Cerca
Close this search box.

LÉNGUA MÊDRA

Rèș e la nôstra léngua arsâna

FONOTECA

Pagina in costruzione

Baiso

Ermelinda, 88 anni

Racconta: Cosa si mangiava quando c’era la miseria.

Colloquio con il figlio Corrado, 70 anni.

Registrazione effettuata il 25 giugno 2024.

-Presento mia madre agli amici di Léngua Mêdra. Parliamo nel dialetto di Baiso che mi ha insegnato lei e mia nonna.  Allora mamma quando sei nata?

– Sono nata il 12 ottobre del 35.

– Praticamente lo stesso giorno che Colombo ha scoperto l’America

– Anche quando è nato Pavarotti. Avevamo la stessa età, solo che lui cantava e io invece no.

– Cantava un po’ meglio di te.

– Ma ero brava anch’io, cantavo bene anch’io.

– Bene, oggi dovremmo parlare delle cose che facevate in cucina quando eri giovane, cosa mangiavate quando c’era della miseria. Tu dove sei nata?

– Io sono nata al Castagneto di Baiso.

– Quindi nel 35, finita la guerra avevi 10 anni, quando c’era una gran miseria.

– Una miseria grigia. Adesso il Castagneto vale perché dicono che è un bel posto, ci sono degli studiosi, una volta era come se fossimo tutti bischeri.

– Ho capito! Cosa mangiavate in quei tempi di miseria?

– Mangiavamo la suleda, la solata, fatta di mais. Dicevano che faceva bene ai vecchi, ma la mangiavamo anche i giovani.

– Ma cos’era, come era fatta?

– Era fatta di mais con la ricotta, una pestata di grasso, un po’ di cipolla,  poi la si metteva nel forno.

– Una pestata di grasso, perché il grasso lo si pestava?

-Lo si pestava sul piano di legno e mangiavano anche il legno perché tutte questi piani che sono in giro sono tutti forati,

– Insieme al grasso si mangiava un po’ anche  il legno.

– Adoperavate anche il ramaiolo per fare la pestata?

– No, il ramaiolo lo adoperavamo a tirar su la ricotta, facevamo il formaggio in casa e poi facevamo la ricotta dal siero e tiravamo su la ricotta dal siero poi per impastarla si usava il siero che c’era. Poi la mettevamo nel forno.

– Era quasi un piatto da re a quei tempi.

– La si faceva ogni tanto, non sempre.

– Questa era la suleda. E facevate i  casagaj?

Si li facevamo ma a Castagneto c’erano anche le castagne, quindi allora mangiavamo anche tante castagne.

E a proposito di castagne… i panetti di castagna li facevate?

I panetti di castagne li facevamo… quelli si facevano con acqua, farina e sale.

Cos’era quello un pane, un panegtto?

– Era un panetto secco come un chiodo.

Però secondo me, a volte c’era un sacco di gente che non aveva neppure i denti…

No, lo comperavano anche, c’era chi veniva quando c’erano le feste, per San Mauro, il padre di Giancarlo M., Iseo, veniva da mia madre e diceva: -Mi fate un cesto di panetti che c’è la festa?

La fiera ..

Al Cavallo Rosso lo facevano a san Mauro…no, non al Cavallo Rosso*, a Casa della Regina, il casaro di Casa della Regina* dice: – Ballano. E io vado a vendere i panetti. Avevo una moto con un sidecar, e mettevo lì il cestino e li vendevo lì.

Il sidecar…

Quella carrozzina attaccata alla moto.

Bene, siamo a posto.

Non si tribolava tanto per andare a mangiare fuori.

Eh si mangiava poco allora

Si mangiava poco ma era meglio

Il colesterolo era sotto controllo.

Non si andava dal dottore a fare gli esami.

Ma mi sembra che tu abbia tenuto botta.

Comunque ci vado poco anche adesso faccio in modo di andarci poco.


