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LÉNGUA MÊDRA

Rèș e la nôstra léngua arsâna

ETIMOLOGIA A-B

A

Adêşi

Adêşi: adagio, lentamente; composto da “ad” e “êşi” derivato dall’antico francese (XII sec) “aise”: comodità, agio, che pare avere origine da una radice comune germanica – celtica ” azi – az, ais”. 

Ne “L’elemento germanico nella lingua italiana” Zaccaria dopo  aver elencato la traduzione  di “agio” nelle varie lingue romanze  scrive: « A questo nome molto dibattuto il Diez seguendo Iunius, Schilter e Castiglione, assegna per base la radice germanica “azi”, che scorgesi in gotico “azeti” opportunità, “azets” facile, comodo» più avanti riporta il parere del lessicografo francese Émile Maximilien Paul Littré che accettando l’origine germanica fa notare che anche nel gallico esiste una radice “az, ais”, Littré non esclude che, tale radice, fosse comune al germanico ed al celtico, e che il nome romanzo si possa ascrivere anche al celtico, come è avvenuto in parecchi altri casi. Prima di elencare le varie derivazioni sviluppatesi dalla radice “azi” elencate dal Du Cange, Zaccaria scrive: «Certamente fra le lingue neolatine quella ove prima (sec. 12°) si mostrò e si sviluppò il vocabolo in quistione è la francese, e forse da essa si propagò a tutte le altre.» 

Dal “Dictionnaire occitan” del “Le Congrès permanent de la langue occitane”: «d’aise, ad-aise: lentement, doucement, avec précaution»: lentamente, dolcemente, con cautela. 

Da l ‘Ortolang: «L’ italiano “agio” e il portoghese “azo” sono presi in prestito dal provenzale “aize”, della stessa origine del francese “aise”, che invalida l’ipotesi che fa derivare le forme romanze a un latino volgare “aziare”.» 

Nel “Vocabolariuo etimologico” del dialetto di Fresonala (prov. Alessandria): « Adäsi avv.pr. adòsia-dä-si Adagio, lentamente, senza fretta. Dal provenzale “aize”: a proprio agio, senza fretta. In francese “à l’aise”.» 

Arghetêr

Rimettere, vomitare, termine del dialetto novellarese derivato dal mantovano “argatàr”, adattamento dell’italiano “rigurgitare”, con metatesi del prefisso “ri-” in “ar-“, a sua volta dal latino “ingurgĭtāre” : (con cambio di prefisso “in-“<“ri-“) inghiottire, ingoiare, in fretta per evitare sensazione di disgusto, anche mandar giù cibo o più spesso un liquido con avidità, il latino è composto dal prefisso “in-” e “gurgĕs, gurgĭti”: gorgo.

B

Badalóch

Badalóch: baccano, fracasso; grande quantità di oggetti; babbeo, fesso, tonto, antico tenere a bada il nemico con scaramucce o con piccoli scontri.
Probabile origine gallica/germanica.
Su “Dizionario Gallo-Italico” di Mazzoni Toselli: «Badalucco: scaramuccia leggera. Latino “levis pugna”. Dal Gallese “baeddu”: battere, donde “badalatius” che trovasi negli antichi monumenti nel significato di scaramuccia, e di combattimento. Dal Gallese “baeddu” derivarono “battere” e “battaglia”».
Pianigiani fa derivare “badaluccare” e “badaloccare” dalla composizione dell’antico germanico “baidòn”: attendere e “luogen”: spiar di nascosto, da qui il senso di “cercare, di attirare in insidie, allettare adescare”, appoggiandosi anche su quello che afferma il Caix che lo crede derivato da “badare” e “alloccare” che secondo il Caix varrebbe “addocchiare per tendere insidie”.
Il Menagio in “Le origini della lingua italiana”: «Badaluccare. Leggiermente scaramucciare, per tenere a bada, e trattenere. Item, “scherzare”. È un diminutivo di “badare”, nel significato di “tardare”. “Badare, bada, badaluo, badaluco, badalucare, badaluccare”. Item, “da badare, badinare” : onde il Francese “badiner”.»
Ortolang: «Badiner (1549): plaisanter avec enjouement, faire le badin»: scherzare scherzosamente, essere giocoso. “

