Zampirone. Si pensa che sia il nome comune di una cosa, in realtà si tratta del cognome del suo inventore il veneziano Giovanni Battista Zampironi (1836-1906). Il suo marchio vive da più di 150 anni ossia da quando Zampironi aprì, in via Manin a Mestre, un laboratorio per la produzione di piccole piramidi tronche a base di polvere di piretro. Chi era questo Giovanni Battista Zampironi? Chiariamo subito non è stato l’inventore della formula antizanzare. E’ stato un abile e perfino geniale diffusore di un prodotto, aggregandovi nel proprio nome e marchio il prodotto stesso. Laureato in chimica, di famiglia benestante, subentrò presto nella gestione della farmacia “All’ Insegna della Fortuna”, della famiglia Zampironi situata in Campo San Moisè al civico 1494. Un esercizio all’ epoca molto conosciuto, tanto che anche Friedrich Nietzsche e Italo Svevo si fermarono a comprarvi medicinali. Ma quello che ha reso famoso il nome Zampironi è stata l’intuizione di commercializzare i piroconofobi a base di piretro. Piroconofobo, deriva dal greco “pyr”: fuoco, “cono”: cono e “fobos”: paura, un nome non troppo tranquillizzante e mal pronunciabile. Zampironi lo cambiò e lo trasformò in “fidibus insettifughi”. Anche questo alle nostre orecchie non è una meraviglia, ma c’è da tener conto che nell’ Ottocento la parola “fidibus” (corda di strumento musicale) era molto conosciuta perché era il nome dato a un pezzetto di carta, tagliato regolarmente e arrotolato su se stesso, che, acceso su un fuoco, serviva per accendere la pipa o il sigaro. Zampironi, creò anche una apposita scatola, con disegnati simboli grafici e con il suo cognome inciso sopra, promosse la commercializzazione del suo prodotto con i mezzi più avanzati del tempo, partecipando anche ad esposizioni e fiere, anche di là dall’oceano, e con investimenti nella pubblicità sui quotidiani. La piramide “fidibus insettifughi” di Zampironi pesava 2,5 grammi, era alta 3,5 centimetri; bruciava in pochi minuti. La forma attuale, a spirale del prodotto per cacciare le zanzare, risale al secondo dopo guerra.
Rigattiere, robivecchi, persona o oggetto di poco valore; è un sostantivo che può indicare indifferentemente qualsiasi oggetto o persona con caratteristica negativa, nella tradizione popolare reggiana indica un oggetto rotto o brutto o inutilizzabile o che non può essere, economicamente, riparato o una persona trasandata.
Di etimo incerto, parrebbe derivare dal termine “Zavaglio” derivato dall’antico italiano “zavali”: persona di nessun conto, un prestito dal turco “zavalli”: misero, meschino, poveretto, disgrazíato, derivato aggettivale di “zaval” dall’ arabo “zawãl”: sparizione, cessazione, declino.
Nel “Dizionario universale della lingua italiana” del 1842: «Zavalì: voce usata assai più comunemente in Firenze , dicendosi: “Un povero Zavali”, per fare intendere una persona da non farne conto.»
Oppure potrebbe derivare dal nome di un antico funzionario bolognese che procedeva all’inventario e alla valorizzazione di beni in caso di vendita o spartizione di una eredità, chiamato “Zavaglio”, il quale inventariava di tutto, anche oggetti rotti o di valore minimo. Questi oggetti per tradizione popolare vennero poi soprannominati “zavagli” da cui il dialettale “şavaj”. Questa figura la troviamo menzionata in “Collezioni e quadrerie nella Bologna del Seicento” scritto nel 1998 , da Raffaella Morselli e Anna Cera Sones, dove si legge: «…Se da semplice “zanaglio” (la dizione dialettale è “zavaglio”, ancor oggi usata per definire robivecchi) si diventa periti specializzati nel giro di qualche decennio, bisogna sottolineare che il mestiere di perito di soli quadri e disegni a Bologna sembra essere stato agganciato alla corporazione degli artisti, e non a quella dei Drappieri cui gli “zavagli” generici afferivano. […] Già di primo acchito affìora dunque la vitalità e la mobilità del mercato artistico bolognese, che è tale da richiedere, a partire dall`inizio del secolo, lo sviluppo e la ridefinizione di una serie di figure professionali pertinenti, periti generici e specializzati, tecnici del settore e mercanti. Tutti fanno parte della “compagnia de’ zanaglij”, ovvero della corporazione dei “Drappieri e strazzaroli”, secondo quanto scrive Matteo Ruberti in calce all’ elenco da lui stilato dei beni di Giovan Battista Gaudenzi nel 1695, definendosi “homo del numero della compagnia de’ zanaglij”. Tuttavia già nel 1635 Giacomo Calzolari viene definito “pubblico perito e zavaglio di Bologna” nei documenti dell’eredità del dottore in Medicina e Filosofia Giacomo Ercole Montecalvi a testimonianza dell’avvenuta abilitazione di una categoria ormai necessaria, non solo come rivenditori di oggetti usati, ma anche di veri e propri conoscitori.»
Pare derivi dall’antico alto tedesco “geicz”: voracità, gran fame; con la “s” intensiva, eliminazione della “i” e accorpamento cz→zz: sgeicz→sge(i)zza→sghessa→sghégia; la troviamo nel modenese “sghéssa”, nel lombardo”sgheiza, sgüssa”, nel piemontese “sgheisi, nel sardo “sghinzu” e persino nell’italiano antico “sghescia” ora pare in disuso.