*Il Cavallo Rosso e la Casa della Regina erano due caseifici di Baiso. Per San Martino, quando i caseifici erano fermi, si facevano feste danzanti improvvisate in cui si vendevano i panàt.

Bibbiano

Marisa, 74 anni

Racconta: una filastrocca che si diceva quando si chiedeva in prestito l’ alvadōr.

Registrazione effettuata il 10 ottobre 2024.

Qui da noi si usava fare il pane in casa e si usava il lievito (alvador) e succedeva a volte che facesse la muffa, a volte, quando non c’era tempo per rinfrescarlo o quando si rimaneva senza per un qualche motivo e si andava a chiederlo in prestito dai vicini e avevamo inventato una filastrocca: “ Oh reşdôra mi prestereste un po’ del vostro tingheltenghel che stanotte lo metto a prendere e domani ve lo torno a rendere”. Questa era la filastrocca che si diceva qui a Bibbiano ma anche a Barco ma abbiamo sentito qualcosa di simile anche a Nonantola e nel mantovano. Abbiamo fatto fare una ricerca riguardo a questo detto, sono state fatte delle ipotesi ma non hanno trovato il bandolo.

Campagnola

Elisa, 74 anni

Racconta un’antica forma di corteggiamento.

Registrazione pervenuta il 15 novembre  2024.

Io sono nata in una famiglia di contadini, in campagna, e ricordo sempre quello che mi diceva mia nonna. Quando ero una ragazzina cominciavano a girarmi attorno dei “muscòun” (letteralmente “mosconi”, cioè dei corteggiatori) e mi raccontava quello che succedeva quando era giovane lei. 
Quando un giovanotto aveva adocchiato una ragazza che gli piaceva, faceva così. L’aspettava alla domenica pomeriggio, sul tardi, quando usciva dal vespro, poi la seguiva mentre andava a casa e le diceva: – Con permesso, vengo con voi a casa dal vespro?
Allora la ragazza, se il giovanotto non le piaceva, rispondeva: – Il permesso è già dato, basta bene che non ritorniate!
Allora lui capiva che non le piaceva. Se invece era un giovanotto che le andava bene, gli rispondeva: – La strada è lunga e il sentiero battuto, se c’è il posto per uno c’è anche per due!
Allora il giovanotto capiva che poteva andêregh a muròuš, cioè cominciare a frequentarla.

 

Carpineti

Francesco, 73 anni

Legge una poesia di Eolo Biagini, dal titolo: 

Al mulîn dla Sgnorana

Registrazione pervenuta l’11 novembre 2024.

Il mulino della Signorana

Quel mulino vicino al Tresinaro
Era proprio un bel mulino
E con quell’acqua bella chiara
Che la beveva anche un bambino,

Era tutta una allegria
A partire dal bacino del mulino
Con le papere e la famiglia
Delle paperelle che andavano a spasso.

Quando il gallo alla mattina
Cantava dentro al pollaio
E la mamma dentro la cucina
Ci preparava da mangiare

il mulino incominciava la giornata
Con le sue tre belle ruote
Fino a sera ma inoltrata
Con la solita canzone

Una canzone un po’ all’antica
Senza viole né violini
Che parlava della fatica
Del mestiere del contadino

Le tre macine di pietra serena
Lassù sopra il paramento ( che fermava la farina)
Con una allegra cantilena
Facevano l’accompagnamento

Carica carica o bel mugnaio la tramoggia
Che noialtri nel girare
Ti daremo della farina,


Della farina bella bianca,
Profumata che sa di pane.
E preghiamo che non manchi
Mai in casa né oggi né domani.

Un topino in un angolo
Con due occhi un po’ furbini
Si sgranocchia per colazione
Di frumento due tre granellini.

