese che comprende i comuni di Reggiolo, Luzzara, Guastalla, Boretto e Gualtieri (escluso Santa Vittoria) e lascia fuori Brescello dove si usa la [u] non turbata tipica dei comuni prossimi all’Enza.
Per la [u:] cittadina assistiamo a un’unica variazione che la trasforma nella turbata [y:] nell’area guastallese che in tutto il territorio montano e collinare ad eccezione di Collagna. L’isoglossa di separazione [u:]/[y:] è perciò sovrapponibile a quella [o:]/[ø:] già vista per il dittongo “uo”. Al centro [mu:r] e [fu:z] e agli estremi [my:r] e [fy:z]
Anche per il suono atono, sia pretonico che post-tonico, la linea di separazione è la stessa: [u] al centro e [y] agli estremi. Nelle zone prossime al centro dove le O alternano in U, avremo quindi l’eliminazione della coppia minima “curiamo” /” corriamo” e “muriamo”/”moriamo” invece in montagna e nel guastallese sono sempre distinguibili.
Il sistema consonantico
La grande variabilità delle nostre lingue locali e la maggiore difficoltà di comprensione per chi viene da fuori è costituita dalla particolare e articolata struttura del sistema vocalico. Il sistema delle consonanti è molto più omogeneo e anche più vicino all’italiano. È opportuno segnalare solo un paio di particolari.
La sonorizzazione.
Una caratteristica comune a tutte le varietà è la frequente sonorizzazione delle consonanti sorde latine, che rimangono come nella forma originale (e come nella derivazione italiana) solo se iniziali di parola o nei gruppi consonantici che si sono tramutati nelle doppie consonanti italiane. La t, la p e la c, in tutte le varietà della nostra provincia se sono tra due vocali o seguite da R tendono a diventare “d”, “v” e “g”.
La ruota è la “rōda” (o röda o rùede), il fico è “fîgh”, il sapone è “savo(u)n”, “fratello” è “fradel”. Questo fenomeno è presente anche nello spagnolo, ma secondo i linguisti si tratta facilmente di una coincidenza di conseguenze nella derivazione dal latino e non dovrebbe essere riconducibile a un’influenza diretta degli spagnoli nel periodo dell’occupazione.
La sonorizzazione è una “tendenza” e non una regola generale e riguarda soprattutto le parole più antiche. Le parole arrivate direttamente dall’italiano non sonorizzano (es. il motore non diventa “modōr/modòur/modûr” se non negli ipercorrettismi dei giovani. Inoltre, è frequente la mancanza di sonorizzazione nei termini ecclesiastici: “al prēt”, “al Pêpa”, “al catechîsom”) “il prete, il Papa, il catechismo” che seppur antiche fanno parte di un registro più elevato. Abbiamo il murad(o)(u)r, ma il senat(o)(u)r.
La “cl” e la “gl” latine
Un altro tratto caratterizzante è la palatizzazione delle “cl” e “gl” latine. Le forme divenute “chia” “chio”, “chie”, “chiu” in italiano, come “chiesa”, “ghianda”, “chioccia”, “ghiotto” su quasi tutta l’area coperta dalla nostra provincia (e su quasi tutto il nord Italia) si sono trasformate nei suoni [ʧ] e [ʤ] ovvero al corrispondente italiano delle lettere “c” e “g” con suono dolce. Chiesa = cesa, ghiotto = giòt.
Solo sul crinale sono rimasti suoni intermedi che testimoniano il processo di trasformazione dal latino. Sono dei suoni così particolari e tipici che risulta anche difficile la loro trascrizione perché non hanno corrispondente in lingue note, ma solo una vaga somiglianza a sonorità che sentiamo in alcuni paesi slavi. A parte queste minoranze linguistiche, quindi gli elementi “cl” e “gl” non contribuiscono alla variabilità linguistica.
La L preconsonantica.
