LÉNGUA MÊDRA

Rèș e la nôstra léngua arsâna

FONOTECA

Pagina in costruzione

La creazione di questa fonoteca nasce dalla sollecitazione contenuta nella Delibera della Giunta della Regione Emilia Romagna (n. 694 del 22 aprile 2024), nella quale veniva data un’indicazione di ricerca volta alla creazione di un archivio documentale, anche sonoro, per la salvaguardia e la valorizzazione dei dialetti, in base alla Legge Regionale 16/2014.
Il nostro intervento riguarda l’intera Provincia di Reggio Emilia ed in prima istanza ci siamo rivolti alle 42 biblioteche comunali per individuare persone con competenza dialettofona locale, disponibili ad inviarci una registrazione audio di pochi minuti. Pensiamo infatti che le biblioteche comunali possano fungere da nodi di una rete collaborativa e divenire esse stesse fruitrici della fonoteca.
Tuttavia, in seconda istanza, abbiamo anche sfruttato le molte conoscenze dirette che abbiamo, come gruppo di Léngua Mêdra, con persone parlanti dialetti ben caratterizzati.
Abbiamo chiesto ai nostri intervistati di raccontare nella loro lingua madre una qualsiasi storia a loro scelta, per favorire un eloquio spontaneo, che più dei contenuti possa fornire informazioni sulla fonetica delle tante e diverse varietà dei dialetti locali.
La ricerca è ancora in corso e ci auguriamo di poter raccogliere ancora tanti contributi significativi. Nel frattempo esprimiamo il nostro più grande ringraziamento a tutti coloro che fino ad ora ci hanno aiutato a realizzare la fonoteca.
Per un approfondimento delle differenze fonetiche e lessicali delle varierà dialettali presenti nella nostra Provincia, di veda lo studio di Denis Ferretti  a questo link

Bagnolo in Piano

Luciano, … anni

 

Racconta la storia del Canâlas di Bagnolo e dei mucchi di ghiaia sui quali da bambino giocava cun al bucîni di terracotta.

Vi voglio raccontare la storia del Canalâs (canale maestro). Era un posto dove ci passava e ci andava molta gente, a pescare, a cercare lombrichi, e poi c’è stato un momento che andavano tutti lì “ai verdi”, s’imboscavano ovunque  e una qualche volta l’automobile è anche caduta giù nell’acqua dalla riva del Canalâs.

Quando sono andato ad abitare al Canalâs nel 1957 avevano appena fatto la strada nuova, l’attuale via Casaletto c’erano dei mucchi di ghiaia lungo la strada che poi venivano gli stradini a spargerla. Noi ragazzi andavamo a giocare con le “boccine” di terra (palline in terracotta). Facevamo tutti i percorsi, poi giocavamo a “bócia e spâna”. Quando la pallina usciva (dal tracciato) o che eri squalificato o dovevi ripartire dall’inizio. Il problema era che con il freddo avevi le dita intirizzite perché c’era molto freddo e il gioco lo facevamo sempre in novembre e dicembre quando portavano la ghiaia. Veniva fatto tutto un bel giro attorno al mucchio bello grande, con delle salite, delle discese e anche una qualche galleria e poi chi arrivava primo vinceva le palline degli altri.

In questo secondo contributo,  Luciano ci racconta una tradizione della Vigilia di Natale nelle case dei contadini di Bagnolo.  

 

 

Registrazioni pervenute il 9 Gennaio 2025

Un’altra storia era quella della vigilia di Natale. Le nostre madri preparavano un tortellone di zucca oppure con un ripieno di pesto di marmellate. Poi, si andava nella stalla, si metteva il tortellone su un’asse di legno e poi si veniva bendati. Ti davano in mano una piccozza, poi ti facevano ruotare (e dicevano): – Picchia qui, picchia là, picchia qui, picchia là, per tagliare il tortellone. Tante volte si picchiava sul corridoio della stalla e certe volte si correva il rischio di dare una picconata alla vacca o nel canaletto di scolo del colaticcio (sulcadèl). Il gioco andava avanti per parecchio tempo e ci divertivamo. Quando avevamo finito di giocare, il tortellone veniva messo su un tavolino, sempre nella stalla, poi veniva tagliato e mangiato

Baiso

Ermelinda, 88 anni

Racconta: Cosa si mangiava quando c’era la miseria.

Colloquio con il figlio Corrado, 70 anni.

Registrazione effettuata il 25 giugno 2024.

-Presento mia madre agli amici di Léngua Mêdra. Parliamo nel dialetto di Baiso che mi ha insegnato lei e mia nonna.  Allora mamma quando sei nata?

– Sono nata il 12 ottobre del 35.

– Praticamente lo stesso giorno che Colombo ha scoperto l’America

– Anche quando è nato Pavarotti. Avevamo la stessa età, solo che lui cantava e io invece no.

– Cantava un po’ meglio di te.

– Ma ero brava anch’io, cantavo bene anch’io.