Un ragnetto tesse la tela
Proprio sotto il paramento
E si arrotola leggera leggera
Una polvere di farina che pare d’argento

Quando penso ai tempi di allora
Cosa devo dire? Andava cosi.
A ripensarci a modo e a questo tempo
Non son più quei giorni

Con la moda e col progresso
Le tre macine e le tre ruote ( di pietra serena)
Son sparite ma già da tempo
E con loro anche la canzone.

Ma il mulino giù dietro il Tresinaro
Anche adesso che non c’è più
Mi ricorda l’acqua chiara
Della mia bella gioventù.

 

Cavriago

Chiara, 68 anni

Recita due brevi filastrocche, una relativa al suo nome e l’altra legata alle previsioni del tempo che si facevano in passato.

Registrazione pervenuta il 21 novembre 2024

” Quando Chiara ha preso marito, sedie e panche saltavano in casa, sembrava ci fossero i ladri: era  Chiara che picchiava suo padre.” 

Quando le nuvole vanno verso sera (ovest) , prendi la rocca e fila. Quando le nuvole vanno verso mattina (est), prendi la zappa e poi cammina. Quando le nuvole vanno  in su (Sud), prendi la sedia e siediti. Quando le nuvole vanno in giù (Nord) metti il giogo alla vacca.

Guastalla

Alberto (Bebe), 80 anni

Racconta della passione della sua vita: la Canottieri di Guastalla.

Registrazione pervenuta il 06 dicembre 2024.

A parte il fatto che sono nato a Guastalla, in via Gonzaga, dove adesso c’è ancora la Cassa di Risparmio, dopo pian piano mi è sempre piaciuto andare a Po’, andare a Po’ alla Canottieri. Avevo 13-14 anni, andavo già alla Canottieri, si pagava 2-3 mila lire,  io andavo là e allora c’era il custode, un mio amico che era tornato dal Belgio, in pensione, io gli verniciavo le barche e lui mi pagava la quota, che io non li avevo 2-3 mila lire. Andavamo a pagarla da Scaltriti, un negozio che vendeva libri per la scuola, i libri per scrivere, le penne, vendeva tutte queste cose e faceva da tramite per la Canottieri, incassava le quote di quelli che volevano farsi soci. Negli anni, io ho sempre continuato ad andare alla Canottieri , fino al giorno d’oggi che nel ’59, un po’ più avanti, nell’89 sono diventato presidente  addirittura e tutti i giorni , anche se adesso abito a Poviglio, tutti i giorni io sono a Guastalla, alla Canottieri, perché mi piace segare l’erba, mi piace aggiustare quello che c’è da aggiustare intorno, se c’è qualcosa da verniciare lo vernicio, ho tutti i soci che mi seguono, e allora io cerco di fare il possibile perché a me piace molto stare alla Canottieri. Alla Canottieri abbiamo le barche, abbiamo i canoisti che vengono un po’ da tutte le parti, vengono i canottieri da Novellara, da Correggio, da Boretto, e abbiamo un mucchio di soci, abbiamo cento-centoventi soci, abbiamo i campi di calcio , campi da beach volley, campi da tennis, siamo una piccola società però siam sempre un centinaio di persone, un centinaio di persone che alla fin dei conti abbiamo una quota abbastanza accessibile, però se non ci diamo da fare l’un con l’altro  dandoci una mano, un domani la quota può diventare anche un milione, perché con tutte le cose che ci sono da fare c’è da diventare matti. Comunque, io mi trovo bene, ormai ho ammucchiato un mucchio di anni e tutti i giorni comunque io al pomeriggio sono alla Canottieri, sia d’estate che d’inverno, io son sempre lì e mi diverto, speriamo di stare bene e chiuso.

Novellara

(San Bernardino)

Sergio, 90 anni

Sergio racconta un episodio della seconda guerra mondiale, quando vide precipitare due aerei: anziché terrorizzarlo iniettarono in lui il desiderio di volare.

