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LÉNGUA MÊDRA

Rèș e la nôstra léngua arsâna

MÔD ED DÎR

Andòm a Mòdna

Questo non è un modo di dire ma un bell’esempio di Palindromo in dialetto Reggiano

Al bûş ‘dla Jacma

 Porzione di cielo il cui aspetto da indicazioni meteorologiche a breve

Al bûş ‘d la Jacma

Ovvero “Il buco della Giacoma”, che nessuna attinenza ha con l’anatomia della fantomatica Signora Giacoma.

In realtà si tratta di una porzione di cielo della città, osservando la quale si possono trarre previsioni meteorologiche un tempo ritenute di grande affidabilità. Ben poco si sa dell’origine di questa definizione e del suo preciso significato originario, se non che tale riferimento è presente praticamente in tutte le città emiliane, e che riguarda la previsione a breve, in pratica del tempo che farà in giornata o all’indomani.

A partire da Bologna, ove tale porzione di cielo si individua ad ovest di San Luca, guardando verso Casalecchio, e quando è coperta a Bologna dicono “Al bûs dla Iâcma l’ é tunbè”,

passando per Modena dove è chiamato Bûs ed la Sgnora,

per Reggio Emilia, dove troviamo anche nell’opera di Ficarelli “La storia ed Tugnett e la Mariana” due versi nei quali Tugnett dice a Mariana
“Il tempo si oscureggia, dispioverà sicuro
il buco della Giacoma si è fatto scuro  scuro.”

per arrivare a Parma dove viene anche chiamato “Al canton dla Jacma”, e “Il buco della Giacoma” è anche il titolo di una raccolta di scritti su Parma del giornalista scrittore Giorgio Torelli.

In linea di massima sembrerebbe trattarsi di una porzione di cielo rivolta più o meno a Ovest, quindi verso l’Atlantico del golfo di Biscaglia, da dove in generale provengono le masse d’aria umida che incontrando correnti più fresche da est danno luogo a rovesci.

A Reggio Emilia Al bûş ‘d la Jacma viene identificato dalla finestra campanaria della Chiesa di San Giorgio, traguardata da Via Squadroni, come da immagini sottostanti

Senza nessuna garanzia di certezza, proviamo ad indicare qui una supposizione sensata per l’originale riferimento alla Jacma, che non può certo essere la Signora Giacoma.

Troviamo questa definizione ricorrere in tratti dell’itinerario della via francigena, e la porzione di cielo guardata è quella verso Ovest, verso il Golfo di Biscaglia, verso San Giacomo di Compostela …

Il fatto che poi venga usato al femminile, probabilmente deriva dal fatto che il sistema linguistico emiliano esprime sotto certi punti di vista una lingua “femminista” ante litteram, dato che nei nostri dialetti tutto ciò che è grande, favoloso, importante, viene declinato al femminile, anche se riguarda sostantivi maschili;
ma questo fa già parte di un altro racconto.

Al calèndri arşâni

Dette anche Calèndi, che nel reggiano si osservavano in Marzo

Al calèndri arşâni

Dette anche “Calèndi”.

Tipica tradizione contadina di prevedere l’andamento meteorologico annuale in base alle osservazioni dei giorni di un determinato mese.

Pur essendo un sistema di previsione diffuso più o meno in tutt’ Italia, non si trattava certo di un metodo scientifico, ma bensì di tradizioni sviluppate nel corso di secoli, basate sugli aspetti geografici del territorio; si riscontrano infatti ampie discordanze territoriali su quale mese utilizzare per avere le indicazioni utili, e sembra che più si scende a sud, più viene anticipato il mese di osservazione.

Si va infatti dalle Calende di Santa Lucia che si cominciano a contare dal 13 di Dicembre, a quelle più diffuse a nord di osservare i giorni di Gennaio, dal 1° al 12°, uno per ogni mese dell’anno, annotarne la meteorologia ed interpretarla per l’anno in corso.

Alcune tradizioni avevano sviluppato un sistema di osservazione anche più analitico, interpretando queste prime dodici osservazioni come “le dritte”, ed aggiungendovene altre 12, dal 13° al 24° giorno, dette “le rovesce”. Poi si consideravano le “dritte” e le “rovesce” di ogni singolo mese (1° e 13° giorno per Gennaio, e così via) e si cercava di ricavarne un’indicazione.

