Chiede una spiegazione del significato di una strana tiritera che gli raccontava la nonna.
Registrazione pervenuta il 2 Febbraio 2025 grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunale di Albinea
Quando ero un bambino, tanti ma tanti anni fa, a casa mia si parlava il dialetto. Mio padre e mia madre parlavano in dialetto fra di loro e con mia nonna. Noi invece, io e mia sorella, parlavamo in italiano perché il dialetto “faceva miseria”. Di tante cose che mi ha detto mia nonna, mi raccontava sempre una tiritera che non ho mai capito cosa volesse dire. Adesso la racconto a voi. La tiritera è questa.
“Sopra alla torre di Sant’Agostino c’erano 36.000 ciribiricoccolini. Ci son andato, ci son tornato e non mi sono mai inciribiricoccolato. Ci andrò, ci tornerò e mai mi inciribicuccarò”.
C’è qualcuno che mi sa dire cosa vuol dire? Grazie
Racconta la storia del Canalâs di Bagnolo e dei mucchi di ghiaia sui quali da bambino giocava cun al bucîni di terracotta.
Registrazioni pervenute il 9 Gennaio 2025
Vi voglio raccontare la storia del Canalâs (canale maestro). Era un posto dove ci passava e ci andava molta gente, a pescare, a cercare lombrichi, e poi c’è stato un momento che andavano tutti lì “ai verdi”, s’imboscavano ovunque e una qualche volta l’automobile è anche caduta giù nell’acqua dalla riva del Canalâs.
Quando sono andato ad abitare al Canalâs nel 1957 avevano appena fatto la strada nuova, l’attuale via Casaletto c’erano dei mucchi di ghiaia lungo la strada che poi venivano gli stradini a spargerla. Noi ragazzi andavamo a giocare con le “boccine” di terra (palline in terracotta). Facevamo tutti i percorsi, poi giocavamo a “bócia e spâna”. Quando la pallina usciva (dal tracciato) o che eri squalificato o dovevi ripartire dall’inizio. Il problema era che con il freddo avevi le dita intirizzite perché c’era molto freddo e il gioco lo facevamo sempre in novembre e dicembre quando portavano la ghiaia. Veniva fatto tutto un bel giro attorno al mucchio bello grande, con delle salite, delle discese e anche una qualche galleria e poi chi arrivava primo vinceva le palline degli altri.
In questo secondo contributo, Luciano ci racconta una tradizione della Vigilia di Natale nelle case dei contadini di Bagnolo.
Registrazione pervenute il 9 Gennaio 2025
Un’altra storia era quella della vigilia di Natale. Le nostre madri preparavano un tortellone di zucca oppure con un ripieno di pesto di marmellate. Poi, si andava nella stalla, si metteva il tortellone su un’asse di legno e poi si veniva bendati. Ti davano in mano una piccozza, poi ti facevano ruotare (e dicevano): – Picchia qui, picchia là, picchia qui, picchia là, per tagliare il tortellone. Tante volte si picchiava sul corridoio della stalla e certe volte si correva il rischio di dare una picconata alla vacca o nel canaletto di scolo del colaticcio (sulcadèl). Il gioco andava avanti per parecchio tempo e ci divertivamo. Quando avevamo finito di giocare, il tortellone veniva messo su un tavolino, sempre nella stalla, poi veniva tagliato e mangiato
Racconta: Cosa si mangiava quando c’era la miseria.
Colloquio con il figlio Corrado, 70 anni.
Registrazioni effettuate il 25 giugno 2024 e il 7 marzo 2025
-Presento mia madre agli amici di Léngua Mêdra. Parliamo nel dialetto di Baiso che mi ha insegnato lei e mia nonna. Allora mamma quando sei nata?
– Sono nata il 12 ottobre del 35.
– Praticamente lo stesso giorno che Colombo ha scoperto l’America.
– Anche quando è nato Pavarotti. Avevamo la stessa età, solo che lui cantava e io invece no.
– Cantava un po’ meglio di te.
– Ma ero brava anch’io, cantavo bene anch’io.
– Bene, oggi dovremmo parlare delle cose che facevate in cucina quando eri giovane, cosa mangiavate quando c’era della miseria. Tu dove sei nata?
– Io sono nata al Castagneto di Baiso.
– Quindi nel 35, finita la guerra avevi 10 anni, quando c’era una gran miseria.
– Una miseria grigia. Adesso il Castagneto vale perché dicono che è un bel posto, ci sono degli studiosi, una volta era come se fossimo tutti bischeri.
– Ho capito! Cosa mangiavate in quei tempi di miseria?
– Mangiavamo la suleda, la solata, fatta di mais. Dicevano che faceva bene ai vecchi, ma la mangiavamo anche i giovani.
– Ma cos’era, come era fatta?
– Era fatta di mais con la ricotta, una pestata di grasso, un po’ di cipolla, poi la si metteva nel forno.
– Una pestata di grasso, perché il grasso lo si pestava?
-Lo si pestava sul piano di legno e mangiavano anche il legno perché tutte questi piani che sono in giro sono tutti forati,
– Insieme al grasso si mangiava un po’ anche il legno.
– Adoperavate anche il ramaiolo per fare la pestata?
– No, il ramaiolo lo adoperavamo a tirar su la ricotta, facevamo il formaggio in casa e poi facevamo la ricotta dal siero e tiravamo su la ricotta dal siero poi per impastarla si usava il siero che c’era. Poi la mettevamo nel forno.
– Era quasi un piatto da re a quei tempi.
– La si faceva ogni tanto, non sempre.
– Questa era la suleda. E facevate i casagaj?
– Si li facevamo ma a Castagneto c’erano anche le castagne, quindi allora mangiavamo anche tante castagne.
E a proposito di castagne… i panetti di castagna li facevate?
I panetti di castagne li facevamo… quelli si facevano con acqua, farina e sale.
Cos’era quello un pane, un panetto?
– Era un panetto secco come un chiodo.
Però secondo me, a volte c’era un sacco di gente che non aveva neppure i denti…
No, lo comperavano anche, c’era chi veniva quando c’erano le feste, per San Mauro, il padre di Giancarlo M., Iseo, veniva da mia madre e diceva: -Mi fate un cesto di panetti che c’è la festa?
La fiera ..
Al Cavallo Rosso lo facevano a san Mauro…No, non al Cavallo Rosso*, a Casa della Regina, il casaro di Casa della Regina* dice: – Ballano. E io vado a vendere i panetti. Avevo una moto con un sidecar, e mettevo lì il cestino e li vendevo lì.
Il sidecar…
Quella carrozzina attaccata alla moto.
-Bene, siamo a posto.
-Non si tribolava tanto per andare a mangiare fuori.
-Eh si mangiava poco allora
-Si mangiava poco ma era meglio. Il colesterolo era sotto controllo. Non si andava dal dottore a fare gli esami.
-Ma mi sembra che tu abbia tenuto botta.
-Comunque ci vado poco anche adesso faccio in modo di andarci poco.
*Il Cavallo Rosso e la Casa della Regina erano due caseifici di Baiso. Per San Martino, quando i caseifici erano fermi, si facevano feste danzanti improvvisate in cui si vendevano i panàt.
Ermelinda ci racconta della sua esperienza di emigrata in Francia, a Parigi con un paltò rosicchiato dai topi.
Racconta: una filastrocca che si diceva quando si chiedeva in prestito l’ alvadōr.
Registrazione effettuata il 10 ottobre 2024.
Qui da noi si usava fare il pane in casa e si usava il lievito (alvador) e succedeva a volte che facesse la muffa, a volte, quando non c’era tempo per rinfrescarlo o quando si rimaneva senza per un qualche motivo e si andava a chiederlo in prestito dai vicini e avevamo inventato una filastrocca: “ Oh reşdôra mi prestereste un po’ del vostro tingheltenghel che stanotte lo metto a prendere e domani ve lo torno a rendere”. Questa era la filastrocca che si diceva qui a Bibbiano ma anche a Barco ma abbiamo sentito qualcosa di simile anche a Nonantola e nel mantovano. Abbiamo fatto fare una ricerca riguardo a questo detto, sono state fatte delle ipotesi ma non hanno trovato il bandolo.
Una vivace scenetta tra un bracconiere e un guardiapesca.
Registrazione pervenuta il 7 Aprile 2025 grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunale di Brescello.