– Bene, oggi dovremmo parlare delle cose che facevate in cucina quando eri giovane, cosa mangiavate quando c’era della miseria. Tu dove sei nata?

– Io sono nata al Castagneto di Baiso.

– Quindi nel 35, finita la guerra avevi 10 anni, quando c’era una gran miseria.

– Una miseria grigia. Adesso il Castagneto vale perché dicono che è un bel posto, ci sono degli studiosi, una volta era come se fossimo tutti bischeri.

– Ho capito! Cosa mangiavate in quei tempi di miseria?

– Mangiavamo la suleda, la solata, fatta di mais. Dicevano che faceva bene ai vecchi, ma la mangiavamo anche i giovani.

– Ma cos’era, come era fatta?

– Era fatta di mais con la ricotta, una pestata di grasso, un po’ di cipolla,  poi la si metteva nel forno.

– Una pestata di grasso, perché il grasso lo si pestava?

-Lo si pestava sul piano di legno e mangiavano anche il legno perché tutte questi piani che sono in giro sono tutti forati,

– Insieme al grasso si mangiava un po’ anche  il legno.

– Adoperavate anche il ramaiolo per fare la pestata?

– No, il ramaiolo lo adoperavamo a tirar su la ricotta, facevamo il formaggio in casa e poi facevamo la ricotta dal siero e tiravamo su la ricotta dal siero poi per impastarla si usava il siero che c’era. Poi la mettevamo nel forno.

– Era quasi un piatto da re a quei tempi.

– La si faceva ogni tanto, non sempre.

– Questa era la suleda. E facevate i  casagaj?

Si li facevamo ma a Castagneto c’erano anche le castagne, quindi allora mangiavamo anche tante castagne.

E a proposito di castagne… i panetti di castagna li facevate?

I panetti di castagne li facevamo… quelli si facevano con acqua, farina e sale.

Cos’era quello un pane, un panetto?

– Era un panetto secco come un chiodo.

Però secondo me, a volte c’era un sacco di gente che non aveva neppure i denti…

No, lo comperavano anche, c’era chi veniva quando c’erano le feste, per San Mauro, il padre di Giancarlo M., Iseo, veniva da mia madre e diceva: -Mi fate un cesto di panetti che c’è la festa?

La fiera ..

Al Cavallo Rosso lo facevano a san Mauro…No, non al Cavallo Rosso*, a Casa della Regina, il casaro di Casa della Regina* dice: – Ballano. E io vado a vendere i panetti. Avevo una moto con un sidecar, e mettevo lì il cestino e li vendevo lì.

Il sidecar…

Quella carrozzina attaccata alla moto.

Bene, siamo a posto.

Non si tribolava tanto per andare a mangiare fuori.

Eh si mangiava poco allora

Si mangiava poco ma era meglio

Il colesterolo era sotto controllo.

Non si andava dal dottore a fare gli esami.

Ma mi sembra che tu abbia tenuto botta.

Comunque ci vado poco anche adesso faccio in modo di andarci poco.

*Il Cavallo Rosso e la Casa della Regina erano due caseifici di Baiso. Per San Martino, quando i caseifici erano fermi, si facevano feste danzanti improvvisate in cui si vendevano i panàt.

Bibbiano

Marisa, 74 anni

Racconta: una filastrocca che si diceva quando si chiedeva in prestito l’ alvadōr.

Registrazione effettuata il 10 ottobre 2024.

Qui da noi si usava fare il pane in casa e si usava il lievito (alvador) e succedeva a volte che facesse la muffa, a volte, quando non c’era tempo per rinfrescarlo o quando si rimaneva senza per un qualche motivo e si andava a chiederlo in prestito dai vicini e avevamo inventato una filastrocca: “ Oh reşdôra mi prestereste un po’ del vostro tingheltenghel che stanotte lo metto a prendere e domani ve lo torno a rendere”. Questa era la filastrocca che si diceva qui a Bibbiano ma anche a Barco ma abbiamo sentito qualcosa di simile anche a Nonantola e nel mantovano. Abbiamo fatto fare una ricerca riguardo a questo detto, sono state fatte delle ipotesi ma non hanno trovato il bandolo.

Campagnola

Elisa, 74 anni

Racconta un’antica forma di corteggiamento.

Registrazione pervenuta il 15 novembre  2024.

Io sono nata in una famiglia di contadini, in campagna, e ricordo sempre quello che mi diceva mia nonna. Quando ero una ragazzina cominciavano a girarmi attorno dei “muscòun” (letteralmente “mosconi”, cioè dei corteggiatori) e mi raccontava quello che succedeva quando era giovane lei. 
Quando un giovanotto aveva adocchiato una ragazza che gli piaceva, faceva così. L’aspettava alla domenica pomeriggio, sul tardi, quando usciva dal vespro, poi la seguiva mentre andava a casa e le diceva: – Con permesso, vengo con voi a casa dal vespro?
Allora la ragazza, se il giovanotto non le piaceva, rispondeva: – Il permesso è già dato, basta bene che non ritorniate!
Allora lui capiva che non le piaceva. Se invece era un giovanotto che le andava bene, gli rispondeva: – La strada è lunga e il sentiero battuto, se c’è il posto per uno c’è anche per due!
Allora il giovanotto capiva che poteva andêregh a muròuš, cioè cominciare a frequentarla.