Bérla

Bérla: equilibrio stabile, pare derivare dal femminile di “birlo” vocabolo di area milanese che era il nome dato a una trottola di legno, di misura grossa, che veniva lanciata con una corda e fatta girare a colpi di frustino, era un gioco in uso prima XVI secolo. Termine usato nel reggiano nell’espressioni, (anche loro di derivazione milanese), “andêr şò ‘d bérla”: perdere la bussola, le staffe, l’autocontrollo o l’equilibrio mentale e “èser şò ‘d bérla”: non essere equilibrato, non in vena o essere fuori fase. Sul “Vocabolario milanese italiano” di Giuseppe Banfi del 1870 si legge: « Birla, birlo: palèo […] cosetto a imbuto  massiccio, di legno a strie o no nel corpo, col quale giuocano a frusta i ragazzi. » Il “palèo”, citato da Banfi, è il nome di una grossa trottola, che veniva fatta girare colpendola con una frusta, di etimo ignoto c’è chi lo fa derivare da “palla”, chi da “puleggia”, chi da “pala” ma nessuno è sicuro dell’ipotesi presentata.  Più avanti Banfi continua e dice: « “Andà foeura del birlo”, Fig. dar nelle stoviglie o ne’ lumi: fortemente adirarsi. “Andà giò del birlo”, cascar di collo, uscir o cadere di grazia o dallo staccio a… di quando si perde l’opinione o l’affetto d’uno.» Nel “Vocabolario milanese italiano ” del 1839 di Cherubini si legge: « Birlo. Trottola. Trottolone. Cono di legno con un ferruzzo in cima, e con alcune strie nel corpo, che i fanciulli fanno girare per trastullo mediante una cordicella avvoltagli intorno intorno in quelle strie». In lingua ladina «Birla, gorgo, mulinello. Fig. furia, scatto d’ira, collera; “canche ge vegnìa  chele birle la me dajea”: quando le venivano  quegli scatti d’ira mi picchiava; “far sutar la birla”:  fare arrabbiare; “a te prear no me far sutar la birla!”: ti prego non farmi arrabbiare!»

Sul vocabolario bussetano “Barat Barat Desfat” di Cavitelli del 1999 si legge: « Andar so ‘d birla, (mutare il normale equilibrio). Dare i numeri; impazzire. Dallo spagnolo “birle”: rullo» etimo che però non pare esatto.

Berléngh

Berlengo, gergo arcaico, tavolo da pranzo o da gioco, dal francese antico “berlenc”: tavolo da gioco, dal francone “brēdling”: idem e per estensione luogo di gozzoviglie, dove fare baldorie, folleggiare.

Da “berlingo” hanno avuto origine diversi altri termine per esempio “berlingare”: chiacchierare, parlare, conversare specialmente a stomaco pieno, dopo avere abbondantemente mangiato e bevuto; “berlingatore”: mangione, chiacchierone; “berlingozzo”: nome di una ciambella che i contadini toscani usavano fare in occasione di un nozze; “berlingaccio”:  festa che si celebra a Firenze e e dintorni il giovedì grasso ossia il giovedì precedente l’ultimo giorno di carnevale, “berlingozza”: antico ballo contadino e altri.

Nel vocabolario Ferrai-Serra: agg. Un poco squilibrato.

Bôda

Bôda: bodda forma dialettale di “botta”: rospo, figurato donna cicciona, grassa; di etimo sconosciuto; termine di origine toscano/versigliese in particolare pisana,  livornese e  lucchese.

Mestica fa derivare la parola da una radice “but” indicante gonfiezza (da cui anche ‘botte’). Devoto-Oli, pensano invece ad un germanico “butta”: calzatura grossolana, ma questa ipotesi è però esclusa nella tesi: “Gli idronimi della Lucchesia – Analisi dei nomi dei corsi d’acqua della provincia di Lucca”di Gabriele Panigada dove, tra le altre cose, si legge: «Può ricondursi al tema onomatopeica “bot(t)”, dapprima col senso di ‘scoppiare, fendersi con fragore’, poi, per traslato ‘enfiare, gonfiare’. […] (bodda) rospo; ben rappresentato specialmente nei dialetti centro-sett. e in dialetti francesi. “bot, bod” […] Etimologia sconosciuta. La supposta origine germanica non ha alcun serio fondamento». Più avanti: «Il rapporto del greco “bóthrakos”: rana con “bóthros”, fosso, “botro”, renderebbe seducente l’ipotesi di una connessione di “botta” col tipo tirrenico “bot-/bod-“: fosso in quanto la rana e il rospo sono animali anfibi che vivono caratteristicamente nei fossi.»