Son Franco, ho 85 anni e sono nato a Brescello. Ho vissuto per un bel po’ alle Ghiarole. (.?) Ho un’avventura da raccontare che mi è successa tanti anni fa. Io sono stato un pescatore, un bracconiere e un pigliapesci, non mi manca niente. Ho bisogno di pesci, vado nel Canalâs, perché ho bisogno di pesci, e qui non ne ho a sufficienza. Parto con un rastrello (?) e non ce ne sono. Vado, vado, vado più avanti ma non ne trovo Allora vado più avanti, nel Canalâs, là in fondo c’è uno che mi fa così, è una guardia. Mi dice: “Cosa facevi là?” “Secondo te cosa vuoi che facessi là. Mio figlio fa footing alla sera, si spoglia, mette lì gli scarponi e poi non sa più dove ha messo gli scarponi”. “Beh, ma il rastrello?” “Cerco gli scarponi!” E lui si mette a ridere, veramente. Si mette a ridere e dice “Io non ci credo, questa è una grande bugia!”. Allora io non sapevo cosa dire. Mi son tolto il cappello “Oh, ho scritto Giocondo qui, nano?” gli ho detto, perché era Valerio il guardia pesca. Allora, ci crede o non ci crede, c’era lì un contadino e gli chiede “Questo qui è un bracconiere o un pescatore?” “Ma, lo vedo pescare ma io non lo so!” e poi (Valerio) dice “Beh guarda, tu non hai scritto giocondo ” e si toglie il cappello anche lui “Qui nessuno ha scritto giocondo, questa è una grande bugia”. Gli dico “Per me è la vita” poi aggiungo: “Guarda che io sono il nipote di Stoch (?) “Ho già capito. Posso andare allora”.
Un commovente racconto della nascita di Galdino e dei suoi sacrifici per poter studiare.
Registrazione pervenuta il 7 aprile 2025 grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunale di Brescello.
Mi chiamo Galdino, ho 83 anni e sono nato alle Ghiarole. Il cognome non lo dico, perché è un cognome straniero, non è di Brescello. Comunque, vi spiego perché ho una storia particolare. Io sono nato nel (19)42, esattamente 9 mesi dopo che è morto un mio zio che aveva il mio stesso nome. È stata una cosa strana perché mia madre aveva una famiglia dove c’erano 13 figli e lei dei figli ne aveva avuti già abbastanza perché era la femmina più anziana, e aveva cresciuto tutti i suoi fratelli, quasi. Aveva avuto un figlio nel (19)33, dopo che mio padre l’aveva rapita, appena che aveva compiuto 21 anni e quindi aveva avuto quel figlio lì e non ne voleva più degli altri. Senonché, nel (19)41 è morto un fratello di mio padre che si chiamava Galdino anche lui. È morto perché si era ammalato di tubercolosi nella guerra d’Albania. Perché quel mio zio, che aveva 40 ma era scapolo e quindi Mussolini lo ha reclutato e l’ha costretto ad andare in guerra. Si è ammalato di tubercolosi ed è morto esattamente nove mesi (mi commuovo) esattamente nove mesi prima che nascessi io. [Mio padre] aveva due anni di meno di mio zio, erano vissuti sempre insieme, ed è stata una scelta sua di mettere incinta mia madre un’altra volta. E così sono nato io. A quei tempi la vita non era facile, né nella famiglia di mia madre né in quella di mio padre, e non è stata facile neanche per me. Perché non c’erano tutte le comodità che ci sono attualmente, perché avevamo una casa piccola ed eravamo costretti a vivere tutti insieme, senza riscaldamento e senza l’acqua. Non avevamo nessuna possibilità. Di conseguenza, la vita è stata difficile. Alle Ghiarole c’era una pluriclasse fino alla terza elementare e tutti i bambini andavano a scuola fino alla terza alle Ghiarole, quelli che c’erano nella frazione, dopodiché bisognava andare nella scuola a Brescello per fare la quarta e la quinta. Dopodiché quasi tutti stavano a casa dalla scuola, una minoranza andava alla scuola media. Però, bisogna pensare, che sia a Lenizzone che a Sorbolo Levante c’era una scuola dove c’erano tanti bambini, c’era una classe a Lenizzone, una classe a Sorbolo Levante, c’era la pluriclasse di Ghiarole e anche a Brescello c’era una classe di maschi e una classe di femmine, quindi c’era un numero elevato di ragazzi, però che andavano alla scuola media c’ era soltanto una classe maschile e una femminile e c’erano anche i ragazzi di Boretto, perché a Boretto non c’era la scuola media e di conseguenza si può capire che erano pochi quelli che andavano a scuola dopo le elementari. Ancora più diminuivano quelli che andavano a scuola alle superiori. Alla fine della scuola media io sono andato a scuola a Parma, ma insieme a me c’erano solo due o tre della mia classe che sono venuti a scuola perché le possibilità erano o andare a Viadana a fare ragioneria oppure, se facevi un’altra scuola tipo geometra o maestra eccetera, bisognava andare a scuola a Parma. E così io sono andato a scuola a Parma, ma della mia classe penso che ce ne fossero 3 o 4 al massimo, alle superiori. Per andare a scuola alle superiori a Parma bisognava alzarsi alla mattina alle 6, perché abitavo alle Ghiarole, bisognava andare in bicicletta a Brescello, lasciavo la bicicletta da mia zia perché c’ era la possibilità di non trovarla più al ritorno, anche allora, e quindi dopo dalla casa di mia zia bisognava andare a piedi fino in Stazione a Brescello e quindi prendere il treno verso le 7 e si arrivava a Parma. Si andava a scuola, dopodiché, all’una si prendeva il treno e si tornava a casa e si arrivava a casa alle 2, tra una cosa e l’altra. Poi, in più, a Parma, si stava a scuola anche due pomeriggi e in quel caso lì si arrivava a casa alle 6 di sera e potete ben capire come era difficile studiare. Vabbè. Comunque, insomma, bene o meno ci siamo riusciti. Io sono andato a scuola 4 anni e non mi hanno mai bocciato a Parma, e in quattro anni non sono mai andato a mangiare in mensa quando stavo, mangiavo un panino e le cose finivano lì. E quindi era difficile. Mi commuovo. Ringrazio mio padre e mia madre che sono riusciti a mandarmi a scuola, nonostante che fossero proletari.
Testimone di un insolito metodo di riordino di una palestra dopo una festa con tanti bambini.
Registrazione pervenuta il 7 Aprile 2025 grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunle di Brescello.
Allora sono Silvana, sono nata a Brescello sessantasette anni fa, tanto tempo! Ho una storia da raccontare, perché ieri sono andata al Bocciodromo e c’era una festa dei bambini. Tanti bambini, tanti. Coi coriandoli, li buttavano di qua, li buttavano di là, un lavoro da morire. Vabbè. Per terra ce n’erano tanti che non si vedeva il pavimento. Allora la maestra, che fa l’hip hop, ha detto: “Allora bambini venite qua. Dobbiamo raccogliere tutti i coriandoli!”. Ha fatto 2 gruppi, ha preso un sacco, un sacco nero: chi riempiva prima il sacco prendeva le caramelle. I bambini sdraiati in terra sembrava che stessero sciando, che fossero sulla neve, va bene! si buttavano e strisciavano dall’inizio fino in fondo alla palestra, che io una cosa così non l’ho mai vista. C’erano alcune mamme e nonne, perché le nonne accompagnano sempre i bambini perché sennò le mamme lavorano, non hanno mica tempo. Ma io una cosa così non l’ho mai vista! Ci saranno stati, non so, 200 ragazzi. C’erano due file e poi nel mezzo correvano a prendere la caramella e così hanno pulito la palestra, senza la scopa. OK? una cosa bella.
Il ricordo di un sanmartèin dalla provincia Cremonese in tenera età e l’apprendimento del dialetto reggiano dall’ambiente sociale.
Registrazione pervenuta il 28 Gennaio 2025
Questa è la corte, o almeno quello che è rimasto della corte. La Corte era un casamento a Villa Seta una frazione di Cadelbosco. Un casamento dove c’erano 10 famiglie, circa 70-80 famiglie Io sono arrivato qui dalla provincia di Cremona il giorno di San Martino del 1957, avevo 4 anni quando sono arrivato qui. Mio nonno si era stancato di fare il mezzadro a San Giovanni in Croce e ha pensato di trasferirsi a (Villa) Seta con tutta la famiglia e prendere in affitto un podere. Sono arrivato con un camion e rimorchio, carico di animali. Avevamo 2 buoi bianchi e una cavalla, una cavalla da strapazzo che si chiamava Irma. Io ho imparato il dialetto , il dialetto reggiano perché in casa mia si parlava solo in dialetto cremonese. Ho imparato il dialetto reggiano dai miei amici, dai vicini e dalla gente del paese perché allora parlavano solo il dialetto. L’italiano l’ ho imparato a scuola. Tra i ricordi più bellii c’è sicuramente quello con io, mio fratello e mio nonno in cima al carro. Ci dava le redini in mano e noi guidavamo la cavalla.
Racconta un’antica forma di corteggiamento.
Registrazione pervenuta il 15 novembre 2024 grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunale di Campagnola.
Io sono nata in una famiglia di contadini, in campagna, e ricordo sempre quello che mi diceva mia nonna. Quando ero una ragazzina cominciavano a girarmi attorno dei “muscòun” (letteralmente “mosconi”, cioè dei corteggiatori) e mi raccontava quello che succedeva quando era giovane lei.