Carpineti

Francesco, 73 anni

Legge una poesia di Eolo Biagini, dal titolo: 

Al mulîn dla Sgnorana

Registrazione pervenuta l’11 novembre 2024.

Il mulino della Signorana

Quel mulino vicino al Tresinaro
Era proprio un bel mulino
E con quell’acqua bella chiara
Che la beveva anche un bambino,

Era tutta una allegria
A partire dal bacino del mulino
Con le papere e la famiglia
Delle paperelle che andavano a spasso.

Quando il gallo alla mattina
Cantava dentro al pollaio
E la mamma dentro la cucina
Ci preparava da mangiare

il mulino incominciava la giornata
Con le sue tre belle ruote
Fino a sera ma inoltrata
Con la solita canzone

Una canzone un po’ all’antica
Senza viole né violini
Che parlava della fatica
Del mestiere del contadino

Le tre macine di pietra serena
Lassù sopra il paramento ( che fermava la farina)
Con una allegra cantilena
Facevano l’accompagnamento

Carica carica o bel mugnaio la tramoggia
Che noialtri nel girare
Ti daremo della farina,

Della farina bella bianca,
Profumata che sa di pane.
E preghiamo che non manchi
Mai in casa né oggi né domani.

Un topino in un angolo
Con due occhi un po’ furbini
Si sgranocchia per colazione
Di frumento due tre granellini.

Un ragnetto tesse la tela
Proprio sotto il paramento
E si arrotola leggera leggera
Una polvere di farina che pare d’argento

Quando penso ai tempi di allora
Cosa devo dire? Andava cosi.
A ripensarci a modo e a questo tempo
Non son più quei giorni

Con la moda e col progresso
Le tre macine e le tre ruote ( di pietra serena)
Son sparite ma già da tempo
E con loro anche la canzone.

Ma il mulino giù dietro il Tresinaro
Anche adesso che non c’è più
Mi ricorda l’acqua chiara
Della mia bella gioventù.

Castelnovo né Monti

Davide, … anni

Davide ricorda modi di dire tipici di Castelnovo ne’ Monti, quando le persone erano un po’ psicologi anche se non avevano potuto studiare e non avevano internet o la TV.

Registrazione pervenuta il 7 gennaio 2025.

Io abito a Busanella, vicino a Leguigno tra Casina e Marola, però sono nato e cresciuto a Castelnuovo. Mia mamma è di Maro, un paese sotto la Pietra (di Bismantova) e mio padre è di  Bora del Musso, una borgata vicino a Rosano. In casa abbiamo sempre parlato il dialetto, i miei fra loro parlavano in dialetto e con me parlavano in italiano e dialetto. Quindi io parlo il dialetto di Castelnuovo, ma è chiaro che qualche parola si è imbastardita. Tra l’altro, anche mio papà e mia mamma la stessa cosa non la dicono proprio nello stesso modo, una qualche differenza c’è, però il dialetto è quello di Castelnovo e dintorni. Il nostro dialetto è stretto, aspro, ma c’è da dire che una volta forse avevano studiato meno però erano un po’ più furbi. Vi racconto un qualche esempio per capire un po’ il nostro dialetto. Una volta erano anche degli psicologi, direbbero oggi, infatti dicevano: “A curare un matto ci vuole uno ancora più matto” e senza avere studiato erano quasi dei filosofi, insomma. Un detto famoso che i miei mi hanno sempre raccontato è: “Tutti i tempi arrivano basta aspettare”. Conoscevano la gente allora, infatti quando dicono che “In un bosco c’è una bestia, o piccola o grossa una bestia c’è, che non ce ne siano due”. Erano anche ironici a dire le cose, per esempio: “E’ meglio mangiare un panino in tre che patire fame”. Oppure: “Avendo dei soldi starebbero bene anche i poveretti!”.  Ancora: “Al coltello gli piace la carne di coglione”. Abbiamo detto che capivano la gente, anche se forse non avevano Internet, non avevano la televisione, sapevano leggere solo un poco però dicevano che “Ai sacchi ci si lega la bocca, alla gente no!”
 Quando uno era un po’ indisponente gli si diceva: “Sembri covato da una chioccia!” o anche “Sembra che tu sia nato per fare dispetto!” C’era voglia di divertirsi allora, con quel poco che c’era e la gente si inventava delle filastrocche per fare un po’ gli spiritosi, per esempio dicevano: “Quattro e quattr’otto, sette per tre ventuno, la metà dell’uovo è il tuorlo ma due tuorli non fanno un uovo!”. Oppure, un’altra che dicevano, che era poi un detto dei contadini, perché una volta avevano delle bestie, era: “A l’asino che ha ….. mettigli in bocca un dito, tiragli giù la coda e mai verrà giù la tua casa”. Si prendevano per i fondelli l’uno con l’altro, per esempio c’era un botta e risposta che una volta uno ha detto all’altro: “Oh, ascoltami, prestami la tua faccia che devo andare a far paura alla gente!”. E l’altro gli risponde: “perché con la tua hai paura che muoia?!” Allora siamo in inverno e bisogna sempre guardare le previsioni. Una volta non avevano le app, il meteo, quelle cose lì, e si affidavano all’ingegno: “Dopo tre scoregge viene la merda, dopo tre brinate viene la neve!”