Il primo [aereo] era tedesco, è caduto. Io ero in campagna con mio padre che era andato a segare. Si sentiva un aeroplano che arrivava, poi si è fermato, si è aperto….  si è lanciato con il paracadute, ma io non sapevo neanche cosa fosse un paracadute. Allora dopo, pian pianino, l’aeroplano si è andato a conficcare sulla nostra terra là, e il pilota ha aperto il paracadute. Poi è andato a 300 m di distanza. Era tedesco ma a noi non interessava perché i tedeschi avevano la rabbia, non erano mica tanto amici. Se si fosse anche ammazzato…  invece no, per fortuna, non si è fatto niente.

Il secondo [aereo] era brasiliano. Ero lì fuori, vedo che arriva con l’ala che bruciava, l’ho guardato, ha ribaltato l’aeroplano, perché non c’era l’ eiezione, e anche lui ha aperto il paracadute. Io, da quel momento lì, mi è venuto quel tarlo lì [desiderio di pilotare un aereo, ndt] e non sono stato capace di rimuoverlo. Io, quando sentivo un aeroplano, stavo sempre fuori e mia nonna mi diceva: – Vieni dentro testone che ti mitragliano. Invece io no, passavano in alto e nella mia testa pensavo: “ chissà dove vanno, cosa hanno lì sopra, perché girano l’elica di un aeroplano?.

La pavēra, una comune pianta erbacea delle zone umide, si chiama in italiano carice.  La si trova anche in una filastrocca in In dialetto.

Il carice, qui nelle nostre zone, abbondava specialmente nei terreni nuovi. San Bernardino nel ‘500 era sommersa dall’acqua; dopo si è prosciugata e allora è terra di palude, si può dire. Per noi era una cosa importante perché, quando eravamo all’ epoca della raccolta, in primavera da giugno in poi, lo potevamo raccogliere. Quelli coscienti lo raccoglievano e lo tagliavano perché, dopo, ricresce; invece, quelli che fanno dei vandalismi lo estirpano: si raccoglieva più roba da portare a casa, però dopo non cresceva più, tant’è che adesso è protetto perché si sta perdendo. Era una cosa molto importante per noi, per le famiglie, per il nostro “vivere”, era una cosa necessaria. Negli inverni, quando si stava in casa, nella stalla in filôs, impagliavamo le sedie e si imparava anche ad impagliare guardando come facevano i più grandi. La pianta della pavra va raccolta, poi la si fa asciugare all’ombra, non al sole perché altrimenti si rovina la fibra, si sfilaccia tutta e si rompe. Invece, così, resta morbida solo a bagnarla. Di solito, la si metteva fuori al mattino fino alle 10, poi la ammucchiavano, la coprivano con un telo, con qualcosa se non c’erano piante da metterla all’ombra e poi, alla notte, la si apriva e lei si disidrata (?) con la rugiada e questa era la sua cura. C’erano delle mamme che avevano delle figlie pronte ad essere mogli, che  tenevano d’occhio noi giovanotti, che eravamo ragazzotti robusti, e c’era un detto all’inizio del ‘900 che diceva: “ Oh ragazzi pieni di stracci pieni di pavēra, siete ragazzi da prendere moglie?”Se loro dicevano “sì” allora gli facevano vedere le  figlie, già pronte, che avevano imparato a cucire la dote.

Reggio Emilia

Claudia, 57 anni

In onore della nonna Domenica, detta Bruna, Claudia ricorda i suoi modi di dire dialettali.

Registrazione pervenuta il 23 novembre 2024.

Reggio Emilia

Ilde, 77 anni

Esprime una lamentela tipica dalle nostre parti  delle anziane mogli verso i propri mariti, ma senza cattiveria, così, per dire… 

Registrazione pervenuta il 24 novembre 2024.

Mah, che marito che ho!  Come ho fatoo a trovarlo così lontano  dal mio carattere! Sembra che sis stato cercato con una lanterna. Peggio di così non poteva andare! Io mi preoccupo di tutto, lui non si preoccupa di niente, io sono una chiacchierona, lui non mi dice nemmeno una parola buona nemmeno in un’intera serata. 