Ebbene, al calèndri arşâni erano diverse, e si osservavano in Marzo !
Quindi la previsione delle Calende era la seguente:

1° Marzo

Previsione per il mese in corso.

2° Marzo

Previsione per il mese di Aprile.

3° Marzo

Previsione per il mese di Maggio.

4° Marzo

Previsione per il mese di Giugno.

5° Marzo

Previsione per il mese di Luglio.

6° Marzo

Previsione per il mese di Agosto.

7° Marzo

Previsione per il mese di Settembre.

8° Marzo

Previsione per il mese di Ottobre.

9° Marzo

Previsione per il mese di Novembre.

10° Marzo

Previsione per il mese di Dicembre.

11° Marzo

Previsione per il mese di Gennaio dell’anno dopo.

12° Marzo

Previsione per il mese di Febbraio dell’anno dopo.

Anche per le nostre calende si erano sviluppati sistemi più analitici di osservazione, distinguendo tra mattino e pomeriggio, per avere indicazione sulla prima e sulla seconda parte del mese di riferimento, oppure distinguendo addirittura ogni otto ore per avere indicazione sulle tre decadi del mese

Funzionavano ? Erano attendibili ?

Certo che il solo fatto di essere state osservate e tramandate per secoli testimonia di un certo affidamento che la cultura contadina vi attribuiva. Favorita senz’altro da un ambiente più stabile e meno perturbato dall’attivismo umano globale, così che la stagionalità si presentava con ricorrenze più regolari.

E comunque su tutto trionfava sempre il solido pragmatismo contadino, che in caso di inattendibilità aveva già il suo commento pronto:

E st’ān al calèndri e gh’ àn mia ciapé !

Al Maşâdegh

Ovvero “Il Maggiatico”, detto anche “Maggengo”!
Con cui si intende il primo taglio di erba fresca da dare alle mucche, dopo i mesi invernali alimentate a fieno, da cui anche il nome del formaggio prodotto nei due periodi, che da “Vernengo” (invernale, a fieno) diventa “Maggengo” (da maggio in poi con erba fresca).

Al Maşâdegh

Ovvero “Il Maggiatico”, detto anche “Maggengo“!
Con cui si intende il primo taglio di erba fresca da dare alle mucche, dopo i mesi invernali alimentate a fieno, da cui anche il nome del formaggio prodotto nei due periodi, che da “Vernengo” (invernale, a fieno) diventa “Maggengo” (da maggio in poi con erba fresca).


La spiegazione di questo modo di dire prettamente reggiano, ma più genericamente padano, raccontata dal nostro Luciano Cucchi in uno dei suoi Racconti del Tabarro.

An gh’è si trist cavagn ch’èn vegna boun na volta l’an

Non c’è cosa, per rovinata che sia, che prima o poi non faccia comodo

Arşân da la tèsta quèdra

Reggiani dalla testa quadra

Arşân da la tèsta quèdra

La caratteristica anatomica, vera o presunta, che da sempre ci viene attribuita dai nostri “vicini”.

Così i modenesi apostrofano i reggiani da almeno 400 anni, da quando Alessandro Tassoni, scrittore e poeta modenese scrisse nella sua opera più famosa, La secchia rapita, che fu il Dio Marte in persona a ridurre in quello stato la nostra povera testa.

Tassoni racconta di una guerra tra modenesi e reggiani, ispirandosi ad un evento storico. Nella Secchia Rapita, i nostri antichi concittadini vengono fatti prigionieri dai Modenesi e rinchiusi nel castello di Rubiera. Quando il Dio Marte, nelle vesti del condottiero Scalandrone da Bismanta, interviene per liberarli, per punizione li colpisce in testa, uno alla volta, con la sua lancia e “a tutti fatti avean le teste quadre

Frontespizio dell’opera La Secchia Rapita, nell’edizione del 1744

Illustrazione dell’episodio del Dio Marte che colpisce sulla testa i prigionieri Reggiani all’uscita dal Castello di Rubiera

Dal testo della Secchia Rapita, Canto IV, Ottave 65-66

 

Marte, che la sembianza ancor tenea
di Scalandron, per onorar la festa,
stando a la picca, ove al passar dovea
chinar il vinto la superba testa,
dava a ciascun, nel trapassar che fea
sotto quell’asta, un scappellotto a sesta:
cosí fino a l’aurora ad uno ad uno
andò passando il popolo digiuno.