Cavriago

Chiara, 68 anni

Recita due brevi filastrocche, una relativa al suo nome e l’altra legata alle previsioni del tempo che si facevano in passato.

Registrazione pervenuta il 21 novembre 2024

” Quando Chiara ha preso marito, sedie e panche saltavano in casa, sembrava ci fossero i ladri: era  Chiara che picchiava suo padre.” 

Quando le nuvole vanno verso sera (ovest) , prendi la rocca e fila. Quando le nuvole vanno verso mattina (est), prendi la zappa e poi cammina. Quando le nuvole vanno  in su (Sud), prendi la sedia e siediti. Quando le nuvole vanno in giù (Nord) metti il giogo alla vacca.

Guastalla

Alberto (Bebe), 80 anni

Racconta della passione della sua vita: la Canottieri di Guastalla.

Registrazione pervenuta il 06 dicembre 2024.

A parte il fatto che sono nato a Guastalla, in via Gonzaga, dove adesso c’è ancora la Cassa di Risparmio, dopo pian piano mi è sempre piaciuto andare a Po’, andare a Po’ alla Canottieri. Avevo 13-14 anni, andavo già alla Canottieri, si pagava 2-3 mila lire,  io andavo là e allora c’era il custode, un mio amico che era tornato dal Belgio, in pensione, io gli verniciavo le barche e lui mi pagava la quota, che io non li avevo 2-3 mila lire. Andavamo a pagarla da Scaltriti, un negozio che vendeva libri per la scuola, i libri per scrivere, le penne, vendeva tutte queste cose e faceva da tramite per la Canottieri, incassava le quote di quelli che volevano farsi soci. Negli anni, io ho sempre continuato ad andare alla Canottieri , fino al giorno d’oggi che nel ’59, un po’ più avanti, nell’89 sono diventato presidente  addirittura e tutti i giorni , anche se adesso abito a Poviglio, tutti i giorni io sono a Guastalla, alla Canottieri, perché mi piace segare l’erba, mi piace aggiustare quello che c’è da aggiustare intorno, se c’è qualcosa da verniciare lo vernicio, ho tutti i soci che mi seguono, e allora io cerco di fare il possibile perché a me piace molto stare alla Canottieri. Alla Canottieri abbiamo le barche, abbiamo i canoisti che vengono un po’ da tutte le parti, vengono i canottieri da Novellara, da Correggio, da Boretto, e abbiamo un mucchio di soci, abbiamo cento-centoventi soci, abbiamo i campi di calcio , campi da beach volley, campi da tennis, siamo una piccola società però siam sempre un centinaio di persone, un centinaio di persone che alla fin dei conti abbiamo una quota abbastanza accessibile, però se non ci diamo da fare l’un con l’altro  dandoci una mano, un domani la quota può diventare anche un milione, perché con tutte le cose che ci sono da fare c’è da diventare matti. Comunque, io mi trovo bene, ormai ho ammucchiato un mucchio di anni e tutti i giorni comunque io al pomeriggio sono alla Canottieri, sia d’estate che d’inverno, io son sempre lì e mi diverto, speriamo di stare bene e chiuso.

Montecchio

Franco, 65 anni

Una presentazione del paese di Montecchio sulla scia dei ricordi della propria vita.

Registrazione pervenuta il 24 Dicembre 2024.

Il paese di Montecchio

A salire la torre, che noi montecchiesi chiamiamo il campanòun e da lassù fermarsi per un po’ a guardare intorno: le strade, le case, la campagna, l’Enza, le montagne in lontyananza, il castello di Montechiarugolo,  ah! è come guardare il mondo dall’alto e pensare ai ricordi. Memorie del tempo passato. Guarda, là c’è la casa dove sono nato,  il cortile dove ho giocato, la stradina con la ghiaia, la strada che porta ad Ajola senza traffico,  il canale, le scuole, la chiesa con il bar. Memorie da bambino. E poi andando avanti la scoperta del paese: la piazza, le mura, il mercato nuovo, dove ci mettevano il luna park per la fiera di San Simone. Verso mattina (est) su vede la Chiesa della Madonna dell’Olmo, dove mi sono sposato e più in là l’Ospedale dove sono nati i miei figli. Ma guarda: si vede anche il muro del cimitero. Eh che tristi rocordi, i ricordi di una vita. Il mio Montecchio: il paese più bello del mondo. 