Quando un giovanotto aveva adocchiato una ragazza che gli piaceva, faceva così. L’aspettava alla domenica pomeriggio, sul tardi, quando usciva dal vespro, poi la seguiva mentre andava a casa e le diceva: – Con permesso, vengo con voi a casa dal vespro?
Allora la ragazza, se il giovanotto non le piaceva, rispondeva: – Il permesso è già dato, basta bene che non ritorniate!
Allora lui capiva che non le piaceva. Se invece era un giovanotto che le andava bene, gli rispondeva: – La strada è lunga e il sentiero battuto, se c’è il posto per uno c’è anche per due!
Allora il giovanotto capiva che poteva andêregh a muròuš, cioè cominciare a frequentarla.
La favola del bambino che non voleva dare un “peretto” a una brutta vecchia.
Inviato dalla Biblioteca Comunale di Campegine l’11 marzo 2025 che si ringrazia per la collaborazione.
Fiaba infantile in dialetto campeginese. Un testo analogo, dal titolo Il bambino nel sacco, raccolto in Friuli, sebbene più ampio e articolato, sta in Italo Calvino, Fiabe italiane, Mondadori, Milano, 1991, vol. I p. 118. La storia del bambino nel sacco, difatti, è comune in molte regioni italiane, e diffusa in tutta Europa
La fiaba del peretto
C’era una volta un bambino che era salito su un piccolo pero per mangiare le pere. Passò di lì una vecchia, lo vide e gli disse: –Bambino mi getti giù una pera? – E lui le rispose: –No, veh, che sei una brutta vecchia e mi metti dentro al sacco –. E lei, di nuovo: – Bambino, mi getti giù una pera? Insistette così tanto che il bambino gliela gettò, ma la vecchia continuò: –Vieni a raccoglierla, che mi fa male la schiena–. E il bambino: –No, veh, perchè dopo mi mangi–. E la vecchia ancora: – Bambino, vieni a raccoglierla, che mi fa male la schiena–. Insistette tanto, che il bambino scese giù dal pero per raccoglierla.
Una volta sceso, lei lo afferrò e, zamm, lo mise dentro al sacco e gettandoselo sulla schiena, si avviò verso casa.
Mentre attraversava i campi, le vennero i suoi bisogni; poco distante c’era un contadino che lavorava, al quale disse: – Contadino, mi fate la guardia al sacco, mentre vado a fare i miei bisogni? – Il contadino le rispose: –Purché andiate ben lontano, che neppure il cane senta l’odore –. Allora la vecchia abbandonò il sacco e camminò, camminò… Quando fu ben lontana, il contadino, curioso, guardò nel sacco e vedendo che conteneva un bambino, lo fece uscire e vi mise dentro il suo cane lupo. Dopo un po’, la vecchia ritornò, si rimise il sacco in spalla e si avviò per andare verso casa. Al cane che intanto la graffiava facendo: – Grr Grr! Grr! – la vecchia diceva: – Bambino, sta fermo, perchè quando sono a casa ti mangio–. Ma il cane continuava: – Grr! Grr! Grr! – E lei ancora: – Bambino, sta fermo, perchè quando sono a casa ti mangio –Quando fu vicino a casa cominciò a gridare a sua sorella: – Marietta, metti sul fuoco il paiolo, ché ho il fagiolo! Marietta, metti sul fuoco il paiolo, che ho il fagiolo! – Quando fu a casa c’era già il paiolo che bolliva e, mentre la Marietta scoperchiava il paiolo, la vecchia slegò il sacco e d’improvviso balzò fuori il cane che mangiò la faccia alle due sorelle. Così il buon contadino poté portare il bambino dalla sua mamma.
La fola dal perèin
A gh’ēra ‘na volta un putèin c-l’ēra andê insíma a un perèin per magnêr i pēr. È pasê ‘na vècia, la l’ha víst e la gh’à dít: – Putèin am bútet zò un perèin? – E lú al gh’à rispȏst: – No vè che t’ē ‘na brúta vècia e t’um bút int-al sâch! – E lē ancòra: – Putèin am bútet zò un perèin? – L’è andèda tânt adrē che lú al gl’à butê zò, e dòp cla vècia: – Vínm-el a tōr sú, ch’am fà mêl la schina – E al putèin: – No vè, perché dopa t’um mâgn – E la vècia incòra: – Putèin, vínm-el a tōr sú, ch’am fa mêl la schina – La gl’à dít tanti volti, che lú l’è gnū zò dal perèin per tòrghel sú. Quând l’è stê zò, le la l’à ciapê e…zàmm… la l’à mís dèinter int-al sâch, la sl’è mís insíma a la schina e la s’é invièda vêrs cà.
Intânt c-la traversèva i câmp, a gh’ēra gnū i sō bisògn; a gh’ēra un cuntadèin lè ch’al lavorèva e la gh’à dít: – Cuntadèin am tendīv al sâch, intânt ch’a vaga a fêr i mē bisògn? – Al cuntadèin al gh’à rispȏst: – Basta bèin ch’andê luntàn, ch’an sèinta gnàn l’odōr al càn – Alòra la vècia l’à lasê lè al sâch e l’è andèda, l’è andèda, l’è andèda… Quând la vècia l’èra bèin luntàn, al cuntadèin, curiōs, l’à guardê dèinter int-al sâch e l’ha víst cà gh’ēra un putèin. Alòra tira fóra al putèin e mètegh dèinter al sō càn lupo. Dôp d’un pô la vècia l’è gnuda indrē, la tôt al sâch, la sl’è mísa insíma al spàli e la s’è invièda per andêr vers cà. Intânt al càn ch’al ghe sgrafgnèva la schina al fèva: – Grr! Grr! Grr! – E la vècia la ghe gèva: – Putèin sta fèrum, perché quând a sòm a cà at mâgn –. Mo al càn gninto e ogni tânt: – Grr! Grr! Grr! – E le incòra: – Putèin sta fèrum, perché quând a sòm a cà at mâgn – Quând l’è rivèda atàca a cà, l’à cumincê a sbraiêr a so sorèla: – Marièta mèta sú al parōl cà gh’ò al fasōl – Marièta mèta sú al parōl cà gh’ò al fasōl – Quând l’è rivèda a cà, a gh’ēra al parōl ch’al boièva e, mèinter la Marièta la squarcèva al parōl, la vècia l’ha slighê al sâch. Quând al sâch l’è stê slighê, è saltê fòra al càn ch’al gh’à magnê la ghìgna a tùti dō, e al bòn cuntadèin la portê al putèin dala so mama.
Legge una poesia di Eolo Biagini, dal titolo:
Al mulîn dla Sgnorana
Registrazione pervenuta l’11 novembre 2024 dalla Biblioteca Comunale di Carpineti, che si ringrazia per la collaborazione.
Il mulino della Signorana
Quel mulino vicino al Tresinaro
Era proprio un bel mulino
E con quell’acqua bella chiara
Che la beveva anche un bambino,
Era tutta una allegria
A partire dal bacino del mulino
Con le papere e la famiglia
Delle paperelle che andavano a spasso.
Quando il gallo alla mattina
Cantava dentro al pollaio
E la mamma dentro la cucina
Ci preparava da mangiare
il mulino incominciava la giornata
Con le sue tre belle ruote
Fino a sera ma inoltrata
Con la solita canzone
Una canzone un po’ all’antica
Senza viole né violini
Che parlava della fatica
Del mestiere del contadino
Le tre macine di pietra serena
Lassù sopra il paramento ( che fermava la farina)
Con una allegra cantilena
Facevano l’accompagnamento
Carica carica o bel mugnaio la tramoggia
Che noialtri nel girare
Ti daremo della farina,
Della farina bella bianca,
Profumata che sa di pane.
E preghiamo che non manchi
Mai in casa né oggi né domani.
Un topino in un angolo
Con due occhi un po’ furbini
Si sgranocchia per colazione
Di frumento due tre granellini.
Un ragnetto tesse la tela
Proprio sotto il paramento
E si arrotola leggera leggera
Una polvere di farina che pare d’argento
Quando penso ai tempi di allora
Cosa devo dire? Andava cosi.
A ripensarci a modo e a questo tempo
Non son più quei giorni
Con la moda e col progresso
Le tre macine e le tre ruote ( di pietra serena)
Son sparite ma già da tempo
E con loro anche la canzone.
Ma il mulino giù dietro il Tresinaro
Anche adesso che non c’è più
Mi ricorda l’acqua chiara
Della mia bella gioventù.
Ave legge una bella poesia del fratello Carlo Appio dal titolo E té?, pubblicata nella raccoltya A trei spani da Rezz.
Registrazione pervenuta il 15 Gennaio 2025
E TU ?