Poi che tutti passâr, Marte disparve
lasciand’ognun di meraviglia muto.
Stupiva il vincitor che le sue larve
conoscer non avea prima saputo:
stupiva il vinto, poi che ‘l sole apparve
cinto di luce, e che si fu avveduto
con onta sua che le picchiate ladre
a tutti fatte avean le teste quadre.

 

Il fatto storico cui si ispirò Tassoni, secondo quanto si legge nelle note di Gaspare Salviani all’edizione del 1630 della Secchia Rapita, attribuite allo stesso Tassoni, sarebbe stata una guerricciola combattuta nel 1152 tra la lega formata da Modenesi e Parmigiani contro i Reggiani, che furono sconfitti, fatti prigionieri e portati a Parma. Il giorno dopo, fingendo di arderli vivi, i vincitori accesero in piazza un grande fuoco; poi fecero uscire i prigionieri con una canna in mano “che aveva in cima una banderola di carta, li facevano passare per certo luogo stretto, e nel passar che facevano davano a ciascheduno uno scappezzone o scappellotto su la nuca; e in cambio d’arderli facevano loro degli soffioni e ardevano loro la barba, e poi li mandavano via così svergognati e spauriti”.

Evidentemente l’epiteto teste quadre circolava molto tempo prima che il Tassoni lo mettesse in poesia, tanto che sempre Salviani, ci informa che i “ Modanesi oppongono ai Reggiani che abbiano le teste quadre, perché realmente molti di loro non l’hanno né tonde né ovate, come anche si dice de’ Genovesi che abbiano le teste acute, perché molti di loro l’hanno così. Però come questo è accidente di molti, non di tutti, il poeta finse che quelli solamente che patteggiati uscirono di Rubiera avessero le teste quadre… In ogni evento è da considerare che i capricci de’ poeti non fanno caso, e tanto più de’ poeti burleschi, che hanno per fine loro il diletto e non la verità; perché ben si sa che per altro li signori Reggiani sono molto onorati”.

L’origine del detto andrebbe dunque riferito alla credenza, allora diffusa ma priva di riscontri, della presenza di una caratteristica anatomica della forma del cranio di molti reggiani identificabile con la brachicefalia (cranio più largo che lungo) e contrapponibile alla dolicocefalia (cranio rotondeggiante e allungato).
I Reggiani però non stavano zitti alle canzonature dei modenesi, che venivano chiamati dai reggiani “nusón” (grossa noce), un termine che si è perso nei secoli e sul cui significato ci sono almeno due interpretazioniLa prima è che la testa dei modenesi era sì priva di spigoli, ma di forma molto simile ad una grossa noce.
Interpretazione questa rigettata da Prospero Viani, reggiano di grande cultura, che sosteneva invece che il termine derivava dalla grande presenza di alberi di noce nella provincia di Modena, e dalle noci i modenesi estraevano così tanto olio da utilizzarlo, si diceva, anche  per il battesimo al posto dell’acqua.


Molto più prosaicamente, nel gioco degli sfottò campanilistici, di solito molto più immediati e salaci, la tipica risposta del reggiano al modenese che lo apostrofa come Tèsta Quèdra è la seguente:
Uèter a gh li rotonda sol perché i piôc a v an magné i spîgh
(voi l’avete rotonda solo perché i pidocchi vi hanno mangiato gli spigoli)

 

Äs s’ciâpa pió mòschi cun ’na gòsa ed mēl che cun ’na bòta d’aşèj

Si acchiappano più mosche con una goccia di miele che con una botte d’aceto.

Äs s’ciâpa pió mòschi cun ’na gòsa ed mēl che cun ’na bòta d’aşèj

Si acchiappano più mosche con una goccia di miele che con una botte d’aceto.

Il nostro proverbio recitato qui in dialetto da Luciano Cucchi

Benché presente nel nostro dialetto, questo modo di dire non è solo tipicamente reggiano, ma probabilmente è un proverbio noto in tutto il mondo; questo non ne sminuisce la sua validità; anzi, proprio perché ha un valore assoluto, è un bene che sia diffuso in ogni luogo e in ogni lingua.