In molte varietà a partire dal medio appennino sembra esserci una certa difficoltà nel rendere la L preconsonantica nelle parole “caldo”, “alto”, “qualche” che vengono solitamente vocalizzate con modalità differenti che spesso variano spostandosi di pochi chilometri. Alla base di questo processo c’è anche la difficoltà di pronunciare l’articolo maschile “al” che ha portato tantissime varietà a modificarlo in “e” nelle parole che iniziano con consonante “il cane” diventa perciò “e can” anziché “al can” come in città.
La fusione sc, s, c/g, z
Per tutto il sistema consonantico latino, a parte il particolare della sonorizzazione e la trasformazione del suono “gl” in “j”, c’è di fatto una stretta corrispondenza tra italiano e lingue locali.
L’elemento più differenziante e più difficile da interpretare per chi sfrutta la somiglianza con l’italiano e con le altre lingue latine è l’evoluzione delle consonanti che in italiano sono divenute “s”, “sc”, c (dolce), g (dolce) e z. In questo caso il processo è opposto a quanto visto per le vocali, ovvero si va in direzione di una semplificazione che arriva alla fusione su gran parte del territorio provinciale di tutti i suoni mantenendo solo la differenza tra sordo [s] e sonoro [z]. Dal Po al medio appennino spariscono completamente le coppie minime “tassa/tazza”, “marcio/marzo”, “l’asso/lascio”, “caccia/cassa”, “acquaragia” -” acqua rasa”. Resta solo la differenza tra consonante sorda [s] e consonante sonora [z]
Risalendo fino al crinale però piano piano ritroviamo tutte le differenze dei vocaboli antichi passate anche all’italiano. Le differenze tra le coppie minime in s/c (cassa/caccia), la sua variante sonora s/g (basato/baciato) e quelle s/z, (tassa/tazza), sono le prime ad apparire in alcune frazioni prossime al Secchia, mantenendo in un primo tempo l’ambiguità c/z e g/z (marcio = marzo e gelo = zelo). La consonante che troviamo in queste parole non è più una “s” ma qualcosa di simile alla z che ricorda vagamente il th inglese, ma non è pronunciato mettendo la lingua tra i denti. All’altezza di Toano possiamo invece già distinguere i tre suoni separati: [s] e [z] rimangono per le S italiane delle parole “rosa” e “rosso”, per le C e G italiane di “marcio” e “gelo” troviamo suoni simili alla “sc” italiana e alla “j” francese e per la Z italiana nelle parole “zucca” e “manza” troviamo le sopraccitate “quasi zeta”.
Più avanti, nel comune di Villa Minozzo, si arriva alla z vera e propria simile a quella italiana e i suoni delle parole “marcio” e “gelo” diventano delle “c” e “g” vere e proprie, fondendosi in un primo tempo con i suoni di “chiesa” e “ghiotto” per differenziarsi ancora sull’alto crinale quando compaiono i suoni antichi misto t/d e “gl”.
Il suono “sc” italiano resta ormai differenziato solo sul crinale, non tanto per la sonorità della consonante (che è di fatto una “s” sorda) quanto per l’effetto sulla vocale che la precede. Sull’alto crinale la “sc” è come una ß tedesca, ovvero una “s” sorda preceduta da un suono lungo e quindi adatta a risolvere la coppia minima “capisce” /” capisse”. In tutto il resto della provincia, oggi la “sc” equivale a una doppia S. Liscio è come se fosse “lisso”. Resta una sola parola (anche se affiancata dalla sua variante moderna) a testimoniare una vecchia logica che secondo i linguisti era un tempo diffusa su tutto il territorio. La parola in questione è il verbo lasciare: la coppia minima “lascio/l’asso” è risolta anche pianura con la pronuncia “da sillaba aperta” della lettera A, quindi [lɛ:s] per “lascio” e [la:s] per “l’asso”, anche se è possibile pronunciare entrambe nel secondo modo descritto. La differenza è rimasta forse solo in questa parola per risolvere ambiguità.
I linguisti sono concordi nel ritenere le varietà montanare come le più conservative, quasi fossero testimonianza di un antico reggiano un tempo più diffuso su tutto il territorio provinciale, mentre le differenze che si sono prodotte nelle varietà di città sono frutto di una semplificazione stimolata dai flussi migratori e dai contatti con altre realtà linguistiche.