E’ stato un momento, un riflesso in una vetrina
Mi sono voltato, ma tu eri già di schiena
Avevi per mano un piccolo, un bambino
Chissà chi era? Forse il figlio di un tuo figlio
E poi ti ho vista fermarti, guardare verso me
Come se avessi visto che qui c’ero anch’io
Io e te, due innamorati, mano nella mano
Proprio in questa strada, ma dopo trent’anni
Tu ed io, una favola che è finita maleIl nostro addio sotto le feste di NataleIo e te, dopo trent’anni vederci di nuovo
Tutti e due cambiati da una vita piena di prove
Ma è bastato l’incontro dei nostri sguardi
E quel rimpianto per essere arrivato tardi
Chissà…forse…magari…ma purtroppo
Adesso era tardi, adesso è dopo
Ti son venuto incontro col cuore che mi scoppiava
Tu eri sempre la stessa, bella, uguale, brava
Delle cose avrei voluto dirtene un milione
Ma tu, davanti a me, che confusione
Allora solo negli occhi ti ho guardata
I tuoi begli occhi, la nostra bella estate
Ho detto semplicemente COSA FAI QUI?
E in un sussurro mi hai risposto…E TU?
Davide ricorda modi di dire tipici di Castelnovo ne’ Monti, quando le persone erano un po’ psicologi anche se non avevano potuto studiare e non avevano internet o la TV.
Registrazione pervenuta il 7 gennaio 2025.
Io abito a Busanella, vicino a Leguigno tra Casina e Marola, però sono nato e cresciuto a Castelnuovo. Mia mamma è di Maro, un paese sotto la Pietra (di Bismantova) e mio padre è di Bora del Musso, una borgata vicino a Rosano. In casa abbiamo sempre parlato il dialetto, i miei fra loro parlavano in dialetto e con me parlavano in italiano e dialetto. Quindi io parlo il dialetto di Castelnuovo, ma è chiaro che qualche parola si è imbastardita. Tra l’altro, anche mio papà e mia mamma la stessa cosa non la dicono proprio nello stesso modo, una qualche differenza c’è, però il dialetto è quello di Castelnovo e dintorni. Il nostro dialetto è stretto, aspro, ma c’è da dire che una volta forse avevano studiato meno però erano un po’ più furbi. Vi racconto un qualche esempio per capire un po’ il nostro dialetto. Una volta erano anche degli psicologi, direbbero oggi, infatti dicevano: “A curare un matto ci vuole uno ancora più matto” e senza avere studiato erano quasi dei filosofi, insomma. Un detto famoso che i miei mi hanno sempre raccontato è: “Tutti i tempi arrivano basta aspettare”. Conoscevano la gente allora, infatti quando dicono che “In un bosco c’è una bestia, o piccola o grossa una bestia c’è, che non ce ne siano due”. Erano anche ironici a dire le cose, per esempio: “E’ meglio mangiare un panino in tre che patire fame”. Oppure: “Avendo dei soldi starebbero bene anche i poveretti!”. Ancora: “Al coltello gli piace la carne di coglione”. Abbiamo detto che capivano la gente, anche se forse non avevano Internet, non avevano la televisione, sapevano leggere solo un poco però dicevano che “Ai sacchi ci si lega la bocca, alla gente no!”
Quando uno era un po’ indisponente gli si diceva: “Sembri covato da una chioccia!” o anche “Sembra che tu sia nato per fare dispetto!” C’era voglia di divertirsi allora, con quel poco che c’era e la gente si inventava delle filastrocche per fare un po’ gli spiritosi, per esempio dicevano: “Quattro e quattr’otto, sette per tre ventuno, la metà dell’uovo è il tuorlo ma due tuorli non fanno un uovo!”. Oppure, un’altra che dicevano, che era poi un detto dei contadini, perché una volta avevano delle bestie, era: “A l’asino che ha ….. mettigli in bocca un dito, tiragli giù la coda e mai verrà giù la tua casa”. Si prendevano per i fondelli l’uno con l’altro, per esempio c’era un botta e risposta che una volta uno ha detto all’altro: “Oh, ascoltami, prestami la tua faccia che devo andare a far paura alla gente!”. E l’altro gli risponde: “perché con la tua hai paura che muoia?!” Allora siamo in inverno e bisogna sempre guardare le previsioni. Una volta non avevano le app, il meteo, quelle cose lì, e si affidavano all’ingegno: “Dopo tre scoregge viene la merda, dopo tre brinate viene la neve!”
Recita due brevi filastrocche, una relativa al suo nome e l’altra legata alle previsioni del tempo che si facevano in passato.
Registrazione pervenuta il 21 novembre 2024
” Quando Chiara ha preso marito, sedie e panche saltavano in casa, sembrava ci fossero i ladri: era Chiara che picchiava suo padre.”
Quando le nuvole vanno verso sera (ovest) , prendi la rocca e fila. Quando le nuvole vanno verso mattina (est), prendi la zappa e poi cammina. Quando le nuvole vanno in su (Sud), prendi la sedia e siediti. Quando le nuvole vanno in giù (Nord) metti il giogo alla vacca.
I scótmaj di Correggio dalla voce di chi ne ha raccolti più di 2.000.
Registrazione effettuata il 27 Gennaio 2025
Nel suo dialetto fabbricese, Paolo parla del suo paese, il cui nome deriva dalle antiche coltivazioni di fave presenti nel suo territorio
Registrazione pervenuta il 14 Gennaio 2025 dalla Biblioteca Comunale di Fabbrico, che si ringrazia per la collaborazione.
Parliamo un po’ di Fabbrico, questo è il nome in dialetto fabbricese, si trova nella parte bassa della provincia di Reggio. Confina con i comuni di Reggiolo, Campagnola, Carpi e Rolo. A Fabbrico bisogna che tu ci venga per forza, perché non ci passi per caso, siamo veramente in un buco. Però Fabbrico ha una storia antica, perché si trovano già dei documenti del 777 che parlano del territorio di Fabbrico, del fatto che ci fossero delle coltivazioni di fave, da cui è nato il nome Favrega; da Favrega è nato successivamente il nome Fabbrico e noi lo abbiamo battezzato Fabbrico. Gli abitanti di Fabbrico sono i Fabbricesi e parlano un dialetto che è leggermente diverso da quello di Rolo, completamente diverso da quello di Reggiolo, assomiglia un po’ a quello di Campagnola però, come tutti i Comuni, abbiamo le nostre prerogative dialettali. Fabbrico è un paese che ha avuto una storia, una storia che è stata facilitata anche dalla fabbrica di trattori Landini che già alla fine del 18 aveva cominciato a costruire i primi motori a testa calda semoventi, per poi arrivare a costruire i trattori a testa calda, diventati famosi in tutt’Italia e ha fatto veramente la storia della meccanizzazione agricola italiana.
Racconta della passione della sua vita: la Canottieri di Guastalla.
Registrazione pervenuta il 06 dicembre 2024.
A parte il fatto che sono nato a Guastalla, in via Gonzaga, dove adesso c’è ancora la Cassa di Risparmio, dopo pian piano mi è sempre piaciuto andare a Po’, andare a Po’ alla Canottieri. Avevo 13-14 anni, andavo già alla Canottieri, si pagava 2-3 mila lire, io andavo là e allora c’era il custode, un mio amico che era tornato dal Belgio, in pensione, io gli verniciavo le barche e lui mi pagava la quota, che io non li avevo 2-3 mila lire. Andavamo a pagarla da Scaltriti, un negozio che vendeva libri per la scuola, i libri per scrivere, le penne, vendeva tutte queste cose e faceva da tramite per la Canottieri, incassava le quote di quelli che volevano farsi soci. Negli anni, io ho sempre continuato ad andare alla Canottieri , fino al giorno d’oggi che nel ’59, un po’ più avanti, nell’89 sono diventato presidente addirittura e tutti i giorni , anche se adesso abito a Poviglio, tutti i giorni io sono a Guastalla, alla Canottieri, perché mi piace segare l’erba, mi piace aggiustare quello che c’è da aggiustare intorno, se c’è qualcosa da verniciare lo vernicio, ho tutti i soci che mi seguono, e allora io cerco di fare il possibile perché a me piace molto stare alla Canottieri. Alla Canottieri abbiamo le barche, abbiamo i canoisti che vengono un po’ da tutte le parti, vengono i canottieri da Novellara, da Correggio, da Boretto, e abbiamo un mucchio di soci, abbiamo cento-centoventi soci, abbiamo i campi di calcio , campi da beach volley, campi da tennis, siamo una piccola società però siam sempre un centinaio di persone, un centinaio di persone che alla fin dei conti abbiamo una quota abbastanza accessibile, però se non ci diamo da fare l’un con l’altro dandoci una mano, un domani la quota può diventare anche un milione, perché con tutte le cose che ci sono da fare c’è da diventare matti. Comunque, io mi trovo bene, ormai ho ammucchiato un mucchio di anni e tutti i giorni comunque io al pomeriggio sono alla Canottieri, sia d’estate che d’inverno, io son sempre lì e mi diverto, speriamo di stare bene e chiuso.
