Abbiamo sentito l’esigenza di una sezione “OSPITI A NOI VICINI” per poter aprire questa nostra Antologia a voci del sistema linguistico emiliano che sentiamo particolarmente affini.
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È il caso di Alberto BERTONI, modenese typical (secondo la definizione datagli da Edmondo Berselli), che segue con occhio benevolo il nostro percorso di Léngua Mêdra, e che ci ha fatto l’onore di donarci una sua poesia inedita, nel suo dialetto che definisce “lingua ritrovata“.
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Bertoni è nato a Modena nel 1955. Il suo curriculum didattico e scientifico è estremamente ricco: Professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea e di Prosa e generi narrativi del ‘900, presso il Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna; Bertoni è un intellettuale a tutto campo, in quanto critico letterario, scrittore, traduttore, direttore di collane editoriali, poeta in lingua e ora anche poeta dialettale. L’ elenco delle sue pubblicazioni è lunghissimo e, per chi volesse scoprirlo, è facilmente consultabile on line. [1]
In questa occasione a noi interessa presentare qui frammenti della sua scrittura come poeta dialettale.
[1] www.unibo.it/sitoweb/alberto.bertoni/cv
Frammenti in versi o singole poesie dialettali Bertoni li aveva incastonati in precedenti raccolte in lingua, ma la sua prima opera completa in vérs mudné∫ è piuttosto recente, come ci dice in modo molto originale il colophon di Zàndri (Ceneri):
Lo stesso Autore racconta, nella premessa alla raccolta, il suo rapporto con il dialetto “determinato da un processo di amputazione, castrazione, rimozione e infine riscoperta”. Quando Alberto era un bambino, tutti in famiglia parlavano in dialetto, con l’eccezione della madre Luciana, maestra elementare, che impose anche al marito Gilberto di parlare con lei e con il figlio solo ed esclusivamente in italiano. Il dialetto non fu pertanto la léngua mêdra di Alberto Bertoni bensì, come lui la definisce, léngua pèder, perché la riscoprì molto più tardi, nei colloqui con il padre affetto da Alzheimer e ormai libero di rivolgersi al figlio in modenese.
Nel suo lungo processo di riavvicinamento al dialetto, Alberto Bertoni ha subito anche il fascino di grandi poeti come Franco Loi, Raffaello Baldini, Tolmino Baldassari, Paolo Bertolani ed Emilio Rentocchini.
Soprattutto le ottave di Emilio Rentocchini hanno stimolato Alberto Bertoni a tentare la scrittura in dialetto, quando gli affiorava “spontaneamente alla penna la prima frase in dialetto” seguita poi “da una specie di matassa in prosa” che veniva risolta con “un lungo lavoro di ricostruzione metrico-prosodica e di vocabolario, per portare alla forma grafica corretta i modi di dire, il lessico e l’ortografia delle parole”. Ancora i tempi non erano maturi per una raccolta in dialetto, se nel 2002 scriveva:
“Io, ad esempio, non farei mai un libro composto tutto di poesie in dialetto: ma poi chissà…”.
[2] Alberto Bertoni, Il sosia di Providence e altri incontri fra l’Emilia e l’America, Edizioni Diabasis, 2002
Dopo 15 anni, quel chissà ha salvato in corner Bertoni, per usare un linguaggio calcistico da lui amato. E anche l’origine più profonda del suo desiderio di scrivere in dialetto era già presente quando scrisse che “in linea di principio, ma mentre lo faccio mi accorgo che è un’osservazione generica, credo di servirmi del dialetto per parlare da un’intimità più ravvicinata, che comprende su un piano di assoluta parità persone che non ci sono più, come appunto i miei nonni, o persone giunte a una sorta di soglia-frontiera della loro vita o amici molto cari”.
Bertoni dedica infatti la sua raccolta Zàndri al nonno materno:
Mario Sighinolfi, nato come me
un 23 di marzo (del 1900), che
– di nascosto a sua figlia – mi ha insegnato
il pochissimo modenese che so.
Una dedica che sugella il debito che tanti di coloro che scrivono in dialetto hanno nei confronti dei loro nonni/nonne.
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Fabio Marri, collega di Bertoni all’Università di Bologna, nella postilla alla raccolta, ci dà un’ altra preziosa lettura del rapporto fra passato e presente nelle poesie di Bertoni:
“Certo, il dialetto è un occhio rivolto soprattutto al passato, eppure in queste poesie (se l’impressione non mente) la parola più frequente è adès, mentre c’è un solo aiér, messo però subito a rinforzo di un “oggi” (la nostra càmbra lòfi / impièda aiér come incô/dai tô òć); ma si potrebbe dire che queste zàndri sono indispensabili per fecondare di nuovo la terra, tanto più se il termine zàndri si allarga al senso delle “ceneri”, dei resti mortali dei nostri cari e dei grandi del passato, che ci incitano “a egregie cose.”