Un’ulteriore “complicazione” nella differenziazione delle varietà è però costituita dal diverso trattamento delle parole “moderne”, entrate attraverso l’italiano rispetto a quelle più tradizionali che si sono evolute dal latino. I modernismi a tema “c” e “g” mantengono il suono italiano anche in pianura e nella prima collina dove le corrispondenti latine danno esito [s] – [z]. Lo stesso esito lo hanno le parole “dimenticate”, cioè quelle poco utilizzate che finiscono per modificarsi in direzione dell’italiano. Come sappiamo, la “modernità” arriva prima in pianura, quindi in alcuni casi assistiamo al paradosso del ritorno di un suono “c” o “g” tipico dell’alto appennino nell’area intorno al centro per ritrovare suoni [s] e [z] nelle varietà del primo appennino che sono più conservative erano già state toccate dal processo di semplificazione consonantica. E la ciliegina sulla torta è che ogni parola varia separatamente in tempi diversi e non tutte le vocalità fanno necessariamente variare le parole nello stesso ordine.
Differenze lessicali e grammaticali
Alcune varietà locali sono altresì caratterizzate da vere e proprie differenze di lessico. Non si tratta più, quindi, di una vera differenza di pronuncia, ma di vocaboli alternativi completamente diversi che sembrano quasi appartenere a un’altra lingua. Anche questa è una situazione perfettamente naturale. Si pensi solo all’italiano che ha parole in cui si preferisce dire “niente” a altre in cui è diffuso “nulla”. Ci sono zone in cui si usa dire “assai” in altre “parecchio” … ma questi vocaboli non sono di uso comune qui da noi, nonostante oggi l’italiano sia comunque la nostra prima lingua. Lo stesso avviene con le varietà locali. Ci saranno sono zone di montagna in cui si dice “angóta” (nelle sue varianti fonetiche) contrapposte alla zona di pianura dove prevale “gnint(o)”. Il maiale è soprattutto “pur(s)(c)el” in montagna e “gugiol” o “nimel” in pianura. La differenziazione lessicale ha comunque un ruolo molto marginale rispetto a quella fonetica. Inoltre, ci sono moltissimi vocaboli che sono caratteristici proprio della nostra provincia e i confini rappresentati da Enza, Secchia, Po e Crinale corrispondono quasi totalmente ai confini di varietà linguistica. Tre esempi tra tutti: le arachidi che sono “scachetti” se hanno targa RE, le prugne selvatiche, anch’esse sono prevalentemente “cagnetti” su quasi tutto il territorio reggiano e, da ultimo, la zanzara è la “sarabiga” o, meglio, “zarabiga”, come è evidenziato in montagna quando ricompare la Z. Nelle province confinanti, si usano altri termini. Nelle aree di confine tra una provincia e l’altra, solitamente si trovano zone in cui le diverse varianti convivono come sinonimi.
Anche dal punto di vista grammaticale le variazioni si osservano soprattutto su aree più vaste che eccedono il territorio provinciale. Le uniche cose da segnalare sono la permanenza del passato remoto nei comuni di montagna (in pianura è estinto e sostituito dal passato prossimo) e qualche differenziazione nella desinenza della prima plurale (con tante differenze e tanta discontinuità). Nell’area guastallese la terza persona plurale è coniugata in modo identico alla terza singolare.
Particolarità e isole dialettali.