Istruzioni per prenotare una vacanza sulle Dolomiti.
Registrazione percevuta il 13 Febbraio 2025
Monica, ascolta. Il preventivo che hanno inviato a te non è uguale al mio, anche perché io faccio un giorno in meno. Io partirei al sabato invece che alla domenica. Il preventivo che hanno fatto a me per nove notti è di 2164 euro, sempre al Condor. Il Condor è per andare in Val Longa, è per andare dove si ferma il pulmino che di solito loro prendevano quando eravamo ad Ortisei. Comunque eh… aspetta adesso ti dico un’altra cosa..ti dico.. guardo… perché tu non hai guardato il Bel Vu, all’Hotel Bel Vu il prezzo della mezza pensione è 93 euro, se tu prendi una camera matrimoniale superior. Invece sono 86 euro a persona al giorno se prendi una camera matrimoniale confort, non so quale sia la differenza comunque. Tu prova a darci un’occhiata: Hotel Bel Vu. Questo qua lo trovi quando arrivi a Selva, prima di entarre in paese, a sinistra c’è una stradina che va su, questo è molto bello, ma prova a darci un’occhiata. Adesso ho guardato il Corona, poi gli telefono anch’io e sento. Va bene? Adesso ti saluto. Ciao
Le registrazioni audio relative al territorio di Ligonchio, realizzate nel 2021, sono tratte dal CD allegato al volume “L ardzi’goggle -parola di ligonchiese”, di Sandra Bacci, per gentile concessione dell’autrice.
– Buongiorno Egle, dove vai, nell’orto?
– No, sono stata a governare le galline, e quest’anno ho anche una chioccina che mi ha covato sei pulcini.
– Allora per Pasqua faremo lo scoccino.
– Mi ricordo che mia mamma le faceva bollire (le uova) con l’erba medica per farle venire verdi e sennò con le bucce di cipolla.
– Tu Erio sei nato a Ligonchio?
– No, io e i miei fratelli siamo nati a Tuvolo, meno che Nilo che è nato a Nismozza.
– I tuoi erano pastori?
– Sì, il mio babbo ha sempre fatto il pastore e c’aveva un bel branco di pecore. L’autunno andava in Maremma a svernare, quando lo vedevo partire mi veniva la malinconia. Ritornava a Natale e ci portava la spongata e il panforte, mentre quando ritornava a Carnevale ci portava le maschere a me e ai miei fratelli e a mia mamma le portava dei vestiti nuovi.
– A cosa giocavi con i tuoi fratelli?
– Ci facevamo degli archi di legno e delle fionde e poi tiravamo a dei barattoli di conserva, per San Rocco venivamo a Ligonchio, prima alla messa e dopo a comprare qualche gioco ai banchetti.
– Per la sagra di Santa Maria cosa facevate a Tuvolo?
– Mia mamma preparava i cappelletti, poi l’agnello arrosto e impanato alla milanese, poi alla fine tante torte.
NOTA: nelle ‘e’ sottolineate si sente l’inflessione della parlata di Vaglie
– Ma tu chi sei?
– Io sono Odino e sono nato a Vaglie a casa di mio babbo, fino a sei anni mi hanno tenuto i miei nonni perché i miei erano andati a Genova a lavorare. Quando sono stato più grande mi hanno mandato a scuola a Marola in seminario.
In tempo di guerra stavo a Casalino a casa di mia mamma, avevo dodici anni e andavo già dietro alle pecore e all’autunno si raccoglieva le castagne.
– Ci stavi bene a Casalino?
– Cosa ti devo dire, io ero contento, ma una volta che i tedeschi erano venuti per bruciare il paese, mi mandarono ad affacciarmi (a controllare) e far segno con un lenzuolo se fossero andati via.
Io mi arrampicai in cima ad un castagno e appena i tedeschi adocchiarono il segnale mi tirarono una mitragliata dalla Murata. Il giorno dopo ritornai a prendere il lenzuolo che era tutto bucato.
NOTA: nelle ‘e’ sottolineate si sente l’inflessione della parlata di Vaglie.
Veh che c’è l’Oliva, quando eri piccola le dicevi le preghiere?
– Eh! Le dicevo sì, anche “Madonnina bella, bella che dal ciel sei venuta in terra mi hai portato un bel bambino bianco, rosso e ricciolino.
La Madonna l’ha portato san Giuseppe l’ha battezzato tutti i santi sono pieni d’amore sia lodato nostro signore.
Acqua santa che mi bagna Gesù Cristo mi accompagna vivo o morto come sia a Dio gli do l’anima mia quella di mia mamma, quella di mio babbo tutte le anime son passate.
Oh Gesù d’amore acceso non ti avessi mai offeso o mio caro buon Gesù non ti voglio offender più.”
– Oliva, mi racconteresti qualche filastrocca?
E perché no, te la racconterei sì: “Nebbia nebbia scura scura fatti indietro che ho paura e se vieni alla mia aia ti do dietro con la granara e se vieni nel mio cortile ti do dietro con il badile.”
WANDA, 1937
– Permesso Wanda, posso entrare?
– Vieni, vieni dentro che ti faccio il caffè.
– C’hai qualcosa da raccontarmi oggi?
– Io sono nata a Vaglie, ma a sette mesi mi hanno portato a Ospitaletto a cavallo di un asino perché la strada non c’era.
A scuola andavo a Ospitaletto, la maestra era l’Anna Selmi, c’eravamo in una quindicina perchè era le classi miste (pluriclasse). D’estate mi mandavano dietro alla capra, la capra si chiamava Liletta e quando pioveva le mettevo il fazzoletto in testa, ma c’aveva le corna e il fazzoletto si strappava e mia mamma mi brontolava.
NOTA: nelle ‘e’ sottolineate si sente l’inflessione della parlata di Ospitaletto.
Una presentazione del paese di Montecchio sulla scia dei ricordi della propria vita.
Registrazione pervenuta il 24 Dicembre 2024.
Il paese di Montecchio
A salire la torre, che noi montecchiesi chiamiamo il campanòun e da lassù fermarsi per un po’ a guardare intorno: le strade, le case, la campagna, l’Enza, le montagne in lontananza, il castello di Montechiarugolo, ah! è come guardare il mondo dall’alto e pensare ai ricordi. Memorie del tempo passato. Guarda, là c’è la casa dove sono nato, il cortile dove ho giocato, la stradina con la ghiaia, la strada che porta ad Ajola senza traffico, il canale, le scuole, la chiesa con il bar. Memorie da bambino. E poi andando avanti la scoperta del paese: la piazza, le mura, il mercato nuovo, dove ci mettevano il luna park per la fiera di San Simone. Verso mattina (est) su vede la Chiesa della Madonna dell’Olmo, dove mi sono sposato e più in là l’Ospedale dove sono nati i miei figli. Ma guarda: si vede anche il muro del cimitero. Eh che tristi ricordi, i ricordi di una vita. Il mio Montecchio: il paese più bello del mondo.
L’Olide e la Pipâsa che non andavano d’accordo
Registrazione pervenuta il 06 marzo 2025.
Io sono Giuseppe, sono nato a Novellara in un gruppo di case lungo la provinciale San Giovanni-Novellara e vicino a casa mia ci stava una sarta che si chiamava Olide. Dall’Olide ci andavano sempre le mie sorelle a prendere le pezze che rimanevano dopo che l’Olide aveva tagliato i vestiti e con quelle pezze le mie sorelle facevano poi i vestiti per le bambole. L’Olide aveva una vicina che chiamavano la Pipâsa, e non andavano mai d’accordo, litigavano sempre. Perché la chiamassero la Pipâsa io non lo so, forse perché era grassa o forse perché da ragazza era… generosa…. per prendere un po’ di soldi. Non lo so. L’Olide la prendeva sempre in giro e le cantava, per farla arrabbiare, una canzone che faceva così: “C’è la Pipâsa arrabbiata / perché dice che è patita / lei non ha più il suo grasso / lei non è più la Pipâsa”. Bene, adesso delle persone di quel gruppo di case non c’è rimasto più nessuno, sono rimasto solo io.
Ci sono cose che in dialetto si dicono con due parole …
Registrazione pervenuta l’11 marzo 2025.
Ho visto il vostro messaggio e mi ha molto incuriosita. Io telefono da Novellara, ho 78 anni e ho sempre amato il dialetto perché quando ero piccola i miei mi dicevano: Tu non puoi parlare in dialetto, bisogna che parli in italiano. Così, appena ho potuto, che sono stata in grado di poter fare un po’ quello che volevo, ho cominciato a parlare in dialetto, quando potevo e tutte le volte che potevo. Ho anche fatto parte di una compagnia dialettale e anche adesso vado a leggere nella Case protette, alla Casa della Carità e qualcosa in dialetto lo faccio sempre. Sono andata nelle scuole e ho fatto dialetto con i bambini delle scuole medie e piaceva tanto anche a loro. Poi con il fatto che nessuno capiva abbiamo smesso e facciamo teatro in italiano. Quando posso il dialetto lo tiro sempre fuori perché ci sono dei modi di dire che sono così belli, che con due parole si spiega un concetto che in italiano ci vorrebbero delle ore per poterlo dire. Niente, scusate del tempo che vi ho rubato e mi fa molto piacere che ci sia questo gruppo. Arrivederci.