Şmerglêr: emettere suoni lamentosi, piagnucolare, frignare, vagire, gemere, anche miagolare d’amore, il verbo “smergolare” nell’ italiano moderno, a quanto pare, non esiste, tuttavia il GDLI lo prende in nota e dice: «Smergolare, toscano, cantare in modo monotono e noioso. Voce di area lucchese, derivato da “sbergolare” con la sovrapposizione di smergo». Di “sbergolare” dice: «Parlare a voce molto alta. Voce di area pistoiese, composta dal prefisso latino “ex-“, con valore intensivo, e da “bergolare”» del quale dice: « Antico ciarlare, cicalare, chiacchierare. Di etimo incerto: da raccostare a berciare». Probabilmente derivante da un percorso etimologico risultato da adattamenti e trasformazioni di diversi termini di origini toscane con principio, forse, da un non attestato “versiare”: fare versacci, così dice l’ “Oxford Languages”, da cui “berciare”: strillare a squarciagola, in preda al dolore o all’irritazione, da raccostare a “bergolare”: ciarlare, cicalare, chiacchierare, a cui, nel pistoiese, viene aggiunto come prefisso una “s” (latino “ex-“) con valore intensivo ottenendo così “sbergolare”: parlare a voce molto alta. Sul “Vocabolario dell’uso toscano” di Pietro Fanfani del 1863 si legge: «Smergolare. Dicesi di quel cantare monotono e nojoso che fanno per lo più le donne intente a qualche lavoro. (Vocabolario lucchese).». Nel “Vocabolario etimologico della lingua italana” di Pianigiani si dice che “sbergolare” ha lo stesso etimo di “berciare”.
Teofilo Folengo, nel volume 2 delle “Maccheronee” del 1552 scrive: «smergolare: ‘idest’ (trad.: “cioè”) vociferare, gridando, cantare, ‘valde clamare’ (trad.: “gridare/piangere molto”).»
Nella Tesi di dottorato di Giacomo Micheletti, presentata all’ Università degli Studi di Pavia Dipartimento di Studi Umanistici nel 2018 si legge: « smergolare, “piagnucolare”, regionalismo orientale dal significato primo di “cantare in modo monotono e noioso.»
Altri sono di parere diverso come il modenese Galvani che definisce “şmêrghel” come: “emettere l’acuto strido degli smerghi” e aggiunge “non che il modenese ‘smergler’ per piangere acutamente”. Di questo “acuto strido degli smerghi” del Galvani ne parla anche il veneziano Luigi Carrer che in “Prose edite ed inedite” del 1846 ha scritto: «Venezia all’ incontro, erede della grandezza delle città antiche, percoterà di meraviglia anche dopo il giro di mille e mille anni, il pescatore tapino che figge nel loto la barchetta, e smonta; e girando gli occhi all’ intorno, ripensa nella sua rozza ma sincera malinconia, che là dove ei passa solitario, o accompagnato non più che dai zeffiri e dall’ acuto strido dello smergo palustre, sorgeano basiliche, e fori, e teatri, e tumulto di popolo ricco e deliziante». Il sito “uccellidaproteggere.it” al capitolo riguardante lo smergo dice invece: «Il canto dello Smergo maggiore ricorda un aspro gracchiare. In primavera, tuttavia, l’anatide emette un fischio dolce e lamentoso, che si discosta sensibilmente dal verso abituale, preannunciando l’arrivo della “stagione degli amori”…»
Di questo “fischio amoroso” e dell’ “acuto strido” non ci sono descrizioni e testimonianze dettagliate in quanto le diverse informazioni riguardanti lo smergo non riportano queste sue caratteristiche.
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Şôbia: giovedì, ha origini medioevali e deriva da “jovia”, da “Jòvis-die”: giorno di Giove, cioè giovedì, con riferimento al giovedì grasso (şôbia grâsa), giorno d’inizio della festa, arrivato a noi attraverso trasformazioni regionali: da “jovia” a “cobia / çobia / çuoba, zoba / zobìa / zoja / zuoba / zuebia / zuòbia / zóbia / zòbia”, a seguito della modificazione fonetica di alcune zone la mutazione della “z” in “g”: “giuebia / giobia”, nel reggiano mutata nella “ş”: “şôbia”. Sembra che il vocabolo sia stato pubblicato per la prima volta nel “Glossario di Monza” risalente forse ai primi decenni del X secolo, che era un glossarietto bilingue romanzo-romaico, conservato nell’ultima pagina di un codice della Biblioteca Capitolare di Monza. Il piccolo glossario (una sessantina di vocaboli) si pensa sia stato scritto per chi, a quel tempo, si fosse recato all’estero.
Zobia non è sempre stato sinonimo di ‘giovedì grasso’, nel XIII secolo era chiamato “Zobia/çuoba/ çobia” ecc. con abbinato “santa” ed era il nome dato al giovedì precedente la domenica di Pasqua, in cui la Chiesa commemora l’ultima cena e l’istituzione del sacramento dell’eucarestia.
Questa una poesia in veneto di quel periodo dove troviamo “Zobia” scritto “çuoba”: “O anima, io t’ envido çuoba santa, / Che tu vegni alla benedeta çena / A recordarte de quelo sermon / Che dise Cristo per salvaciom.” Questo invece è uno scritto che si trova nel “Decalogo bergamasco” del 1178 circa, scritto, a quanto pare, da un poeta trovatore tal Colo de Perosa: “La zobia sancta Crist a san Petro disse: / «Chi de a giadi fere, a giadi perisse»”. Dal “Codice dei beccai” ferraresi del 1385 : «…e la çobia dì seguente dibia consegnare a i masari de la dicta scola soto pena de soldi v de marchesam per çascaduno animale.»
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