San Martino in Rio

Carla, 73 anni

Quando i genitori non accompagnavano a scuola i loro figli .

Registrazione effettuata il  4 dicembre 2024

 

Sono nata a San Martino grande, in dialetto si dice così, però i miei erano andati ad abitare a Fazzano, dove avevano un piccolo appezzamento di terreno. A scuola sono sempre andata a San Martino con tutti i ragazzi del cortile. Eravamo un gruppo di 7 ragazzi, partivamo al mattino a piedi, non ci accompagnavano a scuola, facevamo 3 km, quindi neve, sole, pioggia: eravamo sempre in strada. Il nostro gioco era buttare la cartella, dalla gran voglia che avevamo di andare a scuola, davanti a noi soprattutto con la neve, e si rompeva sempre e quando andavamo a casa mia madre mi sgridava sempre perché facevo dei giochi da ragazzo, da maschio. All’epoca non si poteva, perché io ero una donna e dovevo fare …..avevo la fionda, però anche per questo prendevo altri nocchini, perché non si poteva. Poi, col tempo, pian piano, si è convinta perché eravamo solo due ragazzine con sei maschi e dei giochi da ragazzina non ne avevamo.

Sant’Ilario

Angelo, 75 anni

In questo ricco contributo, Angelo racconta quattro momenti della vita contadina, dando il nome preciso agli attrezzi che venivano utilizzati. 

Registrazioni pervenute il 7 dicembre 2024

Il padrone del podere vuole che si faccia un pozzo là in fondo, perché sembra che ci sia una vena là sotto. Quindi noi ci prepariamo con una pala e un piccone dal manico corto e cominciamo a scavare. Però, prima di cominciare a scavare, si devono prendere due assi e disporle a formare una croce, le si inchioda, e si fa una bella croce lunga due braccia, due braccia e mezzo. In questo modo cominciamo a scavare e quando siamo giù circa all’altezza di un uomo, piantiamo dei ferri tutt’ intorno per sorreggere i sassi che saranno la camicia del pozzo, per tenerlo ben foderato; li mettiamo ben stretti, così il muro resta ben fatto. Dopo, si va sempre più giù, sempre più giù, sempre con la croce in mezzo e man mano che si va giù, un metro e mezzo – due metri, piantiamo sempre dei ferri abbastanza lunghi, che stiano dritti e che sorreggano il muro, che si costruisce sempre di sopra. Quando arriviamo a trovare la vena, cosa facciamo? Facciamo la camera un po’ più grande che ci possa stare una bella cisterna [che contenga] diversi quintali d’acqua. Così la croce resta in fondo, perché il vecchio proverbio dice che in ogni casa non c’è una croce, c’è n’è una più grande! per dire che ci possono essere delle disgrazie o altre cose però, in ogni casa dove c’è un pozzo, c’è sempre una croce, che è fatta come ognuno vuole. Quando dicevano, un tempo: – In quella casa c’è il pozzo dai mille tagli, ci buttavano giù i bambini quando non volevano che si vedessero o che venivano abortiti e li buttavano giù- invece non era vero, sono tutti dei pozzi a camicia che sono crollati e i ferri che si vedono sembrano tante lame, ma non sono lame,  erano solo i ferri che tenevano sù i sassi. Dopo, cosa succede: che bisogna farci sopra un casotto, perché l’acqua è buona dopo che ci avremmo messo della ghiaia lavata e della calce viva da disinfettare, dopo che avremo sentito che l’acqua è buona, bisogna che sopra ci facciamo un casotto, con il suo sportello e nella trave sommitale (‘d culmégna)ci mettiamo una carrucola (sirèla) e, con una catena e una secchia (sècia) per attingere l’acqua, perché non possiamo lasciare aperto, l’acqua piovana non è buona da bere, non è acqua minerale, quindi bisogna che noi chiudiamo. Poi dopo che abbiamo fatto il pozzo, il padrone sarà contento