Sergio racconta un episodio della seconda guerra mondiale, quando vide precipitare due aerei: anziché terrorizzarlo iniettarono in lui il desiderio di volare.
Registrazione effettuata il 4 dicembre 2024
Il primo [aereo] era tedesco, è caduto. Io ero in campagna con mio padre che era andato a segare. Si sentiva un aeroplano che arrivava, poi si è fermato, si è aperto…. si è lanciato con il paracadute, ma io non sapevo neanche cosa fosse un paracadute. Allora dopo, pian pianino, l’aeroplano si è andato a conficcare sulla nostra terra là, e il pilota ha aperto il paracadute. Poi è andato a 300 m di distanza. Era tedesco ma a noi non interessava perché i tedeschi avevano la rabbia, non erano mica tanto amici. Se si fosse anche ammazzato… invece no, per fortuna, non si è fatto niente.
Il secondo [aereo] era brasiliano. Ero lì fuori, vedo che arriva con l’ala che bruciava, l’ho guardato, ha ribaltato l’aeroplano, perché non c’era l’ eiezione, e anche lui ha aperto il paracadute. Io, da quel momento lì, mi è venuto quel tarlo lì [desiderio di pilotare un aereo, ndt] e non sono stato capace di rimuoverlo. Io, quando sentivo un aeroplano, stavo sempre fuori e mia nonna mi diceva: – Vieni dentro testone che ti mitragliano. Invece io no, passavano in alto e nella mia testa pensavo: “ chissà dove vanno, cosa hanno lì sopra, perché girano l’elica di un aeroplano?.
La pavēra, una comune pianta erbacea delle zone umide, si chiama in italiano carice. La si trova anche in una filastrocca in dialetto.
Registrazione effettuata il 4 dicembre 2024
.
Il carice, qui nelle nostre zone, abbondava specialmente nei terreni nuovi. San Bernardino nel ‘500 era sommersa dall’acqua; dopo si è prosciugata e allora è terra di palude, si può dire. Per noi era una cosa importante perché, quando eravamo all’ epoca della raccolta, in primavera da giugno in poi, lo potevamo raccogliere. Quelli coscienti lo raccoglievano e lo tagliavano perché, dopo, ricresce; invece, quelli che fanno dei vandalismi lo estirpano: si raccoglieva più roba da portare a casa, però dopo non cresceva più, tant’è che adesso è protetto perché si sta perdendo. Era una cosa molto importante per noi, per le famiglie, per il nostro “vivere”, era una cosa necessaria. Negli inverni, quando si stava in casa, nella stalla in filôs, impagliavamo le sedie e si imparava anche ad impagliare guardando come facevano i più grandi. La pianta della pavra va raccolta, poi la si fa asciugare all’ombra, non al sole perché altrimenti si rovina la fibra, si sfilaccia tutta e si rompe. Invece, così, resta morbida solo a bagnarla. Di solito, la si metteva fuori al mattino fino alle 10, poi la ammucchiavano, la coprivano con un telo, con qualcosa se non c’erano piante da metterla all’ombra e poi, alla notte, la si apriva e lei si disidrata (?) con la rugiada e questa era la sua cura. C’erano delle mamme che avevano delle figlie pronte ad essere mogli, che tenevano d’occhio noi giovanotti, che eravamo ragazzotti robusti, e c’era un detto all’inizio del ‘900 che diceva: “ Oh ragazzi pieni di stracci pieni di pavēra, siete ragazzi da prendere moglie?”Se loro dicevano “sì” allora gli facevano vedere le figlie, già pronte, che avevano imparato a cucire la dote.
In onore della nonna Domenica, detta Bruna, Claudia ricorda i suoi modi di dire dialettali.
Registrazione pervenuta il 23 novembre 2024 dalla Biblioteca Rosta Nuova di Reggio Emilia, che si ringrazia per la collaborazione.
Filastrocca raccontata dalla nonna, che parla di una donna di casa “multitaskin” talmente indaffarata che per che per andare a chiedere in prestito una corda ha elencato e mescolato tutte le faccente che aveva avviato.
Registrazione pervenuta il 29 Gennaio 2025 dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, che si ringrazia per la collaborazione.
Corda, sono venuta in prestito di una sposa ho il secchio nel letto il bambino nel focolare il pane da lavare e il bucato da infornare.
Esprime una lamentela tipica dalle nostre parti delle anziane mogli verso i propri mariti, ma senza cattiveria, così, per dire…
Registrazione pervenuta il 24 novembre 2024 dalla Biblioteca di Villa Ospizio – Reggio Emilia, che si ringrazia per la collaborazione.
Mah, che marito che ho! Come ho fatoo a trovarlo così lontano dal mio carattere! Sembra che sis stato cercato con una lanterna. Peggio di così non poteva andare! Io mi preoccupo di tutto, lui non si preoccupa di niente, io sono una chiacchierona, lui non mi dice nemmeno una parola buona nemmeno in un’intera serata.
Il ritorno a casa del padre dopo l’8 settembre 1943 è il tema del racconto di Monica.
Registrazione pervenuta il 14 Gennaio 2025
Quando è scoppiata la guerra aveva vent’anni. Era al primo anno di matematica all’Università di Parma, ma gli è toccato lo stesso arruolarsi, spedito prima giù al sud e poi a Sabaudia. In caserma l’8 settembre hanno dato la liberi tutti e lui, insieme ad altri due o tre commilitoni, si è tolto la divisa ed è fuggito per tornare a Reggio. Qualche pistola l’avevano rubata dalla caserma, ma non era facile risalire la penisola con l’Italia divisa in due e i treni che funzionavano a singhiozzo. Non mi ha mai spiegato chiaramente come aveva fatto ad arrivare a Reggio, con una bicicletta prestata dalla sponda lombarda del Pò, ad arrivare a Reggio con in tasca documenti che avevano sottratto a soldati tedeschi alla stazione di Firenze. Per farla breve, si è trovato in mano una specie di lasciapassare tedesco, proprio lui che aveva disertato e che dopo poco tempo sarebbe diventato vice comandante di piazza della brigata Garibaldi per Reggio città. Era nato a Reggio, in via Della Vite, oggi via Panciroli, con la sua famiglia aveva sempre vissuto in centro storico, in via San Paolo, ma durante la guerra erano stati costretti a sfollare a Bibbiano. E così da Sabaudia è arrivato fino a Bibbiano. Era appena giunto a pochi metri da casa quando ha incontrato i tedeschi con la divisa e i fucili. Si è fermato. Il comandante dei soldati ha urlato “papiren”, cioè documenti. Qui va a finir male, a pensato mia nonna. La Pia osservava tutto dalla finestra, il cuore le batteva in petto come un martello. All’improvviso lui ha tastato in tasca quel plico di documenti, ha estratto il lasciapassare, scritto in tedesco. Il comandante ha pronunciato qualcosa sottovoce, tutti si sono messi sull’ attenti, mia nonna è svenuta per l’emozione. Bruno era tornato a casa. Bruno Incerti Pregreffi, nato l’8 gennaio 1920 a Reggio, mio padre.
Rosa ci parla dei Padój di Rubiera, luogo della sua infanzia e di tanti ricordi che hanno ispirato la sua passione di scrivere poesie.
Registrazione pervenuta il 16 gennaio 2025
.
Sono del 1950, mi chiamo Rosa e vengo da Rubiera. Rubiera è fra Modena e Reggio, abbiamo in mezzo tra la sponda reggiana e quella modenese il ponte sul (fiume) Secchia. Vengo da una parte di Rubiera che si chiamava, e si chiama, i Pavói (i Paduli), ma adesso è tutt’uno con il paese, perché non c’è più nessuno che dice: Io vengo dalla Garèta, dal Sòul, dal Brōl, dai Pavói.