Sul “Voci usate nel dialetto lucchese”: «bodda: rospo; animale velenoso di forma simile al ranocchio, ma meno agile, e comunemente più grosso. Grospo»; nel ” Vocabolario lucchese”: «bòdda: bòtta; boddacchìno: ‘girino’; boddaio: podere o anche luogo qualunque umido e basso, quasi adatto per le bòdde»; “botta” parola usata da Niccolò Machiavelli nella “Lettera a Francesco Guicciardini”: «… nel passare che fece l’erpice addossole, sentendosi la botta stropicciar forte, gli disse: “Senza tornata”, la quale voce dette luogo al proverbio che dice, quando si vuole che uno non torni: “Come disse la botta all’erpice “. …»; usata dal Boccaccio nel Decamerone, quarta giornata, novella settima: «…era sotto il cesto di quella salvia una botta di maravigliosa grandezza…»; invece “bodda” usata dal Carducci in “Ricordi di gioventù”: « …quando, a un tratto, ci si scoperse tra i piedi una bella bodda: è il nome, nel dialetto della Versilia, d’un che di simile al rospo»; dal Pascoli in ” Poemi conviviali”: «… fuggono ranchi i piccolini  di qualche bodda: tali i figli morti  avanti ancor di nascere…»

Brasadèla

Bracciatella, ciambella con il buco; dolce a pasta dura: pare che dal 1200 fino al 1920 nella Diocesi di Reggio, come in quella di altre città, ci fosse l’usanza a Pasqua rosa di regalare una bracciatella ai ragazzi e alle ragazze del Comune cresimandi in Duomo. Lo stesso regalo veniva fatto il lunedì dopo ai cresimandi della montagna.

Veniva chiamata così perché c’era l’usanza per i neo-cresimati di andare a far vista ai parenti portando questo dolce infilato in un braccio. In quei due giorni “Piâsa Grânda” era invasa da bancarelle che vendevano, oltre le coroncine, rosari e libretti da messa, anche le bracciatelle infilate in grossi bastoni. Questo il semplice racconto della tradizione reggiana.

Gianni Quondamatteo, etnologo riminese, nel suo “Grande dizionario (e ricettario) gastronomico romagnolo” tra le altre cose scrive che “bracciatella” è una voce del XIII secolo e il dolce è documentato, come “bracidellus”, in una glossa latina medioevale del X secolo.

Secondo la rivista di studi romagnoli “La Piè” questo singolare nome deriverebbe dal fatto che veniva spontaneo, ai primitivi venditori, usare il braccio per tenere comodamente in mostra le ciambelle con il buco. Infatti, nelle cronache romagnole medievali, si parlava, riferendosi a dolci semplici a forma di ciambella col buco, di “bracidellus” in lingua tardo latina (da cui il termine dialettale romagnolo “brazadel”) e si racconta che gli ambulanti alle fiere di paese tenevano queste ciambelle inanellate in grossi bastoni o addirittura infilate nel braccio.

Savino Rabotti, in “Parla come mangi”, scrive che “brasadèla” deriva dal tedesco “bretzel”: ciambella ma il “bretzel”, chiamato anche “brezel, pretzel, pretz, breze o brezn”, è il classico pane salato tedesco e austriaco, diffuso anche in Alto Adige e Svizzera, dalla forma di cuore o nodo intrecciato.

L’origine del nome “bretzel” si intreccia con storia e leggenda, in un nodo indissolubile e che rappresenta, anche a livello visivo, la peculiarità di questo stuzzicante alimento. La prima di queste racconta che i “bretzel” siano il cibo da merenda più antico del mondo, potendo addirittura far risalire la sua origine ai monasteri del sud della Francia e del nord Italia intorno al 610 d.C. Questo pane prenderebbe il nome dal latino “bracellus”, ossia piccole braccia, per via della forma come di due braccia intrecciate in preghiera. Il riferimento risale quando alcuni monaci del Nord Italia utilizzarono delle parti avanzate dall’impasto del pane e ne fecero striscioline che poi intrecciarono tra di loro in modo da formare due braccia e in mezzo 3 buchi a rappresentare la Santissima Trinità.

Un’altra possibile origine del nome sarebbe da ricondurre a un altro termine latino: “brachiola” ovvero “piccolo braccio/braccino”, poi mutato in “brazula”, termine che poi in lingua tedesca è stato tradotto come “bretzel/brezel” a rappresentare le braccia incrociate.

Un’altra leggenda dice che a inventarli fu un frate italiano, che utilizzò gli avanzi dell’impasto del pane, dandogli la forma di braccia in gesto di preghiera e con tre fori a simbolo della Santissima Trinità. Diede questa merenda in regalo ai bambini che imparavano a memoria preghiere e versi dei testi sacri. Il nome “pretzel” deriverebbe dalla parola latina “pretiola” e cioè “piccola ricompensa”.

L’Ortolang” francese dice: «L’antico alto tedesco deve essere collegato a un latino volgare “brachitella” (diminutivo di “brachita, -us”, derivato di “brachium”: braccio). È possibile che il latino sia stato trasmesso in lingua germanica dai dialetti dell’Italia settentrionale (Bologna brazadèla, attestata già nel 1250 in forma latina “braçadella” in Du Cange) che risalgono al tipo “brachiatella”. Infatti sul suo “Glossarium” il Du Cange scrive: « Braçadella, a voce vernacula bononiensi Brazadêla» ossia ‘voce dialettale bolognese Brazadèla’.