Novellara

(San Bernardino)

Sergio, 90 anni

Sergio racconta un episodio della seconda guerra mondiale, quando vide precipitare due aerei: anziché terrorizzarlo iniettarono in lui il desiderio di volare.

Il primo [aereo] era tedesco, è caduto. Io ero in campagna con mio padre che era andato a segare. Si sentiva un aeroplano che arrivava, poi si è fermato, si è aperto….  si è lanciato con il paracadute, ma io non sapevo neanche cosa fosse un paracadute. Allora dopo, pian pianino, l’aeroplano si è andato a conficcare sulla nostra terra là, e il pilota ha aperto il paracadute. Poi è andato a 300 m di distanza. Era tedesco ma a noi non interessava perché i tedeschi avevano la rabbia, non erano mica tanto amici. Se si fosse anche ammazzato…  invece no, per fortuna, non si è fatto niente.

Il secondo [aereo] era brasiliano. Ero lì fuori, vedo che arriva con l’ala che bruciava, l’ho guardato, ha ribaltato l’aeroplano, perché non c’era l’ eiezione, e anche lui ha aperto il paracadute. Io, da quel momento lì, mi è venuto quel tarlo lì [desiderio di pilotare un aereo, ndt] e non sono stato capace di rimuoverlo. Io, quando sentivo un aeroplano, stavo sempre fuori e mia nonna mi diceva: – Vieni dentro testone che ti mitragliano. Invece io no, passavano in alto e nella mia testa pensavo: “ chissà dove vanno, cosa hanno lì sopra, perché girano l’elica di un aeroplano?.

La pavēra, una comune pianta erbacea delle zone umide, si chiama in italiano carice.  La si trova anche in una filastrocca in In dialetto.

Il carice, qui nelle nostre zone, abbondava specialmente nei terreni nuovi. San Bernardino nel ‘500 era sommersa dall’acqua; dopo si è prosciugata e allora è terra di palude, si può dire. Per noi era una cosa importante perché, quando eravamo all’ epoca della raccolta, in primavera da giugno in poi, lo potevamo raccogliere. Quelli coscienti lo raccoglievano e lo tagliavano perché, dopo, ricresce; invece, quelli che fanno dei vandalismi lo estirpano: si raccoglieva più roba da portare a casa, però dopo non cresceva più, tant’è che adesso è protetto perché si sta perdendo. Era una cosa molto importante per noi, per le famiglie, per il nostro “vivere”, era una cosa necessaria. Negli inverni, quando si stava in casa, nella stalla in filôs, impagliavamo le sedie e si imparava anche ad impagliare guardando come facevano i più grandi. La pianta della pavra va raccolta, poi la si fa asciugare all’ombra, non al sole perché altrimenti si rovina la fibra, si sfilaccia tutta e si rompe. Invece, così, resta morbida solo a bagnarla. Di solito, la si metteva fuori al mattino fino alle 10, poi la ammucchiavano, la coprivano con un telo, con qualcosa se non c’erano piante da metterla all’ombra e poi, alla notte, la si apriva e lei si disidrata (?) con la rugiada e questa era la sua cura. C’erano delle mamme che avevano delle figlie pronte ad essere mogli, che  tenevano d’occhio noi giovanotti, che eravamo ragazzotti robusti, e c’era un detto all’inizio del ‘900 che diceva: “ Oh ragazzi pieni di stracci pieni di pavēra, siete ragazzi da prendere moglie?”Se loro dicevano “sì” allora gli facevano vedere le  figlie, già pronte, che avevano imparato a cucire la dote.

Reggio Emilia

Claudia, 57 anni

In onore della nonna Domenica, detta Bruna, Claudia ricorda i suoi modi di dire dialettali.

Registrazione pervenuta il 23 novembre 2024.

Reggio Emilia

Ilde, 77 anni

Esprime una lamentela tipica dalle nostre parti  delle anziane mogli verso i propri mariti, ma senza cattiveria, così, per dire… 

Registrazione pervenuta il 24 novembre 2024.

Mah, che marito che ho!  Come ho fatoo a trovarlo così lontano  dal mio carattere! Sembra che sis stato cercato con una lanterna. Peggio di così non poteva andare! Io mi preoccupo di tutto, lui non si preoccupa di niente, io sono una chiacchierona, lui non mi dice nemmeno una parola buona nemmeno in un’intera serata. 

San Martino in Rio

Carla, 73 anni

Quando i genitori non accompagnavano a scuola i loro figli .

Registrazione effettuata il  4 dicembre 2024

 

Sono nata a San Martino grande, in dialetto si dice così, però i miei erano andati ad abitare a Fazzano, dove avevano un piccolo appezzamento di terreno. A scuola sono sempre andata a San Martino con tutti i ragazzi del cortile. Eravamo un gruppo di 7 ragazzi, partivamo al mattino a piedi, non ci accompagnavano a scuola, facevamo 3 km, quindi neve, sole, pioggia: eravamo sempre in strada. Il nostro gioco era buttare la cartella, dalla gran voglia che avevamo di andare a scuola, davanti a noi soprattutto con la neve, e si rompeva sempre e quando andavamo a casa mia madre mi sgridava sempre perché facevo dei giochi da ragazzo, da maschio. All’epoca non si poteva, perché io ero una donna e dovevo fare …..avevo la fionda, però anche per questo prendevo altri nocchini, perché non si poteva. Poi, col tempo, pian piano, si è convinta perché eravamo solo due ragazzine con sei maschi e dei giochi da ragazzina non ne avevamo.