I Pavói erano una distesa a prato, tanto fieno, una bassa, fossi, siepi, pioppi, salici, tutte le case dei contadini disperse. A me è sempre piaciuta la poesia e il dialetto. La poesia andavo a cercarla sulla lettura e poi mi piaceva molto il giornalino dei piccoli, il Corrierino, che andavo a comperare alla festa, al mattino e mi sembrava che non finisse mai la Messa, non veniva mai l’ora di andare [all’edicola] che era anche una tabaccheria (paltèina) e andavamo a comperare il giornalino con la Tordella , il Signor Bonaventura. Poi io e mia sorella cominciavamo a leggerlo lungo la strada, tanto dovevamo farne un bel pezzo prima di arrivare a casa, non c’erano pericoli, e mi ricordo che in inverno facevamo la gara a chi imparava a memoria il pezzo più lungo delle rime. Dunque, io ho cominciato a scrivere delle poesie in dialetto perché a un certo punto della mia vita è successo che, praticamente, è come dire che i Pavói volevano venire fuori. Allora, non si può parlare di nebbia, di carraie, dei prati d’erba spagna, della pavēra in italiano. Come si fa a raccontare i salti nel fieno, del nascondino dietro ai mucchi, le stoppie o l’acqua lasciata libera dai pozzi per irrigare i campi, e poi i tuoi filari di piante (piantêda), che io la vedo con i pòm campanèin, la brógna mulòuna, la spernigòuna, il pòm laşarèin (l’azzeruolo), il ciliegio, l’albero delle albicocche: se lo racconto in dialetto è il mio filare, ma se lo dico in italiano è una storia diversa. La mia prima poesia si intitola proprio I Pavói. E’ successo che nel 2006, ho vinto un premio al concorso di poesia dialettale di Vezzano sul Crostolo: quando hanno chiamato il mio nome mi sono venute le lacrime agli occhi, veramente mi tremavano le gambe e mi sembrava di non toccare terra dalla gioia, sì, dalla soddisfazione. Adesso vi saluto e mi raccomando, ci siamo intesi: non andate a cercare i Pavói perché c’è rimasto il nome della strada e poco altro. Io li vedo perché li vedo nel cuore. E poi ci siamo capiti, non andate a cercarli perché ognuno, in fondo, ha i suoi Pavói.
Sono nata a San Martino grande, in dialetto si dice così, però i miei erano andati ad abitare a Fazzano, dove avevano un piccolo appezzamento di terreno. A scuola sono sempre andata a San Martino con tutti i ragazzi del cortile. Eravamo un gruppo di 7 ragazzi, partivamo al mattino a piedi, non ci accompagnavano a scuola, facevamo 3 km, quindi neve, sole, pioggia: eravamo sempre in strada. Il nostro gioco era buttare la cartella, dalla gran voglia che avevamo di andare a scuola, davanti a noi soprattutto con la neve, e si rompeva sempre e quando andavamo a casa mia madre mi sgridava sempre perché facevo dei giochi da ragazzo, da maschio. All’epoca non si poteva, perché io ero una donna e dovevo fare …..avevo la fionda, però anche per questo prendevo altri nocchini, perché non si poteva. Poi, col tempo, pian piano, si è convinta perché eravamo solo due ragazzine con sei maschi e dei giochi da ragazzina non ne avevamo.
Racconta la vita della famiglia che lo ha allevato e che gli ha trasmesso il dialetto di San Polo.
Registrazione pervenuta il 9 Gennaio 2025
Ciao a tutti, sono Dante. Sono nato a Parma, perché mia madre è parmigiana, però fin dalla nascita sono stato a San Polo e sono stato cresciuto da mia nonna, che parlava proprio il dialetto di San Polo ed è per questo che io parlo ancora il dialetto sanpolese, che ormai le persone fanno fatica a parlare perché diciamo soprattutto lavorando a Reggio e comunque andando a scuola a Reggio con i contatti che ha la gente al giorno d’oggi e soprattutto i ragazzi è più difficile trovare il vero dialetto del paese.
Io sono stato cresciuto da mia nonna. Mia nonna ha fatto una vita molto dura. Lei era rimasta orfana che aveva un anno e il mio bisnonno, il padre di mia nonna, era morto durante la Prima guerra mondiale. Mia nonna era orfana ed era l’ultima di sette figli e non ha studiato, perché nei tempi passati studiava quasi nessuno. Lei ha sempre fatto l’ortolana, poi ha sposato mio nonno. Mio nonno si chiamava Dante come me. Lui faceva il garzone del mugnaio, era molto povero ma era una persona con una forza straordinaria, sollevava sacchi di frumento da un quintale l’uno, ed era famoso per questo, era stimato come una delle persone più forti che c’erano a San Polo. Però è stato sfortunato anche lui, è morto molto giovane, a 34 quattro anni durante la Seconda Guerra Mondiale, alla fine del ’44. E’ morto il 28 dicembre del ’44 perché aveva contratto la tubercolosi. Prima di partire per la guerra doveva andare in Grecia, era andato in caserma e lì si era ammalato di tubercolosi. Allora non c’era la penicillina e la tubercolosi non si poteva curare, almeno qui in Italia perché in America invece e in Inghilterra avevano scoperto la penicillina ma in Italia non si trovava durante la guerra. Mia nonna quindi dopo la guerra era vedova con tre figli. Mio padre, che purtroppo è mancato da poco, era il figlio maggiore, aveva sei anni. Ha dovuto lavorare molto per mantenere la famiglia e durante l’estate andava a fare la mondina dalle parti di Vercelli, nelle risaie. Poi è andata in Riviera, a Finale, da quelle parti lì, in Liguria, a fare la cameriera e ha fatto delle fatiche della Madonna. E’ stata veramente una persona fortissima e ha fatto crescere la famiglia. I ragazzi, durante l’estate, quando lei era via a lavorare, venivano allevati da suo fratello, che faceva l’ortolano perché erano una famiglia di ortolani. Dopo alcuni anni, è riuscita ad avviare un commercio di ortaggi che coltivavano loro, andava al mercato con nil cavallo e i ragazzi intanto diventavano grandi e hanno preso la loro strada. Mio padre ha fatto il meccanico, ha lavorato molto anche lui, ha fatto delle fatiche esagerate, poi però è riuscito a farsi una posizione, si è fatto una famiglia, sono nato io e tutto sommato, insomma, lui era molto soddisfatto della sua vita. Le mie zie lavoravano come operaie e poi si sono sposate tutte due, una ha avviato un commercio di fiori, ha una serra e praticamente lavora ancora adesso che ha più di 80 anni, con suo marito che ne ha 89, e loro fortunatamente stanno benissimo. Io allora, fin da bambino, stavo con mia nonna, mia nonna parlava il dialetto sanpolese e per questo anch’io ho imparato a parlare il dialetto sanpolese. In pratica, questa è la storia e ho anche da dire che sono stato anche fortunato perché quando andavo alle scuole elementari avevamo una maestra che ci teneva molto che parlassimo in dialetto. Allora ci faceva imparare delle filastrocche in dialetto, ci faceva impare delle poesie e parlavamo anche in dialetto a scuola e non so se al giorno d’oggi si faccia ancora, credo che sia difficile, veramente, comunque è una delle ragioni per cui parlo ancora il dialetto sanpolese o almeno un dialetto somigliante al vero dialetto sanpolese. Vi saluto tutti. Grazie.
In questo ricco contributo, Angelo racconta quattro momenti della vita contadina, dando il nome preciso agli attrezzi che venivano utilizzati.
Registrazioni pervenute il 7 dicembre 2024 grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunale di Sant’Ilario d’Enza.
Il padrone del podere vuole che si faccia un pozzo là in fondo, perché sembra che ci sia una vena là sotto. Quindi noi ci prepariamo con una pala e un piccone dal manico corto e cominciamo a scavare. Però, prima di cominciare a scavare, si devono prendere due assi e disporle a formare una croce, le si inchioda, e si fa una bella croce lunga due braccia, due braccia e mezzo. In questo modo cominciamo a scavare e quando siamo giù circa all’altezza di un uomo, piantiamo dei ferri tutt’ intorno per sorreggere i sassi che saranno la camicia del pozzo, per tenerlo ben foderato; li mettiamo ben stretti, così il muro resta ben fatto. Dopo, si va sempre più giù, sempre più giù, sempre con la croce in mezzo e man mano che si va giù, un metro e mezzo – due metri, piantiamo sempre dei ferri abbastanza lunghi, che stiano dritti e che sorreggano il muro, che si costruisce sempre di sopra. Quando arriviamo a trovare la vena, cosa facciamo? Facciamo la camera un po’ più grande che ci possa stare una bella cisterna [che contenga] diversi quintali d’acqua. Così la croce resta in fondo, perché il vecchio proverbio dice che in ogni casa non c’è una croce, c’è n’è una più grande! per dire che ci possono essere delle disgrazie o altre cose però, in ogni casa dove c’è un pozzo, c’è sempre una croce, che è fatta come ognuno vuole. Quando dicevano, un tempo: – In quella casa c’è il pozzo dai mille tagli, ci buttavano giù i bambini quando non volevano che si vedessero o che venivano abortiti e li buttavano giù- invece non era vero, sono tutti dei pozzi a camicia che sono crollati e i ferri che si vedono sembrano tante lame, ma non sono lame, erano solo i ferri che tenevano sù i sassi. Dopo, cosa succede: che bisogna farci sopra un casotto, perché l’acqua è buona dopo che ci avremmo messo della ghiaia lavata e della calce viva da disinfettare, dopo che avremo sentito che l’acqua è buona, bisogna che sopra ci facciamo un casotto, con il suo sportello e nella trave sommitale (‘d culmégna)ci mettiamo una carrucola (sirèla) e, con una catena e una secchia (sècia) per attingere l’acqua, perché non possiamo lasciare aperto, l’acqua piovana non è buona da bere, non è acqua minerale, quindi bisogna che noi chiudiamo. Poi dopo che abbiamo fatto il pozzo, il padrone sarà contento
Attacchiamo il biroccio all’asino Matteo e poi carichiamo tutti gli attrezzi, piccone, picco con punta e taglio (cuntradèl), badile, mazza e le tagliole, andiamo a rimuovere quel ciocca (sóca) che c’è in mezzo al campo, che dà fastidio, che non ci consente di arare (rêr). Quindi, noi la estirpiamo, la portiamo a casa caricandola sul biroccio. Poi, quando siamo nell’aia, con l’accetta a due tagli con la penna ricurva (pudaj), la seghetta (şghèta), la scure, la scuretta e anche l’accetta (manarèin) faremo tanti pezzi (pcòun) da bruciare nel fuoco e i pezzi più piccoli (ciapèli o s-ciapèli) che ne risultano li adoperiamo per accendere il fuoco.