Quanto esposto, riassume a grandi linee in modo sicuramente impreciso e superficiale ciò che meriterebbe una descrizione talmente dettagliata da riempire un volume di quattrocento pagine. L’intersezione di tutte queste singole variazioni già di per sé creerebbe un mosaico di mille varianti. Ma la realtà è ancora più complessa di quanto si possa immaginare perché la variazione dei suoni non ha sempre un andamento lineare, ma è un susseguirsi di alti e bassi, di ritorno alla varietà precedente, “eccezioni” alla regola e particolarità che hanno a che fare con i flussi delle popolazioni, con la storia dei singoli paesi, con la loro appartenenza a realtà politiche diverse. E poi nell’ambito della stessa varietà ci sono diversi registri sociali e generazionali. Ogni paese può arricchire e diversificare la propria lingua con qualche “stranezza” che lo differenzia dal vicino. A Correggio, per esempio, i cittadini (dentro le mura della città) coniugano i verbi con desinenze diverse dai campagnoli. Fabbrico era ritenuta un’isola dialettale… purtroppo debbo parlarne al passato perché nelle interviste di oggi non ho trovato riscontro delle particolarità fonetiche che già una ventina di anni fa appartenevano solo ai vecchi e differenziavano la loro lingua tra quelle confinanti. In particolare avevano una sillaba nasale che anche al femminile fondeva la “n” nella vocale precedente, pronunciando [lõa] per “luna” e [galɛ̃a] per “gallina”. Sembrava portoghese. Altra particolarità era la pronuncia di tipo “sillaba aperta” per le vocali che precedevano la “m”. Per esempio [fɛ:m] per “fame”. Caratteristica che ritroviamo parzialmente anche nella zona Bibbiano-San Polo (Barco esclusa) che può essere definita un’altra isola dialettale per l’abitudine circoscritta unicamente a quest’area di far precedere questo suono (in realtà un po’ più aperto) anche alla N e alla GN. Ragno = [ræ:ɳ], Bibbiano = [bibjæ:n], diversamente da tutti gli altri paesi con lo stesso suffisso, come Scandiano, Borzano, Fogliano ecc. che sono localmente pronunciati [skan’dja:ɲ, bur’sa:ɲ, fu’ja:ɲ]. Dell’isola dialettale di Arceto-Salvaterra con i suoi suoni [‘ia], [‘ua]” e delle [æ] finali per i femminili ne abbiamo già parlato. Altra varietà interessante la troviamo a Collagna, che si distingue per l’assenza dei suoni turbati [y] e [ø/œ] e per la singolarità grammaticale del plurale metafonemico. Troppo complessa da spiegare in questa sede… diciamo solo che a differenza di quanto avviene su gran parte della provincia, i plurali maschili che non terminano in L, non sono sempre invariati.
Vezzano sul Crostolo aveva un dialetto tipico presente solo in centro, che prevedeva la pronuncia breve [ɔ] delle parole “nonno” [nɔn], “osso” [ɔs] e simili. Pronuncia presente anche in altre frazioni, ma non in quelle delle aree immediatamente confinanti. Anche in questo caso parlo al passato perché attualmente la popolazione è mista e variegata e la varietà del reggiano suburbano si estende anche a quest’area evidenziando le stesse caratteristiche di diminuita omogeneità presenti ormai in modo paradossalmente “omogeneo” da Bagnolo ad Albinea e da Villa Cadè a Bagno. Anche lo stesso “reggiano di città” testimoniato dal vocabolario ufficiale è di fatto una realtà non più rappresentativa.
Oltre ai danni dell’italiano sempre più monopolizzante, le varietà meno rappresentate, spesso piene di cultura e potenziali serbatoi di ricchezza linguistica subiscono la minaccia dell’omologazione alle varietà più forti. Il patrimonio linguistico locale non è però rappresentato dalle sole varietà ufficialmente documentate e presenti nei dizionari delle località che “fanno comune”, ma anche dalle piccole realtà rurali e locali che nella maggior parte dei casi poggiano solo sulla tradizione orale. Ragion per cui, spero che queste osservazioni siano il punto di partenza per auspicabili futuri sviluppi di conservazione. Sono troppe le varietà locali del tutto prive di documentazione scritta. Il mio sogno nel cassetto è che i contenuti di questo articolo si possano trasformare in un dossier documentativo non solo su piano teorico, ma anche su quello pratico di ricerca in campo e promozione linguistica per avviare un processo di recupero del patrimonio linguistico locale e progettare un futuro in cui la “biodiversità” linguistica torni ad essere tutelata.
Questo studio è stato pubblicato per la prima volta
nella Strenna del Pio Istituto Artigianelli di Reggio Emilia nell’anno 2020