San Polo d’Enza

Dante, … anni

Racconta la vita della famiglia che lo ha allevato e che gli ha trasmesso il dialetto di San Polo. 

Registrazione pervenuta il 9 Gennaio 2025

Ciao a tutti, sono Dante. Sono nato a Parma, perché mia madre è parmigiana, però fin dalla nascita sono stato a San Polo e sono stato cresciuto da mia nonna, che parlava proprio il dialetto di San Polo ed è per questo che io parlo ancora il dialetto sanpolese, che ormai le persone fanno fatica a parlare perché diciamo soprattutto lavorando a Reggio e comunque andando a scuola a Reggio con i contatti che ha la gente al giorno d’oggi e soprattutto i ragazzi è più difficile trovare il vero dialetto del paese.

Io sono stato cresciuto da mia nonna. Mia nonna ha fatto una vita molto dura. Lei era rimasta orfana che aveva un anno e il mio bisnonno, il padre di mia nonna, era morto durante la Prima guerra mondiale. Mia nonna era orfana ed era l’ultima di sette figli e non ha studiato, perché nei tempi passati studiava quasi nessuno. Lei ha sempre fatto l’ortolana, poi ha sposato mio nonno. Mio nonno si chiamava Dante come me. Lui faceva il garzone del mugnaio, era molto povero ma era una persona con una forza straordinaria, sollevava sacchi di frumento da un quintale l’uno, ed era famoso per questo, era stimato come una delle persone più forti che c’erano a San Polo. Però è stato sfortunato anche lui, è morto molto giovane, a 34 quattro anni durante la Seconda Guerra Mondiale, alla fine del ’44. E’ morto il 28 dicembre del ’44 perché aveva contratto la tubercolosi. Prima di partire per la guerra doveva andare in Grecia, era andato in caserma e lì si era ammalato di tubercolosi. Allora non c’era la penicillina e la tubercolosi non si poteva curare, almeno qui in Italia perché in America invece e in Inghilterra avevano scoperto la penicillina ma in Italia non si trovava durante la guerra. Mia nonna quindi dopo la guerra era vedova con tre figli. Mio padre, che purtroppo è mancato da poco, era il figlio maggiore, aveva sei anni. Ha dovuto lavorare molto per mantenere la famiglia e durante l’estate andava a fare la mondina dalle parti di Vercelli, nelle risaie. Poi è andata in Riviera, a Finale, da quelle parti lì, in Liguria, a fare la cameriera e ha fatto delle fatiche della Madonna. E’ stata veramente una persona fortissima e ha fatto crescere la famiglia. I ragazzi, durante l’estate, quando lei era via a lavorare, venivano allevati da suo fratello, che faceva l’ortolano perché erano una famiglia di ortolani. Dopo alcuni anni, è riuscita ad avviare un commercio di ortaggi che coltivavano loro, andava al mercato con nil cavallo e i ragazzi intanto diventavano grandi e hanno preso la loro strada. Mio padre ha fatto il meccanico, ha lavorato molto anche lui, ha fatto delle fatiche esagerate, poi però è riuscito a farsi una posizione, si è fatto una famiglia, sono nato io e tutto sommato, insomma, lui era molto soddisfatto della sua vita. Le mie zie lavoravano come operaie e poi si sono sposate tutte due, una ha avviato un commercio di fiori, ha una serra e praticamente lavora ancora adesso che ha più di 80 anni, con suo marito che ne ha 89, e loro fortunatamente stanno benissimo. Io allora, fin da bambino, stavo con mia nonna, mia nonna parlava il dialetto sanpolese e per questo anch’io ho imparato a parlare il dialetto sanpolese. In pratica, questa è la storia e ho anche da dire che sono stato anche fortunato perché quando andavo alle scuole elementari avevamo una maestra che ci teneva molto che parlassimo in dialetto. Allora ci faceva imparare delle filastrocche in dialetto, ci faceva impare delle poesie e parlavamo anche in dialetto a scuola e non so se al giorno d’oggi si faccia ancora, credo che sia difficile, veramente, comunque è una delle ragioni per cui parlo ancora il dialetto sanpolese o almeno un dialetto somigliante al vero dialetto sanpolese. Vi saluto tutti. Grazie.

Sant’Ilario d’Enza

Angelo, 75 anni

In questo ricco contributo, Angelo racconta quattro momenti della vita contadina, dando il nome preciso agli attrezzi che venivano utilizzati. 