Di questi tempi sembra proprio che molti non ne conoscano il significato o, perlomeno, che non mettano in pratica l’insegnamento che dovrebbe trasmettere

Essere gentili con gli altri consente di ottenere risultati certamente migliori rispetto a metodi violenti o sgarbati. La gentilezza oggi è largamente dimenticata da troppe persone, sempre pronte ad offendere mantenendosi semmai nell’anonimato dei social. Per non parlare poi della violenza della guerra …

Credits: Charles Long 3D Illustrator

Un episodio di inizio maggio, ripreso dai media, ci conferma la validità di questo proverbio.

Valentina Palli, sindaca di Russi in provincia di Ravenna e diversi suoi collaboratori sono stati insultati per mesi da un signore novantenne (“una mosca fastidiosa”) che non tollerava il traffico davanti a casa sua. La sindaca poteva usare, se lo avesse voluto,  i metodi forti (“una botte d’aceto”) per far cessare quegli insulti ma ha preferito essere gentile presentandosi a casa di quel signore con una brioche (“una goccia di miele”), rompendo la solitudine di quel signore, intrattenendolo in chiacchiere sulla sua storia e quella della sua famiglia. Le visite poi si sono ripetute, sempre con l’offerta di una brioche. Come per magia son finiti gli insulti e, cosa ancora più impressionante, sembra che la strada sia diventata tranquillissima perché l’anziano signore non ne ha ha mai più parlato.


La versione reggiana del proverbio consente una piccola riflessione sull’importanza degli accenti nella scrittura del dialetto.
Nel dialetto reggiano La parola mel si presta a vari significati completamente diversi, a seconda dell’accento che si mette sulla e:
mél = mille
mêl = male
mēl= miele

Il nostro Luciano Cucchi pronuncia qui i diversi accenti

As pôl mia andêr a mèsa e stêr a cà

Non si può andare a messa e contemporaneamente restare a casa a fare i propri lavori

Ciapêr ’na ciavèda

Letteralmente: “Prendere una chiavata”, con significato di essere imbrogliati, giocando sul doppio senso della parola “chiavata”, che però è attinente al sigillo a forma di chiave che l’autorità competente apponeva sulle aste di misurazione (braccio, pertica)

Ciapêr ‘na ciavèda

Ovvero “Subire un colpo di chiave” !

La spiegazione di questo modo di dire prettamente reggiano, raccontata dal nostro Luciano Cucchi in uno dei suoi Racconti del Tabarro.

Dgî ch a gnî e gnân ‘n gnî e gnân.

Questo è lo scioglilingua più iconico e divertente del dialetto reggiano, che tutti prima o poi citano, e che quasi nessuno sa scrivere correttamente.
Nella traduzione libera significa “Dite che venite e mai che veniate davvero”mentre la traduzione letterale, che non tiene conto dell’espressività è questa: “Dite che venite e neanche non venite neanche”.

E prân prî prân !

Il divertente scioglilingua si è poi ulteriormente arricchito di un corollario in sintonia con il ripetersi di parole incomprensibili ai “forestieri”, che significa: “E pur potete pure !”.

Dgî ch a gnî e gnân ‘n gnî gnân

Ovvero “Dite che venite e mai che veniate davvero”.

Questo è senza dubbio lo scioglilingua più iconico e divertente del dialetto reggiano, che tutti prima o poi citano, e che quasi nessuno sa scrivere correttamente.

Con l’aiuto del nostro Denis Ferretti analizziamo qui di seguito lo scioglilingua parola per parola per comprenderne la grafia, la grammatica e la pronuncia.

Dgî

Dite. Se volessimo italianizzarlo, sarebbe “dicete”. Non è semplicemente “gi“, ma “dgî“. La “d” si sente appena e porta alla pronuncia della “g” come una doppia “gg“, come quando diciamo “aggiornamento”, ma senza pronunciare la “a” iniziale. La “i” finale ha un suono lungo, mostrato dall’accento circonflesso.

ch

che congiunzione subordinante. Nel reggiano genuino sarebbe “ach“. In ogni caso, per le regole fonetiche del reggiano, quando è in prossimità di altre vocali, come in questo caso, è obbligatorio troncarlo in “ch“.

a

voi pronome clitico della seconda persona plurale. C’è chi lo pronuncia “e“. Nella grammatica del dialetto reggiano ho proposto di scriverlo “ä” dando modo a ognuno di pronunciarlo secondo la propria abitudine. Allo stesso tempo lo si distingue dalla preposizione semplice “a” e dalla congiunzione “e“.

gnî

venite seconda persona plurale del verbo gnîr (venire) coniugato al presente.

e

e congiunzione, identica all’italiano.

gnân

neanche contrazione di “gnânca” (neanche). Nel dialetto moderno è usato più nella forma contratta che in quella completa che è sempre più rara.