La poesia che Alberto Bertoni ci ha donato è San Zemiàn a Tokyo, dove la nebbia provoca un corto circuito fra la vita frenetica di Tokyo e la più serena Modena, ancora capace di ascoltare in sogno il suo Santo Patrono.
SAN ZEMIÀN A TOKYO
Beh, mo vót che San Zemiàn
al sia ‘rivèe fin chè
tant per fer un gir
anch da sta pèrt dal mànd?
Perché a Tokyo a un bèl mumèint
an s’è vést piò gnint, ed cólp
l’è gnùda sò ‘na nèbia
mo ‘na nèbia
che nuèter a-s sàmm catèe
come in Paradì∫
a nudèr cun di ànzel
dimàndi cîn e zal
in mez a un mànd
ch’l’è un mez casèin
anzi un casèin bèl grand
i saràn soquànt milièrd
tótti al matèini
ch’i prélen in rotànd
e ch’i-s fàn di mèz inchìn
e dal muìni da lasèr basî…
Però i lavóren
vàca s’i lavóren
i n’én menga bòun ed fermars
da ‘na quèlch pèrt
i-s móven, i-s dàn da fèr
dedzà e dedlà
i pèren dal mòli
e sò e zò
e però… però
chisà pò s’i a-l càten
almeno ogni tànt
al tèimp ed pinsèr
o ‘d tôr un bèl respìr
prémma ch’agh córa
un ràign fra i cavî
o un còrev agh zìga
in zémma agli uràcc
che ‘d la vétta
a-m di∫ in insànni Zemiàn
i-n n’àn capî
un azidèint ed gnìnt.
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SAN GEMINIANO A TOKYO
Beh, ma vuoi che San Geminiano
si sia spinto fin qua,
solo per fare un giro
anche da questa parte del mondo?
Perché a Tokyo a un certo momento
non si è visto più niente,
si è alzata una nebbia
tanto fitta
che noi ci siamo trovati
come in Paradiso,
a nuotare con degli angeli
molto piccoli e gialli,
in mezzo a un mondo
che è un mezzo casino,
anzi un casino bello grande,
saranno parecchi miliardi
tutte le mattine
a girare in tondo
e a farsi dei mezzi inchini
e delle moine da lasciare di sasso.
Però lavorano,
accidenti se lavorano,
non sono mica capaci di fermarsi
da qualche parte,
si muovono, si danno da fare
di qua e di là,
sembrano delle molle
e su e giù,
però… però
chissà poi se lo trovano
almeno ogni tanto
il tempo di pensare
o di prendere un bel respiro
prima che un ragno
gli corra fra i capelli
o un corvo gli urli
nelle orecchie
che della vita
– mi dice in sogno Geminiano –
non hanno capito
un accidente di niente.
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Con il permesso dell’Autore pubblichiamo anche un piccolo saggio di Zàndri, un’altra poesia dove ritorna forte il legame tra Bertoni e quel Pòst bastèrd zitèe cìna che chiude la raccolta.
PÒST BASTÈRD ZITÈE CINA
a Francesco Guccini
Mèdra o pèder, la léngua,
èlber o smèinta,
àmm c’al cmànda e al bacàia
o dánna c’a-t insèigna a cantèr?
Alóra, gh-àla colpa Mòdna
s’l’a-s ciòca tótt i dè
in fànd a la bácca
fin a la punta di stivài
perché nuèter a sàmm sól
el paròli c’a bia∫gàmm
tramèζ ai dèint
e brì∫a la ca’ ind-va stàmm,
el prédi, al fiómm, chi dû fónζ
dabàs ai sintêr…
Post bastèrd, sé, zitèe cìna
mo anch la zitèe d’la prémma mina,
d’la prémma canzòun,
d’la prémma psìga
svudèda in un purtòun.
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PICCOLA CITTÀ BASTARDO POSTO
a Francesco Guccini
Madre o padre, la lingua,
albero o seme,
uomo che a voce alta comanda*
o donna che t’insegna cantare?
Allora, che colpa ha Modena*
se ci batte tutti i giorni
in fondo alla bocca,
fino alla punta delle scarpe,
perché noi siamo solo
le parole che ruminiamo
fra i denti
e non la casa dove abitiamo,
le pietre, il fiume, quei due funghi
là sotto nei sentieri…
Sì, piccola città bastardo posto,
ma anche città della prima ragazza,
della prima canzone,
della prima vescica
svuotata in un portone.
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Nota per la lettura dei segni grafici speciali
∫ = esse dolce di rosa
s = suono sordo di soglia
ζ = zeta dolce di zanzara
Bibliografia
Alberto Bertoni, Zàndri (Versi modenesi), Book Editore, 2018