Registrazioni pervenute il 7 dicembre 2024

Il padrone del podere vuole che si faccia un pozzo là in fondo, perché sembra che ci sia una vena là sotto. Quindi noi ci prepariamo con una pala e un piccone dal manico corto e cominciamo a scavare. Però, prima di cominciare a scavare, si devono prendere due assi e disporle a formare una croce, le si inchioda, e si fa una bella croce lunga due braccia, due braccia e mezzo. In questo modo cominciamo a scavare e quando siamo giù circa all’altezza di un uomo, piantiamo dei ferri tutt’ intorno per sorreggere i sassi che saranno la camicia del pozzo, per tenerlo ben foderato; li mettiamo ben stretti, così il muro resta ben fatto. Dopo, si va sempre più giù, sempre più giù, sempre con la croce in mezzo e man mano che si va giù, un metro e mezzo – due metri, piantiamo sempre dei ferri abbastanza lunghi, che stiano dritti e che sorreggano il muro, che si costruisce sempre di sopra. Quando arriviamo a trovare la vena, cosa facciamo? Facciamo la camera un po’ più grande che ci possa stare una bella cisterna [che contenga] diversi quintali d’acqua. Così la croce resta in fondo, perché il vecchio proverbio dice che in ogni casa non c’è una croce, c’è n’è una più grande! per dire che ci possono essere delle disgrazie o altre cose però, in ogni casa dove c’è un pozzo, c’è sempre una croce, che è fatta come ognuno vuole. Quando dicevano, un tempo: – In quella casa c’è il pozzo dai mille tagli, ci buttavano giù i bambini quando non volevano che si vedessero o che venivano abortiti e li buttavano giù- invece non era vero, sono tutti dei pozzi a camicia che sono crollati e i ferri che si vedono sembrano tante lame, ma non sono lame,  erano solo i ferri che tenevano sù i sassi. Dopo, cosa succede: che bisogna farci sopra un casotto, perché l’acqua è buona dopo che ci avremmo messo della ghiaia lavata e della calce viva da disinfettare, dopo che avremo sentito che l’acqua è buona, bisogna che sopra ci facciamo un casotto, con il suo sportello e nella trave sommitale (‘d culmégna)ci mettiamo una carrucola (sirèla) e, con una catena e una secchia (sècia) per attingere l’acqua, perché non possiamo lasciare aperto, l’acqua piovana non è buona da bere, non è acqua minerale, quindi bisogna che noi chiudiamo. Poi dopo che abbiamo fatto il pozzo, il padrone sarà contento

Attacchiamo il biroccio all’asino Matteo e poi carichiamo tutti gli attrezzi, piccone, picco con punta e taglio (cuntradèl), badile, mazza e le tagliole, andiamo a rimuovere quel ciocca (sóca) che c’è in mezzo al campo, che dà fastidio, che non ci consente di arare (rêr). Quindi, noi la estirpiamo, la portiamo a casa caricandola sul biroccio. Poi, quando siamo nell’aia, con l’accetta a due tagli  con la penna ricurva (pudaj), la seghetta (şghèta), la scure, la scuretta e anche l’accetta (manarèin) faremo tanti pezzi (pcòun) da bruciare nel fuoco e i pezzi più piccoli (ciapèli o s-ciapèli) che ne risultano li adoperiamo per accendere il fuoco.

In questa mattina con la brina ghiacciata (galabróşna) tiriamo fuori il verro dal porcile, poi con la spola e il mazzuolo gli diamo un bel colpo in testa, mentre il norcino (maséin) con l’ accoratoio (coradōr) dà il colpo di grazia. Con il sangue che sgorga, la massaia (reşdōra) farà i sanguinacci. Dopo lo peliamo bene, gli diamo una passata con l’acqua bollente scaldata nel paiolo della fornacella (fugòun) e dopo lo impicchiamo con il palanco (taj) sotto il portico e poi il norcino lo squarta e farà metà [parte] per il padrone e metà per noi. Dopo, tiriamo fuori il fegato e la reticella e ci faremo dei fegatini (figadèin) da mettere nello strutto (dôleghg) da conservare in un orcio panciuto (trégn) così dopo dura alcuni mesi in cantina. Nel frattempo, il norcino lavora tutta la carne, [fà] i salami, cotechini prosciutti poi coppa, pancetta e noi intanto con il grasso facciamo i ciccioli (grasōj), sempre nel paiolo, peliamo la testa, le orecchie, tiriamo via le orecchie, il muso, i ganascini e tutta la roba della testa e anche gli zampini(sanpèin) e facciamo la soppressata e con le cotenne (còdghi) che ne risultano facciamo dei buoni umidi, con dei fagioli che raccogliamo nell’orto.