‘n

non contrazione di “an“, avverbio di negazione. La n c’è e si sente chiaramente. E dà un suono dentale alla n della parola precedente che, se fosse pronunciata isolatamente, avrebbe un suono nasale.
Se non ci fosse questa ‘n, che scioglilingua sarebbe? La difficoltà è proprio quella di pronunciare la sequenza gnân ‘n gnî !

gnî

venite visto in precedenza, seconda persona plurale del verbo gnîr (venire) coniugato al presente.

gnân

neanche visto in precedenza, ma questa volta in posizione finale. Inconsciamente i reggiani non pronunciano la “n” in modo marcato, ma quasi la fondono con la vocale “a“. Fanno lo stesso con tutte le sillabe nasali, quando sono finali di parola.  Cân (cane) = (n) ;  Pân (pane) = (n). Sono pronunciate un po’ come le nasali francesi, ma senza far passare l’aria dal naso.

Ed ecco qui il nostro scioglilingua in tutto lo splendore della recitazione di Luciano Cucchi

Par gli appassionati di linguistica ecco qui di seguito il nostro scioglilingua reggiano trascritto nell’ Alfabeto Fonetico Internazionale, o IPA:

/ dʒi: ka’ɲi: eˌɲa:nɲi’ɲã : /


TRADUZIONE

Mentre la traduzione letterale, perdendo le assonanze tra le parole ripetute, diventa iperbolica e poco realistica:
“Dite che venite e neanche non venite neanche”,
la traduzione del senso è sì ben precisa, ma priva dell’arguzia che troviamo nel motto in dialetto:
“Dite che venite e mai che veniate davvero”.


COROLLARIO

Il divertente scioglilingua si è poi ulteriormente arricchito di un corollario in sintonia con il ripetersi di parole incomprensibili ai “forestieri”, che recita:
E prân prî prân,
col significato di:
“E pur potete pure”.

Dûr da râder

Duro da grattugiare, coriaceo, non accomodante

Èser a la cavdàgna

Ridursi sul lastrico

Èser furob c’me un şdas

Esser furbo come un setaccio, cioè far passare il buono e trattenere per sé lo scarto

Gustós cm’al mèl ed panşa

Piacevole come il mal di pancia

In avrîl a bóta anch i mânegh d i badîl

In aprile fioriscono anche i manici dei badili
Tipica iperbole Reggiana che celebra le rigogliose fioriture primaverili, ma con un corollario d’indicazione diuna buona o cattiva stagione agricola.

In avrîl a bóta anch i mânegh d i badîl

Ovvero, In Aprile qualsiasi pezzo di legno butta e fiorisce ! … Ma bisogna poi vedere …

La spiegazione di questo modo di dire prettamente reggiano, e del suo corollario agostano, raccontata dal nostro Luciano Cucchi in uno dei suoi Racconti del Tabarro.

In mancànşa èd cavaj as fa trotèr j’èsen

In mancanza di cavalli vanno bene anche gli asini

I s'ciflîn bişògna vèndrî quând a gh’é la fēra

I fischietti bisogna venderli quando c’è la fiera

La roşêda d San Şvân

Nel mese di giugno la data più significativa legata alla tradizione locale è
sicuramente il giorno di San Giovanni. O meglio “la notte” di San Giovanni

La roşêda d San Şvân

Nel mese di giugno la data più significativa legata alla tradizione locale è
sicuramente il giorno di San Giovanni. O meglio “la notte” di San Giovanni, che in
realtà rappresenta il solstizio d’estate, ovvero il punto massimo delle ore di luce e
ripropone da un punto di vista opposto i riti e le tradizioni del Natale da cui è
separata de sei mesi esatti.

Le tradizioni legate a questa festività sono antichissime e pagane. Risalgono al
periodo precedente l’occupazione romana, quando sul nostro territorio erano
presenti popolazioni di origine celtica, che furono dapprima assoggettate all’impero
e poi, con l’avvento del cristianesimo, convertite alla nuova religione di stato.