Attacchiamo il biroccio all’asino Matteo e poi carichiamo tutti gli attrezzi, piccone, picco con punta e taglio (cuntradèl), badile, mazza e le tagliole, andiamo a rimuovere quel ciocca (sóca) che c’è in mezzo al campo, che dà fastidio, che non ci consente di arare (rêr). Quindi, noi la estirpiamo, la portiamo a casa caricandola sul biroccio. Poi, quando siamo nell’aia, con l’accetta a due tagli  con la penna ricurva (pudaj), la seghetta (şghèta), la scure, la scuretta e anche l’accetta (manarèin) faremo tanti pezzi (pcòun) da bruciare nel fuoco e i pezzi più piccoli (ciapèli o s-ciapèli) che ne risultano li adoperiamo per accendere il fuoco.

In questa mattina con la brina ghiacciata (galabróşna) tiriamo fuori il verro dal porcile, poi con la spola e il mazzuolo gli diamo un bel colpo in testa, mentre il norcino (maséin) con l’ accoratoio (coradōr) dà il colpo di grazia. Con il sangue che sgorga, la massaia (reşdōra) farà i sanguinacci. Dopo lo peliamo bene, gli diamo una passata con l’acqua bollente scaldata nel paiolo della fornacella (fugòun) e dopo lo impicchiamo con il palanco (taj) sotto il portico e poi il norcino lo squarta e farà metà [parte] per il padrone e metà per noi. Dopo, tiriamo fuori il fegato e la reticella e ci faremo dei fegatini (figadèin) da mettere nello strutto (dôleghg) da conservare in un orcio panciuto (trégn) così dopo dura alcuni mesi in cantina. Nel frattempo, il norcino lavora tutta la carne, [fà] i salami, cotechini prosciutti poi coppa, pancetta e noi intanto con il grasso facciamo i ciccioli (grasōj), sempre nel paiolo, peliamo la testa, le orecchie, tiriamo via le orecchie, il muso, i ganascini e tutta la roba della testa e anche gli zampini(sanpèin) e facciamo la soppressata e con le cotenne (còdghi) che ne risultano facciamo dei buoni umidi, con dei fagioli che raccogliamo nell’orto.

Domani mattina di buon’ora dopo che abbiamo accudito le bestie e siamo andati al caseificio, prendiamo le falci messorie (msōra)che abbiamo battuto ieri [gli si è dato il filo] e andiamo nel campo allo spuntare del sole prima che cominci a scaldare, prendiamo un fiasco di vino sottile e una d’acqua, da mettere all’ombra sotto alla quercia. Poi cominciamo a mietere facciamo i fastelli (manèli) i covi e i covoni. Bisogna fare il lavoro rapidamente (fêr dl ôvra) prima che arrivi la sferza del sole (la randa dal sôl). Nel pomeriggio inoltrato, la vacca Rosina non la possiamo attaccare al carro perché è gonfia (imbalunêda) [per il cibo fermentato. Prendiamo la vacca più giovane Giorgia la attacchiamo al biroccio e andiamo a caricare il frumento perché dopodomani viene la macchina da battere con la pressa per le balle di paglia che metteremo sotto il portico che adopereremo per fare il letto per le vacche. L’importante è che si riempia lo staio (minòun), riempiamo i sacchi di ortiche e frumento e li portiamo nel solaio così con il padrone chiudiamo la spartizione (spartagna).

Scandiano (Cà de Caroli)

Loretta, 70 anni

Racconta quando, nel 1937, alcuni suoi paesani vollero chiamare il loro paese (Cà de Caroli) Sangrilà, come un piccolo paese dell’Himalaia.

Registrazione pervenuta il 24 novembre 2024.