Domani mattina di buon’ora dopo che abbiamo accudito le bestie e siamo andati al caseificio, prendiamo le falci messorie (msōra)che abbiamo battuto ieri [gli si è dato il filo] e andiamo nel campo allo spuntare del sole prima che cominci a scaldare, prendiamo un fiasco di vino sottile e una d’acqua, da mettere all’ombra sotto alla quercia. Poi cominciamo a mietere facciamo i fastelli (manèli) i covi e i covoni. Bisogna fare il lavoro rapidamente (fêr dl ôvra) prima che arrivi la sferza del sole (la randa dal sôl). Nel pomeriggio inoltrato, la vacca Rosina non la possiamo attaccare al carro perché è gonfia (imbalunêda) [per il cibo fermentato. Prendiamo la vacca più giovane Giorgia la attacchiamo al biroccio e andiamo a caricare il frumento perché dopodomani viene la macchina da battere con la pressa per le balle di paglia che metteremo sotto il portico che adopereremo per fare il letto per le vacche. L’importante è che si riempia lo staio (minòun), riempiamo i sacchi di ortiche e frumento e li portiamo nel solaio così con il padrone chiudiamo la spartizione (spartagna).

Scandiano (Cà de Caroli)

Loretta, 70 anni

Racconta quando, nel 1937, alcuni suoi paesani vollero chiamare il loro paese (Cà de Caroli) Sangrilà, come un piccolo paese dell’Himalaia.

Registrazione pervenuta il 24 novembre 2024.

Questa è la storia di Sangrilà, il nome che è stato dato al mio paese quando i miei paesani sono andati a vedere un film a Reggio. Sono venuti a casa così contentiche hanno voluto chiamare il mio paese come quel paese là. Quel paese là era un paesino piccolo, ai piedi dell’Himalaia dove tutti si amavano e si volevano bene. o racconto si intitola Sangrilà . Dopo aver cambiato nome nel mio paese tutti si volevano bene, tutti facevano tutto per tutti, lavoravano fino al venerdì, alla sera si radunavano in piazza a parlare del più e del menoe al sabato e alla domenica festeggiavano Sangrilà nella pista del direttore dell’officina, che nasceva sotto il Monte del Gesso. Allora loro ballavano, cantavano e recitavano. Recitavano le cose scritte dai miei paesani e anche le canzoni. Ma una sera la stella che doveva presentarsi alla festa non si è presentata (?), era scoppiata la guerra, i bambardamenti, con gli aerei che bombardavano le case del mio paese. Quindi, gli abitatnti pensavano a salvarsi la vita più che andrae alla festa e nessuno faceva qualcosa per qualcuno. Per anni (?) è durato Sangrilà, ma dopo la faccenda è cambiata. Io vorrei sapere che fine ha fatto Sangrilà, era bellissimo Sagrilà, il mio paese che si chiamava così, ma tutto era finito. Comunque, dopo la guerra, si sono aiutati lo stesso a costruire la case e tutto è finito bene. Io amo il mio paese perché è bello e tutti si vogliono ancora bene.

P.S. La signora Loretta ricorda benissimo : Shangri-La è un  luogo immaginario descritto nel romanzo Orizzonte perduto di James Hilton del 1933. Da questo romanzo Frank Capra realizzò l’omonimo film nel 1937. (vedi Wikipedia alla voce Shangri-Là).

Scandiano (San Ruffino)

Enza, 94 anni

Legge un racconto scritto da lei stessa, dal titolo: 

Diâlogh tra amîgh

Registrazione effettuata il 4 luglio 2024.

Dialogo fra amici

Un crampo, subito dopo aver fatto saltare dal letto un anziano, incontra l’osteoporosi: “Oh, ciao, come ti va con il lavoro?”  

Lei: “Anche se agli anziani non fa piacere, il lavoro non mi è mai mancato, e a te?”

“Bè, la mia è una ditta piccola, ma sono curioso di sapere chi mi ha battezzato; se siamo qui tutti e due, qualcuno ci ha portato! “

Lei: “So solo che la gente è arrabbiata con noi, ci mette il bastone tra le ruote; io vado con loro dal dottore, e sento che raccontano i loro dolori, qualcuno ci aggiunge anche qualcosa. Lui, che ha studiato, ascolta, e gli dà un parere, poi gli allunga un foglietto firmato, con dei nomi strampalati, da portare in farmacia. Devi vedere in quanti ci sono: uomini e donne vestiti di bianco che tirano fuori pillole, boccette e flaconcini da scriverci sopra [a cosa servono] sennò ci viene della confusione. Ognuno viene fuori con la sua borsina più costosa di quella della spesa. “

“Fermati – dice il crampo – mi devi spiegare: ai farmacisti, siamo noi che gli diamo da mangiare?” “Onestamente – dice lei – mentre noi facciamo del male alla gente, c’è chi guadagna per farla guarire, per allungargli un po’ la vita, ma sono di razza mortale!

Sai? Uomini e donne hanno di brutto che più che curarsi mangiano di gusto e non si tengono controllati. “

Il crampo:” Scommetto che sono loro che ci hanno battezzato. È possibile! Adesso vedrai che gli sto addosso, come scade l’effetto della cura, li torno a pizzicare”.

L’osteoporosi: “Sai? La gente le inventa tutte per scampare, ma per mal che vada anch’io trovo sempre un osso da rosicchiare!”