Quando il cristianesimo si sostituì alle religioni pagane preesistenti, la politica
generale fu quella del rispetto delle tradizioni antiche e del minimo impatto sulle
usanze locali a cui si assegnò solamente un valore diverso. Così come la
preesistente “festa del sole” del solstizio d’inverno divenne Natale, nella notte di
San Giovanni convergono le tradizioni che esaltavano i poteri della luce e del fuoco
tipiche di tutte le culture precristiane fin dalla notte dei tempi. Nel giorno più breve
dell’anno secondo il folclore (il solstizio astronomico in realtà è il 21 giugno), le
comunità antiche celebravano riti scaramantici che avrebbero voluto rallentare la
discesa del sole e mettere in fuga le tenebre e gli spiriti maligni da esse
rappresentati.

San Giovanni nella nostra cultura è un giorno di festa. Tradizionalmente,
considerando il periodo in cui l’orto offre il meglio, si mangiano i tortelli verdi, così
come a Natale si mangiano i cappelletti in brodo con ripieno a base di carne. Piatti
ricchi e costosi, che non ci si poteva permettere tutti i giorni, ma riservati a
occasioni speciali come, per l’appunto, la notte più breve dell’anno, in cui si
festeggia l’estate e si può star fuori fino a tardi.

Molte tradizioni sono legate alla “rugiada di San Giovanni” che avrebbe proprietà
miracolose per tante cose. Forse è proprio per questo “culto dell’acqua” che la

Chiesa ha scelto di associare a queste tradizioni il Santo associato al rito del
battesimo, dove l’acqua ha un ruolo fondamentale.
La rugiada di San Giovanni arrivò perciò a rappresentare l’acqua del battesimo e le
si attribuirono poteri miracolosi e propiziatori. Nel reggiano si raccomandava alle
ragazze in età da marito di stare alzate fino all’alba perché essere esposte alla
rugiada della notte di San Giovanni avrebbe assicurato loro un buon matrimonio. In
altri casi si diceva che la rugiada di San Giovanni avesse altre virtù che andavano
dal favorire la crescita di capelli molto belli al mantenimento della virilità. Per i più
giovani era spesso una scusa per rimanere fuori più del solito e in tempi in cui la
contraccezione era quel che era, spesso andava a finire che la profezia del
matrimonio “miracolosamente” si avverasse proprio in conseguenza degli
avvenimenti di quella calda notte di festa.

Per quanto riguarda la gastronomia locale, il ruolo di San Giovanni è
importantissimo nella preparazione dell’infuso di produzione casalinga più
tradizionale: il nocino. Perché venga perfetto è necessario che le noci prima di
essere raccolte abbiano avuto esposizione alla leggendaria rugiada di San
Giovanni e proprio questo giorno è perciò il momento esatto in cui devono essere
raccolte per avviare il processo di lavorazione che ci fornirà questo squisito liquore 1
.

Piccola appendice lessicale: Guâsa o Roşêda? Due sinonimi che in realtà sinonimi
non sono.

Visto l’argomento, colgo l’occasione per spiegare la differenza tra due termini che
anche in dialetto oggi tendono a essere sovrapposti. In alcune zone si tende a dire
sempre “guâsa” e in altre sempre “roşêda”. Soprattutto nelle città. Nella cultura
contadina e nei dialetti più conservativi invece i parlanti erano ben consci della
differenza tra questi due fenomeni meteorologici. E’ una differenza, tra l’altro,
presente anche in italiano, ma oggi è una conoscenza che appartiene solo ai
meteorologi, mentre nella tradizione contadina si trattava di una cosa risaputa a
ogni livello.

1 Per un’antica ricetta del nocino si veda:
http://www.dialettoreggiano.net/index_file/alnusein.htm

La rugiada “la si alza” – recita una famosa canzone popolare. In realtà anche la
rugiada si deposita, ma siccome si forma a seguito della condensazione del
vapore contenuto nell’aria a contatto con le superfici precedentemente esposte al
sole, si ha l’impressione che salga dal basso, bagnando l’erba, le piante e le
superfici che sembrano respirare, come l’erba, le foglie… ma anche oggetti del
tutto inanimati come i tetti e le selle delle biciclette, soprattutto a inizio estate.
La rugiada di San Giovanni, perciò è tipicamente “roşêda” anche se in alcune
varietà è impropriamente nota come “guâsa ‘d San Şvân”… e ovviamente noi
rispettiamo anche le derive linguistiche locali, spesso legittimate da proverbi come
questo:

Chi ciâpa la guâsa ed San Şvân al sta bèin per tót l’ân

La “guâsa” vera e propria (guazza in italiano) però sarebbe tipicamente autunnale
e, in ogni caso, è dovuta alla presenza di nebbia che quando diventa troppo densa
può lasciare sulle superfici uno strato d’acqua così che le cose si bagnano come se
piovesse. La “guâsa” bagna molto di più della “roşêda” e dà anche l’impressione di
scendere dall’alto. La locuzione “durmîr a la guâsa” significa dormire esposti alla
guazza ovvero non avere un tetto sulla testa essendo molto poveri. Condizione che
è molto più gravosa nella stagione più fredda e comporta un grande disagio.
“Durmîr a la roşêda” farebbe quasi pensare a qualcosa di gradevole, almeno
nell’immediato, anche se poi potrebbero esserci conseguenze non sempre
piacevoli. “L’amōr e ‘l caghèt, chi ‘n al prōva ‘n al crèd” – diceva mia nonna.
Tralascio la traduzione.

“Roşêda” comunque trasmette un senso di fresco ed è percepita come un
fenomeno positivo, al pari della brezza… fa pensare ai boccioli di rose, ai prati
fioriti. La Guâsa, al contrario, trasmette un senso di freddo e di fastidio… fa
pensare ai reumatismi, al buio, al maltempo. Questo almeno nel lessico molto ricco
trasmessomi dai miei nonni che parlavano una variante dialettale di tradizione
contadina. Localmente, in zone diverse, potrebbero esserci derive linguistiche
diverse che hanno portato alla scomparsa di uno dei due termini o a un loro uso
indistinto.

Mnèr l órs a Mòdna

Mettersi a impresa da non ne trarre onore, né guadagno.

Quând t’în fè ’na bèla a t câsca ’n’urècia

Quando fai qualcosa di ben fatto ti cade un orecchio (detto di qualcuno che non combina mai niente di buono)

San Şvân al fà vèder l’ingân

San Giovanni fa veder gli inganni

San Şvân al fà vèder l’ingân

Ovvero “San Giovanni fa vedere gli inganni”, che non ha proprio a che fare con le rivelazioni di un Santo.

In realtà per Reggio Emilia, ed in pratica per tutta l’Emilia, si fa riferimento alle unità campione di misurazione commerciale, alle quali ci si poteva sempre riferire per evitare di essere raggirati.

La distinzione tra i nostri territori ed il resto d’Italia si rende necessaria perché l’accostamento San Giovanni / inganni è ricorrente, ma con significati diversi:
soprattutto nei confronti del fiorentino “San Giovanni non vuole inganni“, e del brianzolo “San Giuan fa minga ingann“, dove il riferimento è all’immagine del Santo coniata sul fiorino d’oro a garanzia del peso ed autenticità della moneta.

Tornando a noi invece, occorre risalire a prima del 1861, data di adozione del sistema metrico decimale, ed alle abitudini indotte dall’estrema frammentazione politica del territorio italiano, così che ogni piccolo stato, quasi ogni città aveva un proprio sistema di misure di riferimento.

In particolare nell’Emilia centrale si sviluppò l’abitudine di rendere il battistero cittadino, generalmente consacrato a San Giovanni Battista, sede pubblica di alcune misure commerciali, così da consentire ai cittadini di verificare la correttezza delle transazioni in caso di dubbio.

A Reggio Emilia due unità di misura lineare erano esposte nella colonna sinistra della facciata del Battistero, in piazza Prampolini, dove sono tuttora visibili le scanalature che ospitavano i regoli graduati di metallo ormai perduti, come simulato nell’immagine elaborata.
In caso di contestazioni quindi il Magistrato ricorreva a questi campioni per stabilire la verità, per cui:

Oggi non troviamo un riscontro oggettivo tra le scanalature residue e le misure “reggiane” di allora, vuoi perché mancano i regoli graduati, vuoi perché il Battistero è stato oggetto di vari restauri, tra cui quello della facciata del 1880.
Sembra comunque che la base fosse il “braccio mercantile” reggiano, pari a 0,641 m, di cui la scanalatura più corta rappresentava un multiplo, forse pari a 2, e la scanalatura più lunga rappresentava la “pertica reggiana“, pari a 6 bracci.

Spènder aqua

Orinare