Questa è la storia di Sangrilà, il nome che è stato dato al mio paese quando i miei paesani sono andati a vedere un film a Reggio. Sono venuti a casa così contentiche hanno voluto chiamare il mio paese come quel paese là. Quel paese là era un paesino piccolo, ai piedi dell’Himalaia dove tutti si amavano e si volevano bene. o racconto si intitola Sangrilà . Dopo aver cambiato nome nel mio paese tutti si volevano bene, tutti facevano tutto per tutti, lavoravano fino al venerdì, alla sera si radunavano in piazza a parlare del più e del menoe al sabato e alla domenica festeggiavano Sangrilà nella pista del direttore dell’officina, che nasceva sotto il Monte del Gesso. Allora loro ballavano, cantavano e recitavano. Recitavano le cose scritte dai miei paesani e anche le canzoni. Ma una sera la stella che doveva presentarsi alla festa non si è presentata (?), era scoppiata la guerra, i bambardamenti, con gli aerei che bombardavano le case del mio paese. Quindi, gli abitatnti pensavano a salvarsi la vita più che andrae alla festa e nessuno faceva qualcosa per qualcuno. Per anni (?) è durato Sangrilà, ma dopo la faccenda è cambiata. Io vorrei sapere che fine ha fatto Sangrilà, era bellissimo Sagrilà, il mio paese che si chiamava così, ma tutto era finito. Comunque, dopo la guerra, si sono aiutati lo stesso a costruire la case e tutto è finito bene. Io amo il mio paese perché è bello e tutti si vogliono ancora bene.

P.S. La signora Loretta ricorda benissimo : Shangri-La è un  luogo immaginario descritto nel romanzo Orizzonte perduto di James Hilton del 1933. Da questo romanzo Frank Capra realizzò l’omonimo film nel 1937. (vedi Wikipedia alla voce Shangri-Là).

Scandiano (San Ruffino)

Enza, 94 anni

Legge un racconto scritto da lei stessa, dal titolo: 

Diâlogh tra amîgh

Registrazione effettuata il 4 luglio 2024.

Dialogo fra amici

Un crampo, subito dopo aver fatto saltare dal letto un anziano, incontra l’osteoporosi: “Oh, ciao, come ti va con il lavoro?”  

Lei: “Anche se agli anziani non fa piacere, il lavoro non mi è mai mancato, e a te?”

“Bè, la mia è una ditta piccola, ma sono curioso di sapere chi mi ha battezzato; se siamo qui tutti e due, qualcuno ci ha portato! “

Lei: “So solo che la gente è arrabbiata con noi, ci mette il bastone tra le ruote; io vado con loro dal dottore, e sento che raccontano i loro dolori, qualcuno ci aggiunge anche qualcosa. Lui, che ha studiato, ascolta, e gli dà un parere, poi gli allunga un foglietto firmato, con dei nomi strampalati, da portare in farmacia. Devi vedere in quanti ci sono: uomini e donne vestiti di bianco che tirano fuori pillole, boccette e flaconcini da scriverci sopra [a cosa servono] sennò ci viene della confusione. Ognuno viene fuori con la sua borsina più costosa di quella della spesa. “

“Fermati – dice il crampo – mi devi spiegare: ai farmacisti, siamo noi che gli diamo da mangiare?” “Onestamente – dice lei – mentre noi facciamo del male alla gente, c’è chi guadagna per farla guarire, per allungargli un po’ la vita, ma sono di razza mortale!

Sai? Uomini e donne hanno di brutto che più che curarsi mangiano di gusto e non si tengono controllati. “

Il crampo:” Scommetto che sono loro che ci hanno battezzato. È possibile! Adesso vedrai che gli sto addosso, come scade l’effetto della cura, li torno a pizzicare”.

L’osteoporosi: “Sai? La gente le inventa tutte per scampare, ma per mal che vada anch’io trovo sempre un osso da rosicchiare!”