In questa mattina con la brina ghiacciata (galabróşna) tiriamo fuori il verro dal porcile, poi con la spola e il mazzuolo gli diamo un bel colpo in testa, mentre il norcino (maséin) con l’ accoratoio (coradōr) dà il colpo di grazia. Con il sangue che sgorga, la massaia (reşdōra) farà i sanguinacci. Dopo lo peliamo bene, gli diamo una passata con l’acqua bollente scaldata nel paiolo della fornacella (fugòun) e dopo lo impicchiamo con il palanco (taj) sotto il portico e poi il norcino lo squarta e farà metà [parte] per il padrone e metà per noi. Dopo, tiriamo fuori il fegato e la reticella e ci faremo dei fegatini (figadèin) da mettere nello strutto (dôleghg) da conservare in un orcio panciuto (trégn) così dopo dura alcuni mesi in cantina. Nel frattempo, il norcino lavora tutta la carne, [fà] i salami, cotechini prosciutti poi coppa, pancetta e noi intanto con il grasso facciamo i ciccioli (grasōj), sempre nel paiolo, peliamo la testa, le orecchie, tiriamo via le orecchie, il muso, i ganascini e tutta la roba della testa e anche gli zampini(sanpèin) e facciamo la soppressata e con le cotenne (còdghi) che ne risultano facciamo dei buoni umidi, con dei fagioli che raccogliamo nell’orto.
Domani mattina di buon’ora dopo che abbiamo accudito le bestie e siamo andati al caseificio, prendiamo le falci messorie (msōra)che abbiamo battuto ieri [gli si è dato il filo] e andiamo nel campo allo spuntare del sole prima che cominci a scaldare, prendiamo un fiasco di vino sottile e una d’acqua, da mettere all’ombra sotto alla quercia. Poi cominciamo a mietere facciamo i fastelli (manèli) i covi e i covoni. Bisogna fare il lavoro rapidamente (fêr dl ôvra) prima che arrivi la sferza del sole (la randa dal sôl). Nel pomeriggio inoltrato, la vacca Rosina non la possiamo attaccare al carro perché è gonfia (imbalunêda) [per il cibo fermentato. Prendiamo la vacca più giovane Giorgia la attacchiamo al biroccio e andiamo a caricare il frumento perché dopodomani viene la macchina da battere con la pressa per le balle di paglia che metteremo sotto il portico che adopereremo per fare il letto per le vacche. L’importante è che si riempia lo staio (minòun), riempiamo i sacchi di ortiche e frumento e li portiamo nel solaio così con il padrone chiudiamo la spartizione (spartagna).
Racconta quando, nel 1937, alcuni suoi paesani vollero chiamare il loro paese (Cà de Caroli) Sangrilà, come un piccolo paese dell’Himalaia.
Registrazione pervenuta il 24 novembre 2024.
Questa è la storia di Sangrilà, il nome che è stato dato al mio paese quando i miei paesani sono andati a vedere un film a Reggio. Sono venuti a casa così contentiche hanno voluto chiamare il mio paese come quel paese là. Quel paese là era un paesino piccolo, ai piedi dell’Himalaia dove tutti si amavano e si volevano bene. o racconto si intitola Sangrilà . Dopo aver cambiato nome nel mio paese tutti si volevano bene, tutti facevano tutto per tutti, lavoravano fino al venerdì, alla sera si radunavano in piazza a parlare del più e del menoe al sabato e alla domenica festeggiavano Sangrilà nella pista del direttore dell’officina, che nasceva sotto il Monte del Gesso. Allora loro ballavano, cantavano e recitavano. Recitavano le cose scritte dai miei paesani e anche le canzoni. Ma una sera la stella che doveva presentarsi alla festa non si è presentata (?), era scoppiata la guerra, i bambardamenti, con gli aerei che bombardavano le case del mio paese. Quindi, gli abitatnti pensavano a salvarsi la vita più che andrae alla festa e nessuno faceva qualcosa per qualcuno. Per anni (?) è durato Sangrilà, ma dopo la faccenda è cambiata. Io vorrei sapere che fine ha fatto Sangrilà, era bellissimo Sagrilà, il mio paese che si chiamava così, ma tutto era finito. Comunque, dopo la guerra, si sono aiutati lo stesso a costruire la case e tutto è finito bene. Io amo il mio paese perché è bello e tutti si vogliono ancora bene.
P.S. La signora Loretta ricorda benissimo : Shangri-La è un luogo immaginario descritto nel romanzo Orizzonte perduto di James Hilton del 1933. Da questo romanzo Frank Capra realizzò l’omonimo film nel 1937. (vedi Wikipedia alla voce Shangri-Là).
Legge un racconto scritto da lei stessa, dal titolo:
Diâlogh tra amîgh
Registrazione effettuata il 4 luglio 2024.
Dialogo fra amici
Un crampo, subito dopo aver fatto saltare dal letto un anziano, incontra l’osteoporosi: “Oh, ciao, come ti va con il lavoro?”
Lei: “Anche se agli anziani non fa piacere, il lavoro non mi è mai mancato, e a te?”
“Bè, la mia è una ditta piccola, ma sono curioso di sapere chi mi ha battezzato; se siamo qui tutti e due, qualcuno ci ha portato! “
Lei: “So solo che la gente è arrabbiata con noi, ci mette il bastone tra le ruote; io vado con loro dal dottore, e sento che raccontano i loro dolori, qualcuno ci aggiunge anche qualcosa. Lui, che ha studiato, ascolta, e gli dà un parere, poi gli allunga un foglietto firmato, con dei nomi strampalati, da portare in farmacia. Devi vedere in quanti ci sono: uomini e donne vestiti di bianco che tirano fuori pillole, boccette e flaconcini da scriverci sopra [a cosa servono] sennò ci viene della confusione. Ognuno viene fuori con la sua borsina più costosa di quella della spesa. “
“Fermati – dice il crampo – mi devi spiegare: ai farmacisti, siamo noi che gli diamo da mangiare?” “Onestamente – dice lei – mentre noi facciamo del male alla gente, c’è chi guadagna per farla guarire, per allungargli un po’ la vita, ma sono di razza mortale!
Sai? Uomini e donne hanno di brutto che più che curarsi mangiano di gusto e non si tengono controllati. “
Il crampo:” Scommetto che sono loro che ci hanno battezzato. È possibile! Adesso vedrai che gli sto addosso, come scade l’effetto della cura, li torno a pizzicare”.
L’osteoporosi: “Sai? La gente le inventa tutte per scampare, ma per mal che vada anch’io trovo sempre un osso da rosicchiare!”
Legge “ILa scola ad Ravinan”, una poesia scritta dall’amico Sergio Righi di Rovinato, piccolo borgo di case collocato sulla sponda modenese del Dolo, di fronte a Morsiano
La scuola di Rovinato
Sono nato e cresciuto parlando il dialetto,
con uomini, donne, giovani e vecchi.
Era la lingua che si parlava
quando si lavorava e quando si mangiava.
Quando si arrivava ad andare a scuola,
per imparare a contare e a scrivere qualche parola,
era facile fare le aste e colorare
la cosa difficile era il dialetto italianizzare.
In estate quando arrivavano i villeggianti,
rispetto a loro sembravamo un po ignoranti.
Nelle grandi città si parlava italiano
e non l’italiacano di noi rimasti a Rovinato.
E adesso che anche il nostro italiano e perfetto,
quando penso lo faccio sempre in dialetto.
E se l’italiano si parla (anche) in famiglia,
mi piace adoperare il dialetto per scrivere una poesia…
E quando un giorno andrò nel mondo perfetto,
sarà bello ritrovare le persone a cui volevo bene…
e parlarsi in dialetto.
Per ricevere tutti gli aggiornamenti da Lenguamedra